Simone Perotti alla ricerca degli Stati Uniti del Mediterraneo

Dopo sei anni di navigazione all’interno del progetto Mediterranea, Simone Perotti ha scritto il libro Rapsodia mediterranea, sul suo viaggio e sulle caratteristiche del nostro mare che sono quanto mai affascinanti e variegate. Perotti nel suo bellissimo testo ci parla di mitologia, nautica, storia, geografia, filosofia, cultura, compresa quella alimentare che tanta importanza e tradizione ha per i nostri popoli.

Simone Perotti alla ricerca degli Stati Uniti del Mediterraneo

Dopo sei anni di navigazione all’interno del progetto Mediterranea, Simone Perotti ha scritto il libro Rapsodia mediterranea, sul suo viaggio e sulle caratteristiche del nostro mare che sono quanto mai affascinanti e variegate. Perotti nel suo bellissimo testo ci parla di mitologia, nautica, storia, geografia, filosofia, cultura, compresa quella alimentare che tanta importanza e tradizione ha per i nostri popoli. E lo fa anche attraverso la voce delle varie personalità che nel corso del viaggio ha intervistato. Il suo obiettivo è proporre l’idea degli Stati Uniti del Mediterraneo in alternativa ad una visione che ci fa guardare troppo ai popoli anglosassoni che hanno probabilmente meno a che fare con noi piuttosto che le popolazioni mediterranee.  Lo abbiamo intervistato in occasione della recente uscita del libro.

Quando sei partito per il progetto Mediterrranea fuggivi da qualcosa o eri in cerca di qualcosa?

«Progetto Mediterranea è il frutto di un tempo finalmente liberato. È una parte molto importante del mio trovarmi finalmente col tempo e la concentrazione disponibili per poter fare quel che desideravo davvero. Tempo e sensibilità/pensiero sono due volumi che nella vita contemporanea sono raramente vuoti e disponibili. Dopo aver assai lavorato a quei due volumi, dal 2008 in avanti sono riuscito a riempirli con la materia della mia vita: scrittura/studia e poi mare. Dunque la risposta è no, non stavo fuggendo da nulla, forse per la prima volta…».

Il Mediterraneo è di una ricchezza e varietà uniche in ogni aspetto, culturale, alimentare, naturale; perché stiamo facendo di tutto per distruggere questo inestimabile patrimonio?

«Perché non siamo consapevoli del suo valore. Non siamo in grado di comprendere le cose né per amore né per forza. Non riusciamo a capire cosa dobbiamo preservare per la nostra salvaguardia, perché quando sarà compromesso saremo finiti, ma neanche cosa dobbiamo proteggere per il nostro piacere. Vedo che tante persone proteggono e curano i loro oggetti, perché ne percepiscono un valore importante. Dunque se il Mediterraneo non viene valutato adeguatamente vuol dire che devo moltiplicare gli sforzi per farlo percepire come il luogo di grande valore della nostra storia di uomini. Cosa che per qualche ragione oggi non avviene. Non in Italia almeno, ma neppure molto altrove».

Quali sono stati nel tuo viaggio di sei anni nel Mediterraneo i maggiori segni di speranza e quali invece quelli più fallimentari?

«I popoli mediterranei guardano a Riyad e a Washington, due paesi che condividono alcuni valori politici e di considerazione del ruolo delle risorse naturali e del denaro. I popoli cristiani della costa occidentale e settentrionale guardano a nord ovest, verso gli USA, mentre gli islamici della costa orientale e meridionale guardano, con le dovute differenze, a sud est. Dunque entrambi danno la schiena al mare, al proprio mondo. Oggi il denaro, il potere, dilagano come valori preminenti anche del Mediterraneo, e questo non viene moderato o contrastato da spinte opposte adeguate. D’altra parte, il Mediterraneo che tutto e tutti vogliono disgregare, resiste, sta lì, e come scrive Tahar Ben Jelloun: “nonostante il Mediterraneo sia disordine, è anzitutto sinonimo di vita. Pur con tutte le sue crepe ogni mattina la vita prevale e trionfa”. Ma naturalmente, sei anni di viaggio, e tanti anni di studio rendono possibile una risposta molto lunga a questa domanda. Per questo ho scritto “Rapsodia mediterranea”».

