Oltre il cono d'ombra del PIL

La cultura economica che ci ha indotto all'implosione ha fatto il suo tempo, così come il PIL. Il coronavirus ha cambiato drasticamente gli scenari e ora occorre introdurre misure e parametri del tutto diversi.

Oltre il cono d'ombra del PIL

«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore».
«Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta e viva in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso».
Con queste parole, comparse nel 1955 sul Journal of Retailing, il consulente per l’economia all’Amministrazione Truman, Victor Lebow, santificò la cultura economica che ci avrebbe condotti all’implosione. Riletta oggi, questa affermazione - lanciata a bomba contro l’ecosistema - ha rappresentato una dichiarazione di guerra contro la qualità della vita umana, sradicando le persone dal proprio territorio, segregandole nelle città, espropriandole dell’archetipico legame con la Natura e, in sostanza, formalizzando la sudditanza culturale dell’intero occidente al dogma della crescita ad ogni costo: di fatto, si fece coincidere il concetto di benessere con l’ammontare degli scambi commerciali, sintetizzabili da un’unica metrica, il Prodotto Interno Lordo.
Rendendosi conto del pressapochismo di quella identità (Pil = Benessere), negli ultimi anni il dibattito economico e culturale si è (tiepidamente) arricchito di una rinnovata sensibilità nei confronti della tutela dell’ecosistema (se non altro, in quanto fornitore di fattori produttivi), esplorando nuove soluzioni per la misurazione del benessere sistemico e, di fatto, introducendo dei modelli di sviluppo alternativi a quello dominante. Tutto questo, però, troppo lentamente.
Nella prefazione italiana del 2004 a “Bioeconomia” (N. G. Roegen, 1977), si trova una considerazione assolutamente profetica: «Due sono essenzialmente le alternative. La prima è che una qualche catastrofe di dimensioni planetarie induca una profonda revisione delle preferenze. La seconda è che una profonda revisione delle preferenze eviti la catastrofe».
Purtroppo, il coronavirus ci ha improvvisamente catapultati nel primo scenario (proprio in queste ore emergono i primi studi sulla relazione della sua diffusione con l’inquinamento atmosferico, che ne farebbe da carrier). Ed essendosi la maggior parte di noi comportata in questi decenni come cicale (vivendo cioè al di sopra delle proprie possibilità), ora non c’è più tempo per applicare rapidamente e su scala globale un nuovo modello di sviluppo. La transizione sarà graduale. Quindi, in base al principio che non puoi gestire ciò che non riesci a misurare (you cannot manage what you don’t measure), la soluzione più immediatamente accessibile per invertire la rotta può soltanto essere, semplicemente, introdurre una misura diversa.
In pratica: allo stesso modo in cui, per disciplinare il traffico sulle strade, vengono imposti dei codici comportamentali la cui osservanza è misurata da un unico indicatore (la velocità) rilevato da un unico strumento (il tachimetro), riteniamo che, per indurre una revisione virtuosa dei comportamenti sociali ed economici, occorra quanto prima una modifica - autentica e seminale - del “tachimetro” del benessere economico.
Ma come? Prima di rispondere, è opportuna una breve ricognizione delle soluzioni attualmente esistenti, alternative (o integrative) al Pil:
. MEW (Measure of Economic Welfare), proposto da due Premi Nobel (Nordhaus e Tobin), ipotizza di integrare nel Pil un maggior peso degli investimenti, una stima del valore domestico (economia non formale) e la spesa per l’ambiente.
. Pil Green, adottato virtuosamente dalla Cina, si ottiene sottraendo al Pil i costi per danni ambientali e una stima del depauperamento del patrimonio naturale.
. HDI (Human Development Index), introdotto in ambito ONU e ispirato al lavoro di A. Sen, ha lo scopo di assemblare, in un unico indicatore, il Pil procapite, la speranza di vita e il grado di alfabetizzazione di una popolazione.
. GPI (Genuine Progress Indicator), ispirato ai contributi di Daly Cobb e Lawn, è un indice che sottrae al Pil i costi sociali dell’inquinamento, della criminalità, dei divorzi e del depauperamento dell’habitat, integrandolo con una stima del lavoro domestico e del volontariato (oltre ad altri fattori legati all’equità sociale).
. BES (Benessere Equo e Sostenibile), introdotto in Italia dall’Istat per affiancare al Pil un’intera gamma di indicatori (centotrenta) tesi a rilevare 12 “domini” ritenuti rilevanti per la misura del benessere: sforzo certamente apprezzabile, ma troppo dispersivo.
In ultima istanza, la prospettiva di un nuovo modello di economia potrebbe articolarsi su tre diversi piani:
. un piano di governance sistemica, che introduca una nuova univocità nel criterio di misurazione del benessere ecosistemico e che, senza stravolgere le prassi esistenti, includa all’interno del Pil anche i costi sociali ed ambientali dello sviluppo economico.
. un piano imprenditoriale, che preveda agevolazioni fiscali alle attività produttive caratterizzate da minore impronta ecologica, sanzioni a quelle ad alto impatto e incentivi agli investimenti green.
. un piano sociale, orientato alla sensibilizzazione dei cittadini – anche mediante campagne ad hoc – in termini di: rimodulazione delle scelte di consumo e alimentari, azioni di contingentamento nella comunicazione pubblicitaria di beni/servizi non sostenibili.
Che ne siamo coscienti oppure no, quelle che ci attendono (soprattutto nel breve termine) saranno nuove forme di economia di comunità che, beneficiando delle innumerevoli soluzioni consentite dalla tecnologia, tornino ad occuparsi principalmente del soddisfacimento dei bisogni essenziali degli esseri umani, ispirandosi a una dimensione “vernacolare” (cioè comunitaria, cfr. Ivan Illich) dell’esperienza umana, e riposizionando i presupposti della prosperità al di fuori dei canoni convenzionali (rif. T. Jackson, “Prosperità senza crescita”, 2017). Sul versante attuativo, tale prospettiva dovrà necessariamente passare per un vigoroso impulso al settore primario dell’economia (l’Italia è il Paese con il maggior valore aggiunto in agricoltura al mondo e questo dovrebbe diventare un attrattore di investimenti più di ogni altro).
Affidiamo infine la conclusione di queste riflessioni a colui che, forse più di ogni altro, ha saputo preconizzarle con maggior lucidità:
«Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciato per due secoli, per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. [...]
Ma attenzione: il momento non è ancora giunto! Per almeno altri cento anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile, e quel che è giusto no».
Sono parole di J. M. Keynes, uno dei più grandi e lungimiranti economisti del Novecento.
Piccola curiosità: risalgono al 1930.

(*) Bibliografia essenziale:
Bioeconomia (N. G. Roegen, 1977)
Prosperità senza crescita (T. Jackson, 2011)
L’economia della ciambella (K. Raworth, 2017)

 

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