"Io imparo da solo": le basi neuroscientifiche dell'apprendimento spontaneo

È uscito di recente il libro "Io imparo da solo" di Elena Piffero, ricercatrice con un dottorato in cooperazione internazionale, attivista ambientale e madre di tre figli che ha scelto di non mandare a scuola. E ci illustra come l'apprendimento spontaneo trovi conferma nelle neuroscienze.

È uscito di recente il libro "Io imparo da solo" di Elena Piffero, ricercatrice con un dottorato in cooperazione internazionale, attivista ambientale e madre di tre figli che ha scelto di non mandare a scuola. E ci illustra come l'apprendimento spontaneo trovi conferma nelle neuroscienze.

Ciao Elena, da poco è uscito il tuo libro "Io imparo da solo!" sull'apprendimento spontaneo e la filosofia dell'unschooling. L'argomento solleva curiosità e immaginiamo anche molta perplessità. Ci puoi raccontare in poche parole di che cosa parla?

«L'apprendimento spontaneo è il modo di imparare in maniera proattiva, perlopiù senza nemmeno rendercene conto, semplicemente partecipando alla vita della famiglia e della comunità, che dall'alba dell'evoluzione della specie umana ci ha caratterizzato finché non è stato messo in atto quell'impressionante esperimento sociale di massa che è l'istruzione scolastica universale. E' quello per cui siamo neurobiologicamente programmati, tanto che inizia nel grembo materno e, se lasciato libero di proseguire indisturbato, permette di assimilare senza sforzo apparente, ciascuno con i propri tempi ed i propri ritmi, le competenze, le conoscenze e le abilità sociali più importanti nella società di appartenenza. Il meccanismo è semplice. I bambini sono naturalmente curiosi ed interessati alle cose che sembrano avere importanza per gli adulti che li circondano: li osservano, li ascoltano, fanno domande, li imitano nel gioco, si mettono alla prova simulandone le attività e nel fare tutto ciò imparano. Ha funzionato per la stragrande maggioranza della storia umana, funziona benissimo tuttora per i bambini piccoli ancora non scolarizzati (pensiamo all'acquisizione del linguaggio, o di linguaggi multipli nel caso di famiglie bilingui). Continua a funzionare anche oltre l'età scolare, a patto che si nutra abbastanza fiducia nelle capacità dei bambini, si sia disposti a garantire loro la libertà di determinare il proprio personale percorso di apprendimento senza voler interferire e ci si renda disponibili a facilitare l'accesso ai materiali, alle persone, alle opportunità intellettuali, culturali e sociali di cui man mano avranno bisogno. Questo modo di imparare così apparentemente caotico e disorganizzato è al contrario straordinariamente efficace ed efficiente, e nel libro sono ripresi e presentati molti studi a supporto, alcuni recentissimi. Ci tenevo molto a dare un'idea delle solide basi scientifiche su cui si basa la scelta di propendere per l'apprendimento spontaneo e auto-diretto. Parlare di unschooling in realtà è solo un modo di sottolineare che, per chi, come noi, sceglie di incorporare l'apprendimento nella vita quotidiana senza lezioni di sorta (se non quelle richieste esplicitamente dal bambino), i traguardi, i tempi, i contenuti, le modalità di apprendimento e di verifica proposte dalla scuola non hanno alcuna rilevanza in quanto sono frutto di scelte che, per quanto legittime, sono solo una possibilità tra le tante. La scuola prepara in un certo modo perchè promuove una certa visione del successo, basata su obiettivi estrinsechi e individualisti come la carriera, lo status, la ricchezza; privilegia la competizione sulla collaborazione e dà peso a parametri intellettuali e cognitivi trascurando altre dimensioni della persona umana, come quella del benessere fisico e psicologico, quella emotiva, quella etica, quella civile della partecipazione e della responsabilità sociale. Non esiste un approccio più giusto o sbagliato in assoluto, ma più condivisibile o meno a seconda del sistema di valori da cui si parte, che non può che essere soggettivo. E noi nelle proposte del sistema scolastico non ci siamo riconosciuti».

Nel libro, agli studi sul tema sono affiancati episodi della vostra esperienza famigliare. Quando e perché avete scelto di rinunciare all'istruzione scolastica?

