Golfo del Messico: esplode la Vermilion, è remake

Un'altra piattaforma petrolifera, la Vermilion, esplode nel Golfo del Messico a soli sei mesi dal disastro della Deepwater Horizon. L'allarme è rientrato ma il remake dell'incidente non può non essere l'ennesimo campanello di allarme per un'attività diventata ormai troppo rischiosa e difficile da gestire. Le coste della Lousiana e della Florida hanno davanti una pistola puntata.

Golfo del Messico: esplode la Vermilion, è remake
Meno di sei mesi fa il disastro della Deepwater Horizon shoccava il mondo intero con i suoi milioni e milioni di barili di petrolio versati nel golfo del Messico, un mare stupendo e ricco di vita animale e vegetale che ne pagherà, insieme ai suoi abitanti, le conseguenze per decenni. Ci sono voluti circa 5 mesi per chiudere l'enorme falla e nonostante questo la guardia costiera fa sapere che ci sono ancora enormi piume di petrolio invisibili in superficie. Neanche un mese dopo, il Golfo del Messico ha corso un nuovo rischio. Questa volta ad esplodere è stata una piattaforma più costiera, la Vermilion della Mariner Energy a soli 130 km dalla costa della Louisiana. Appena messi in salvo i membri dell'equipaggio, la compagnia si è premurata di avvertire che non c'erano perdite di greggio, che la piattaforma non era in funzione e che tutto era in sicurezza. Le informazioni giunte attraverso i mezzi stampa e la guardia costiera sono però contrastanti: c'è chi parla di una macchia contenuta (1600m x 100m) subito arginata e recuperata e chi invece nega qualunque fuoriuscita. Inoltre, sebbene la società petrolifera affermi che l'impianto non era in funzione, la guardia costiera e le istituzioni sostengono la necessità di verificare questa circostanza che non pare compatibile con quella macchia vista in un primo momento. Ora l'attenzione - negli Stati Uniti, non certo in Italia dove la notizia è scomparsa dalle prime pagine dei quotidiani online nel giro di un paio d'ore - si sposterà sugli impianti di sicurezza e sul modo di contenere i danni in casi come questi, senza considerare però che casi come questi non dovrebbero proprio accadere. Si parlerà poi di regolamentazione o di una estensione della moratoria sulle trivellazioni in alto mare: tutti progetti che verranno con ogni probabilità accantonati nei prossimi mesi, considerato che la BP già parla di difficoltà nel mantenere gli impegni di risarcimento dovuti appunto alla moratoria. La verità - che tutti conoscono anche se nessun leader vuole ammetterlo né trarne le conseguenze - è che il 'petrolio facile' è finito. I pozzi facili e sicuri vanno esaurendosi e l'unica alternativa è trovarne di nuovi, difficili da raggiungere, altamente instabili e rischiosi da gestire. Deepwater e Vermilion restano a testimoniare. Ben il 30% del petrolio estratto sul pianeta arriva da trivelle costiere o off-shore. Nel solo Golfo del Messico ci sono ben 3858 piattaforme gestite privatamente nella manutenzione e nella sicurezza, insomma senza alcuna garanzia (se mai una garanzia è possibile). Una vera e propria pistola puntata sulle coste della Lousiana e della Florida. In Italia alla notizia dell'incidente Vermilion il ministro dell'Ambiente - ne abbiamo uno, nel caso in cui qualcuno non se ne fosse accorto - Stefania Prestigiacomo ha dichiarato che "il nuovo incidente conferma l'esigenza di più stringenti regole a livello internazionale" e ha chiesto che "il problema venga posto all'ordine del giorno nelle prossime settimane nell'agenda europea". Nel fare queste affermazioni il ministro si è però dimenticato dei 99 permessi di esplorazione (25 sulle coste e 74 in terra ferma) concessi in questi ultimi anni di governo Berlusconi per cercare il petrolio sul territorio italiano. Il ministro ha poi dimenticato l'incomprensibile politica delle imposte sulle estrazioni nel nostro paese, una politica che prevede una tassazione di solo il 4% e un'esenzione dal pagamento dei primi 300.000 barili estratti ogni anno. Si tratta di una normativa inconcepibile per l'economia di un paese e folle nel suo incentivare la trivellazione del nostro territorio. Pertanto, sebbene una regolamentazione internazionale sia necessaria, almeno per l'Italia una normativa nazionale sarebbe più che sufficiente quanto meno a limitare il rischio. Escluderlo al momento non lo crediamo possibile. Siamo realisti: sono troppi gli interessi in gioco e anche la sensibilità ambientalista in Italia e in Europa, come pure in America, è ancora troppo lontana dal giusto livello di maturazione per compiere l'unico passo possibile, ovvero l'abbandono di un'economia basata sul petrolio.

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