Sembra che il modello di condivisione che hai proposto sulla barca abbia avuto problemi; quali in particolare e come sono stati risolti?

«Come li ha qualunque organizzazione che si ponga l’idea della convivenza e della condivisione come obiettivo preminente o almeno importante. Condividere una casa, un orto, una macchina in dieci persone è già molto difficile. Condividere un sogno, un’ideale, una visione, lo è molto di più. Condividere sia la barca che il sogno, poi, lo è enormemente. Solo io, col mio eterno ottimismo, pensavo che sarebbe stato possibile senza fatiche o cadute. Del resto vedo che per tanti le cose vanno ugualmente: stare insieme pone enormi problemi, di comunicazione, di relazione, di sensibilità, di codice comune. In mare, su una barca, per anni, tutto si amplifica. Una delle cose che ho capito è che tanti problemi vengono dalla confusione che viviamo quando ci mettiamo in qualcosa. Non averne consapevolezza espone già a enormi rischi».

In che modo nel concreto si potrebbero realizzare gli Stati Uniti del Mediterraneo che descrivi nel libro? In tempi di razzismo dilagante pensi che noi abbiamo più similitudini con un tunisino che non con uno svizzero?

«Noi mediterranei siamo meticci. Figli di mille contributi cromosomici e di mille lingue. Dunque certo, abbiamo legami profondi con l’Europa, ne siamo l’anima meridionale, vorrei dire l’enzima fondativo. Non è un caso che l’idea originaria dell’Europa unitaria sia stata elaborata da uomini e donne del mediterraneo su un’isola del Mar Tirreno. Noi siamo molto simili a tutti, che vengano da nord o da sud, perché in quelle direzioni ci sono andati partendo dal Mediterraneo, dunque chiunque quando viene qui sta solo tornando a casa. Il razzismo è solo una delle tante manifestazioni della paura e dell’ignoranza, ed è antico come il mondo. Oggi per qualche motivo c’è solo meno ritegno a manifestarlo, c’è sempre stato, e la perdita di legami con un centro esistenziale di valori amplifica le sue manifestazioni. Per un Mediterraneo unito e solidale, organizzato al benessere delle persone e che sa dialogare serve un popolo mediterraneo, dunque serve un individuo mediterraneo. Bisogna lavorare molto per suscitarlo, far prendere consapevolezza, far comprendere e soprattutto sentire un’identità. Obiettivi molto ambiziosi, ma alla nostra portata».

Quale è il paese più mediterraneo fra  i mediterranei e quale è il meno mediterraneo e perché?

«Se parliamo di sensibilità, perfino la Germania è più mediterranea della Francia. Ciò che parla mediterraneo sulla costa francese è solo ischitano, ponzese, còrso, catalano e maghrebino, ma non “franco”. I francesi, nel Mediterraneo, sono turisti, non molto cittadini di questo mondo. I più mediterranei di tutti, faro allora e faro oggi di una possibile cultura del Mediterraneo, sono certamente i greci. In generale però, i mediterranei sono quasi sempre individui, non tanto nominabili con la loro cittadinanza. Come i luoghi più mediterranei, più vicini alla natura del proprio mondo, sono le isole, non tanto i Paesi».

L’incontro con l’architetto greco Tsouroukidis che riporti è eccezionale. Tra l’altro bestemmia in chiesa quando dice che la crisi è un opportunità per la Grecia, non una sciagura e che se non hai sogni non puoi avere coraggio. Un gigante; puoi parlarcene più diffusamente?

«Babis, questo il suo affettuoso soprannome, è un attivista e uomo di cultura greco come ce ne sono molti, solo che non li conosciamo. Lui è l’erede della grande cultura del Mediterraneo, una voce da cui dovremmo imparare molto. Ha una visione del Mediterraneo lucida, piena, e indica vie percorribili in termini filosofici e individuali. Il Mediterraneo credeva nell’individuo, ha smesso a favore di classe e comunità sotto l’influenza cristiana e marxista. Ma ha tutti gli elementi per tornare a credere nell’individuo, che è il credo più autenticamente sociale, relazionale e comunitario che ci sia, ma non ha niente a che vedere con l’individualismo di stampo anglosassone né con l’ipertrofia popolare/comunitaria di stampo cristiano/marxista. Babis indica il punto dove abbiamo sbagliato strada, cioè dove dobbiamo tornare per imboccare la via giusta e procedere in avanti».