«Io e mio marito Barak abitavamo in Inghilterra: lui era ormai avviato a una promettente carriera accademica in elettrochimica, io ero in una lunga pausa di maternità cominciata alla nascita della nostra primogenita, i nostri tre bimbi già sperimentavano la fluidità del bilinguismo. La vita da ricercatore universitario di questi tempi comporta frequenti trasferimenti, ed è stato proprio a cavallo di un trasloco che avremmo dovuto iscrivere la bimba grande alla scuola primaria, che in Inghilterra comincia a 5 anni. Solo che mio marito aveva presentato la candidatura per diverse posizioni, non sapevamo di preciso dove saremmo finiti ad abitare, e così non avremmo potuto iscriverla in tempo: è stata la spinta finale verso la decisione che già meditavamo da un po', cioè uscire dai percorsi di istruzione standard e lasciare spazio all'apprendimento spontaneo. Sono convinta che il fatto di esserci rodati come coppia e come genitori in Inghilterra sia stato un dono del destino, perché ci ha rimosso, volenti o nolenti, dalla rete di consuetudini e pressioni sociali in cui eravamo immersi senza rendercene conto nei nostri paesi di origine, e attraverso la diversità di un ambiente "altro" ci ha aiutato a diventarne consapevoli. Così abbiamo potuto esaminarle una a una, e valutare se riflettevano i nostri ideali, quello che davvero volevamo essere e diventare oppure no. Poi, ci ha fatto incontrare la realtà dell'homeschooling, che in Inghilterra è pur sempre una nicchia, ma significativamente più ampia che in Italia, tanto che alcune amministrazioni hanno persino attivato, in quelli che sarebbero i nostri provveditorati, delle figure appositamente formate per sostenere e supportare le famiglie che hanno optato per l'istruzione parentale. Dall'altra parte, la rigidità del sistema scolastico inglese che non ammette assenze se non per malattia comprovata, con sanzioni intorno alle 60 sterline per ogni giorno mancato di lezione per motivi non strettamente di salute, era troppo vincolante per noi che avevamo le famiglie all'estero. Infine, la familiarità con la lingua inglese ci ha aperto le porte a un immenso patrimonio di libri, saggi, ricerche accademiche, documentari e via discorrendo che dagli anni '60 hanno affrontato in maniera molto critica le tematiche dell'apprendimento e dell'istruzione, e che per la maggior parte non sono disponibili nella traduzione italiana. E così, l'homeschooling che all'inizio ci sembrava un'opzione un po' stramba ha preso sempre più i contorni di una scelta ragionevole, anzi a forza di documentarci ne abbiamo abbracciato la versione più radicale, l'unschooling appunto».

Questa scelta come ha cambiato la vostra vita?

«Non so dire se la nostra vita è cambiata quando abbiamo deciso di permettere ai nostri figli di assumere il pieno controllo del loro percorso di crescita e apprendimento, o se è stato il cambiamento già in atto delle nostre abitudini e delle nostre attitudini che ha fatto spazio all'unschooling. Forse uno ha rinforzato l'altro, e insieme hanno contribuito a portarci a costruire un percorso molto lontano dal punto da cui siamo partiti. La Professoressa Helen Lees della Newman University di Birmingham, che abbiamo conosciuto in Inghilterra e si occupa di homeschooling, sostiene che nelle famiglie che abbracciano questo tipo di scelta si innesca di solito un cambio di paradigma, e certo questo riflette la nostra esperienza. La consapevolezza che i bambini imparano soprattutto dall'esempio, e quindi la responsabilità di offrire modelli positivi, ci ha portato a un riesame di tutte le nostre scelte: dalla mobilità, al lavoro, allo stile di vita. Se in cima alle nostre priorità c'è la costruzione di relazioni più armoniche con noi stessi, all'interno della famiglia e con l'ambiente e le persone che ci circondano, dobbiamo agire di conseguenza. E così, abbiamo comprato una cargo bike e venduto l'auto; abbiamo deciso di lasciare l'Inghilterra e mio marito ha rinunciato alla carriera accademica per trasferirci in un casolare nelle campagne modenesi, vicino alla mia famiglia di origine, dove abbiamo rivisto al ribasso le nostre necessità dal punto di vista economico e ci siamo reinventati il lavoro come insegnanti di inglese part time. L'inglese ci ha aperto tante strade e tanta conoscenza e con passione cerchiamo di trasmetterlo ai nostri studenti. Meno ore di lavoro retribuito, l'orto, l'economia del dono, del riuso e del recupero hanno portato a ritmi di vita più rilassati, più spazio per la lettura, la musica, il fai-da-te (con tutte le soddisfazioni del caso!), ma soprattutto il tempo insieme, la condivisione e la presenza, che è fondamentale per i bambini tanto quanto la libertà di decidere se approfittarne oppure dedicare tempo alle loro attività individuali. Abbiamo le toppe ai pantaloni (e le portiamo con orgoglio!) ma ci sentiamo molto più realizzati e in linea con i valori in cui crediamo. E più felici».