Incredibile che le ricerche che avete fatto dal punto di vista ambientale durante la spedizione non abbiano avuto l’adeguato interesse; secondo te per quale motivo?

«Perché il mondo della ricerca scientifica è messo piuttosto male. Vive di finanziamenti che servono a tenere in piedi strutture e persone. Sopravvivere è l’obiettivo principale delle unità universitarie scientifiche. La ricerca è costantemente in allarme, teme per la sua stessa sopravvivenza, dunque non è serena, non è lucida, non focalizza tutte le sue risorse sulla sostanza dello studio ma su questioni verso le quali è inadeguata: politica, potere, denaro. Ciò che fa la ricerca scientifica in questo contesto è miracoloso, ma svincolata da questi orpelli potrebbe fare molto di più».

Nel libro affermi che la nostra civiltà è in grave decadenza e descrivi un futuro dalle tinte fosche; perché? Secondo te si può risalire la china?

«Le tinte fosche non sono le mie, sono quelle dei centri intellettuali e di ricerca che elaborano scenari. Ma certo che si può interrompere questa deriva. Anzi, sta già avvenendo. Sempre più persone aprono gli occhi su una realtà piuttosto diffusa: noi che abbiamo le maggiori fortune del pianeta non viviamo al meglio, non siamo così in armonia come dovremmo, abbiamo fatto molte scelte sbagliate, e stiamo anche avendo un impatto grave sull’ambiente. Soprattutto, possiamo vivere in modo più soddisfacente, più ricco e pieno. Ma per farlo l’individuo deve assumere su di sé la responsabilità storica e psicologica della propria vita. Su questo non c’è molta mediazione possibile: chi elabora un pensiero e si muove oggi, può cambiare davvero e vivere bene per il tempo che gli resta. Gli altri direi che un po’ di preoccupazione dovrebbero averla».

Proponi che chi ha una proprietà  sia obbligato a viverci, pena la vendita, ma in questo modo si sconvolgerebbero il mercato immobiliare e l’inalienabile e sacro diritto della proprietà privata...

«Io credo sia semplice: chi ha doppie o triple proprietà, anche vecchie o antiche, in borghi e cittadine, o ci vive o le ristruttura e se le tiene vuote o le vende. Mi pare sensato. Il Paese è ricco di luoghi che stanno andando in rovina, ma sono bellissimi. Ci sono migliaia di case di pietra che si potrebbero ristrutturare e abitare. Tenerle lì, vederle gradualmente crollare, è una pena. Occorre lanciare un grande programma di ristrutturazione e riabitazione dei borghi e delle case isolate immerse nella natura. Perfino il PIL se ne gioverebbe, cosa della quale interessa solo ai finanzieri, ma crescerebbe l’attività sana, che manutiene case e territorio, che torna a far vivere le periferie del Paese, e del Mediterraneo, che rischiano il definitivo abbandono».

Contesti la cementificazione, il turismo di massa e le navi da crociera; ma non sarai mica un pazzo luddista, decrescente, oscurantista che vuole andare contro il progresso?

«Io credo che sia sempre bene poter fare, i divieti non mi piacciono. Però è anche chiaro che non tutto quello che interviene nella modernità è da considerarsi positivo. Le grandi navi hanno un impatto enorme per un tipo di divertimento a cui si può rinunciare facilmente. Servono più a chi le arma che a chi le frequenta. Inquinano troppo, non possiamo più permettercele. Fossi il Presidente del Mediterraneo bandirei tutte le grandi navi inutili dal Mediterraneo. E vieterei la costruzione sulle coste, ormai troppo cementificate. Almeno prima di aver ristrutturato ogni cosa esistente. E forse anche dopo, almeno in modo indiscriminato. Quando ci si rende conto che qualcosa a cui si è abituati va interrotto o cambiato, perché crea danno, non si è né luddisti né estremisti. Si è solo sensati e razionali».

Fai una interessante distinzione fra legalità e giustizia; spiegaci meglio cosa intendi.

«Intendo dire che non sempre ciò che la legge implica è giusto. Pensiamo alle leggi razziali nel Ventennio fascista: erano legge, dunque applicarle era legale, ma non erano giuste. Idem per i migranti, i Decreti di qualche folle Ministro degli interni (non va nominato, così non gli si alza l’algoritmo) hanno reso almeno formalmente legale comportamenti ingiusti. Pensiamo a Mimmo Lucano. In questa epoca, tra legalità e giustizia non bisogna avere dubbi. serve coraggio, lo so, ma serve anche fermezza sui principi».

Attraverso le parole del greco Tassios metti in guardia contro la tecnocrazia. Perché e a chi ti riferisci?

«Mi riferisco a questo pensierino debole che guida una recente classe politica. Definirsi post-ideologici è solo una stupidaggine. Un tempo quello si chiamava solo qualunquismo. Quando devi fronteggiare qualcosa di conosciuto hai l’ausilio di come si è fatto prima del tuo arrivo. Ma quando devi fronteggiare un problema nuovo, dettato dalla modernità, dalla tecnologia, a cosa ti riferisci per risolverlo, se non a un apparato di valori chiaro e forte? L’uomo vale di più o di meno del denaro? Sei o non sei antifascista? Tra salute e lavoro cosa scegli? Vuoi che la forbice tra ricchi e poveri si restringa o va bene che sia così larga? Ecco, essere post-ideologici significa non dare peso a queste domande e decidere volta per volta. Cioè essere pragmatici su cosa conviene oggi. Il che è “tecnocrazia”. E la tecnocrazia precede le dittature. Ma non lo dico io, lo dicono diecimila anni di storia».

Giustamente dici che ognuno è artefice del proprio destino e contesti la caratteristica tutta italiana di lamentarsi e dare spesso la colpa agli altri delle avversità. Ma questo è vero forse per il 20% del mondo ricco che può scegliere. Il destino del restante 80% è nelle mani di altri; o pensi che pure chi è sfruttato bestialmente, nella disperazione, sotto le bombe, alla fame, possa decidere il suo destino?

«Penso che se fossi alla fame sceglierei subito cosa fare per evitare di morire. Lo stesso se fossi sotto le bombe. Occorre però dare stimoli, cultura, informazioni a tutti perché possano assumere la forza per decidere del proprio destino. Non c’è risposta manichea o percentile, c’è sempre l’uomo, che da sempre ha dovuto assumersi responsabilità individuali. La cultura serve solo a questo: far comprendere a tutti che se deleghi a denaro, economia, potere la tua sorte devi essere pronto a pagarne il prezzo».

Interessante la descrizione che fai degli italiani e la messa in discussione di una eccessiva teatralità o emotività che ne fa delle macchiette stereotipate. Come dovrebbe essere invece l’italiano secondo te o quali difetti dovrebbe perdere?

«A me dà sempre molto fastidio osservare come ci compiacciamo dei nostri difetti, come ci stia bene il quadretto in cui veniamo incasellati. Io sono un nativo del Mediterraneo e per me questo vuole dire che posso stare dovunque. Se mi metti a cena con la Regina d’Inghilterra, io so stare seduto a quel tavolo. Se mi metti mezzo nudo su un molo sporco di un porto sepolto insieme a una ciurma di nomadi del mare, io so stare su quel molo, è casa mia. Non amo chi si rinchiude in una descrizione e ne fa un vanto rigido. Noi siamo insopportabili quando siamo rumorosi, esattamente come si dice che siamo. O quando siamo confusionari e pressapochisti, esattamente come si dice che siamo. Io so essere confusionario e casinista, ma questo non vuol dire che io debba sempre aderire a questo stereotipo. Mi fa pena la gente che non sa essere altro da quello che è. E questo vale per i pregi come per i difetti. La cosa iù tragica che si possa dire di sé, come fosse una pietra tombale sui discorsi, è: “Io sono fatto così”. Ecco, quella è una cosa che mi intristisce. Ogni volta che mi viene di pensarla dico subito: “No, su questo voglio cambiare subito”».