Nel libro parli molto del rapporto tra educazione, libertà e autorità.

«Assumerci in toto la responsabilità dell'educazione e della formazione dei nostri figli ci ha imposto anche una riconsiderazione del tipo di rapporto che volevamo avere con loro, e tra di noi. Siamo infatti acutamente consapevoli che è proprio nell'ambito della famiglia che vengono interiorizzati dei modelli di comportamento e di azione che poi condizioneranno per tutta la vita. L'apprendimento spontaneo si basa sul rispetto delle esigenze, delle competenze, delle necessità e delle traiettorie individuali di ciascuno e presuppone relazioni basate sul dialogo, la negoziazione, il rifiuto del condizionamento e della manipolazione. Nell'unschooling e nella genitorialità non violenta che esso comporta abbiamo riconosciuto una forte pedagogia politica: una sfida alle pratiche egemoniche ed autoritarie tipiche del capitalismo neoliberale. L'unschooling è una filosofia educativa che privilegia la collaborazione e la solidarietà, toglie le figure adulte dal piedistallo dei depositari ultimi della conoscenza e restituisce dignità, diritti e azione ai protagonisti dell'apprendimento, i bambini. Non è facile nè automatico, anzi questa consapevolezza porta ad uno sforzo quotidiano per avvicinarci quanto più possibile ad una relazione davvero liberante e antiautoritaria: ma nella distanza tra noi e l'ideale si inserisce il lavoro che facciamo ogni giorno su noi stessi, un lavoro che speriamo possa essere esso stesso un modello. Non possiamo mai dirci arrivati ma il bello è proprio in questo continuo tentativo di migliorarci, ascoltare i dubbi, riconoscere gli errori, alimentare la speranza».

E i bambini? Come vivono questa scelta?

«Il mio non sarebbe un giudizio obiettivo... ma direi che la vivano bene. Chi ci conosce li vede, come li vediamo noi, sereni e vivaci. Sono disordinati e curiosi, litigano come tutti i fratelli; le due grandi hanno imparato a leggere (da sole), il piccolo sta cominciando a scrivere, amano i libri e la biblioteca è per loro una miniera di tesori, il che per noi è molto rassicurante. Suonano il violino (abbiamo persino costituito una band famigliare!), sono socievoli e hanno amici più grandi e più piccoli, alcuni incontrati a lezione di musica, altri agli eventi sociali a cui partecipiamo, altri ancora figli di amici. Insomma, nemmeno la socializzazione è un problema come invece sembrano pensare in tanti. Se un giorno decideranno di voler rientrare nel percorso scolastico, ne parleremo e li asseconderemo. Abbiamo fiducia che, se ci sarà un divario in alcune materie, lo potranno colmare con un po' di impegno, data la motivazione: in fondo sarebbe una scelta loro. E se invece vorranno continuare ad imparare da soli, saranno liberi di farli. L'esame di maturità in fondo si può affrontare anche da privatisti, e molte università di prestigio nel mondo anglosassione reclutano attivamente tra gli unschoolers quindi ci sono molte strade aperte».

E dal punto di vista legale?

«L'istruzione parentale è perfettamente legale e legittima; dal 2017 è stato introdotto 'obbligo di presentare i babimni che seguono un percorso di istruzione parentale a un esame di fine anno che attesti il superamento di alcuni obiettivi minimi di apprendimento. L'esame per noi finora non è stato fonte di particolari preoccupazioni, nonostante gli insegnanti abbiano avuto poco supporto e poche indicazioni da parte del Ministero e quindi si siano trovati davanti qualcosa che, giustamente, non sapevano bene come affrontare. Ma si è aperto un dialogo e anche grazie allo sforzo della Laif (Associazione Italiana Istruzione Famigliare) si sta lavorando a delineare delle linee guida che possano facilitare il compito a tutti. Come per tutti i pionieri, l'inizio è un po' dissestato».

 

Io Imparo da Solo!

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