Descrivi i porti come cimiteri e le barche a vela usate poco come bare; perché?

«Perché le ha pagate care un uomo che sognava di usarle e invece sta sempre a lavorare. È un’icona del nostro tempo. Ed è molto triste».

Cosa intendi quando definisci tragica la situazione di chi aderisce filosoficamente a quello che fa per campare anche se quel lavoro è assurdo, inutile e dannoso? Sembra la descrizione della maggior parte dei lavori e dei lavoratori attuali.

«La vita è dura per tutti. E capita di dover fare, anche per periodi, cose che non sono divertenti o edificanti o neppure giuste talvolta. Va bene, può capitare. Ma chi si trova in quella condizione non può amare ciò che fa. Se lo deve fare, lo faccia, sperando di poter cambiare il prima possibile! È un po’ come l’esempio del carcere: se ti capita di starci, va bene, è andata così, ma speri di uscire il prima possibile, non ti innamori della cella».

Affermi che: ” Quello che devi fare lo devi fare adesso, senza indugio, almeno se è importante per te.” Dato che tanti rimandano costantemente, vuol dire che non hanno nulla di importante da fare o per cui vivere?

«Vuol dire che si sono distratti. Se si concentrassero, se avessero chiaro l’ordine di priorità, penserebbero subito a cosa fare e lo farebbero. Capirebbero che tra cinque anni o dieci o trenta moriranno. Il tempo, con buona pace di Einstein, è l’unica fonte non rinnovabile dell’Universo».

Si legge nel tuo libro: «A questo servono i libri veri, scritti da chi sente l’urgenza interiore di quella specifica storia, e non si cura che sia un prodotto che vende oppure no. A questo servono gli intellettuali che seguono uno spunto o una tesi, per la loro sensibilità, non solo per piazzare un saggio, per vendersi come conferenzieri o opinionisti televisivi. A questo serve studiare la vicenda umana, rintracciarla oltre i canali formali e le proposte del sistema dell’entertainment, per raccontarne le storie, per consentire a tutti di scegliere, riconoscendosi  in una o in un’altra». A mio avviso stai descrivendo praticamente il mercato editoriale italiano dove i libri in grandissima parte si fanno proprio per seguire il circo mediatico, non certo per i loro contenuti. Anzi è il circo mediatico che detta i contenuti  a tutti, compreso agli intellettuali di cui parli e proprio per questo motivo i libri che hanno grandi messaggi da mandare, sono spesso ignorati. Se ne potrebbe dedurre che, considerando anche da quali personaggi e temi sono occupate le classifiche di vendita, l’editoria di qualità in Italia è morta o comunque moribonda?

«No, e lo dico per amor proprio, visto che in classifica ci sono anche i miei libri. Io vedo più moribondo il lettore dell’editore, francamente. Il che non vuol dire che gli editori siano tutti del tutto a posto. Corrono dietro alla quantità, spesso, per rimpiazzare il calo delle vendite, e questo droga il mercato. C’è anche un enorme problema di distribuzione e di punti vendita. Ma certo, mi pare che il lettore se la passi anche peggio».

Riporti un pensiero strepitoso dello scrittore israeliano Grossmann : “Se dieci milioni di persone guardano un reality, diventano tutti uguali, la colla di quella roba li avviluppa in una massa. Se quei dieci milioni di persone leggono lo stesso libro, si generano dieci milioni di esperienze diverse, di riflessioni originali, i cui vissuti sono straordinari». Secondo te la televisione aiuta la diffusione della cultura o la ostacola?

«C’è ottima televisione, che fa il lavoro di mille libri al minuto. Rai5 ad esempio, o certi canali tematici. Quando la TV è usata al meglio è una corazzata rispetto a un libro. Ma questo purtroppo capita di rado. La televisione italiana della RAI ha insegnato l’italiano al Paese, che parlava solo il dialetto ed era analfabeta. Purtroppo oggi fa il contrario, sta facendo tornare il Paese in uno stato di analfabetismo. Per questo faccio una enorme fatica ad andare in TV tutte le volte che mi invitano, perché la televisione è un tubo vuoto, né buono né cattivo, dipende quello che ci metti dentro, e dato che presumo di poter essere un contenuto decente per la TV, con idee mie, originali, cose da dire… cerco di occupare spazi che altrimenti andrebbero, chissà…, a qualche stupidaggine. Mai confonderò uno strumento con un fine. La TV come il libro è uno strumento. Poi, certamente, la potenzialità di un libro è straordinaria. Quello che ti dà un libro nessuno riesce a dartelo. La relazione con te stesso che hai leggendo non ce l’hai guardando la televisione. Ma sono media diversi, servono entrambi, per cose diverse. Io i “buono” “cattivo” non li digerisco facilmente. Ogni cosa è potenzialmente buona, dipende l’uso che se ne fa».

Fai una differenza fra la visione anglosassone del lavoro e quella mediterranea, laddove le visioni anglosassoni, per quanto a volte un po’ ottuse, quantomeno sono fatte per andare avanti. Quelle mediterranee invece sono fatte apposta per morire dentro alle pastoie della burocrazia che tutto soffoca. E dietro a quella burocrazia c’è sempre la gestione del potere, grande o piccolo che sia. Come pensi si possa superare questo cancro tipicamente mediterraneo?

«Non è così difficile. Basta un’organizzazione flessibile. Io ho sempre lavorato con la creatività di un mediterraneo e l’organizzazione di un anglosassone. I sistemi che funzionano, nel rispetto dei valori che abbiamo, dobbiamo sempre farli nostri».

Scrivi che la salvezza da una società impazzita e che ci sta portando al collasso è andare a vivere sulle isole. Cosa intendi?

«Intendo dire che tutti vivranno in megalopoli inumane. Per mettersi in salvo occorre trovare uno spazio a bassa densità, dove sia ancora possibile vivere serenamente, in modo adeguato alla relazione con la natura. Per me che faccio il marinaio quel posto è un’isola. Per un altro sarà un bosco o una montagna. Certo non laggiù, a fondo valle, dove tutti sgomitano per qualcosa che a loro pare di grande valore e io finisco col trovare inutile».

A dieci anni dal tuo “scollocamento”, hai nostalgia o torneresti indietro a quando eri un manager affermato con tanti soldi, comfort e gli optional del caso? Tutti aspetti che l’italiano medio brama e ritiene il punto di arrivo assoluto.

«Non ho mai desiderato tornare indietro neanche un minuto in questi undici anni. La libertà acquisita per me è l’aria. Vale qualunque sacrificio».

Quanto contano i soldi per realizzare i propri sogni?

«Non sono un ostacolo se li collochi nel giusto ruolo. Ciò che renderà straordinario quel progetto non sarà mai il denaro, così come ciò che lo affosserà. Diamo al denaro un ruolo eccessivo. Conta perché serve, ma le idee servono molto di più. La tenacia anche. La convinzione anche».

Ti definisci  anarchico e libertario, sei insofferente a confini, dogane e all’esercizio del potere in genere.  Come hai maturato queste posizioni  che di solito sono definite estremistiche e utopiste.

«Io non faccio del male a nessuno. Non sono affatto un estremista. Cerco solo di darmi delle regole prima che me le dia qualcun altro. Io nel meccanismo del potere ci vivevo, e l’ho trovato scontato, ripetitivo, banale. Ho preferito perdere quel po’ di potere che avevo per vivere secondo regole mie. Questo non può essere definito estremismo, semmai consapevolezza».

Il progetto Mediterranea prosegue; in che forma e come si può partecipare?

«Basta scrivere un’email a info@progettomediterranea.com per sapere i nostri programmi. Si ricevono tutte le spiegazioni del caso. Salpiamo in aprile, penso, per circa otto mesi. Sarà bello. Siamo diventati tanti nel frattempo. Esprimiamo un pezzetto di questo nostro mondo. Lo viviamo. Viviamo nel Mediterraneo. Un sogno».

 

 

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