Dalle case popolari al social housing, l'edilizia italiana che non decolla. Il caso Pomezia nelle fotografie di Ivana Bucci.

Tra le grandi nazioni europee, il nostro è il Paese con la più bassa percentuale di alloggi in “affitto sociale”. Ma a differenza dell'Europa, dove le nuove case popolari sono costruite garantendo una buona qualità architettonica, attraverso la progettazione di interventi con elevati livelli di qualità formale, funzionale e tecnologica, in Italia la situazione è ferma agli anni Ottanta.

Dalle case popolari al social housing, l'edilizia italiana che non decolla. Il caso Pomezia nelle fotografie di Ivana Bucci.

Dal sito www.massimonardi.it

Alzi lo sguardo e vedi solo immense pareti grigie che ti sovrastano. Sembrano affossarti, con quei balconi a mo' di braccia che ti stringono al collo. Cammini, cammini, segui viottole e strade strette, cercando una via d'uscita. Che non c'è. Ti ritrovi in un punto che sembra essere quello di prima, ma è l'esatto opposto. Alienazione e soffocamento. Queste sono le case popolari a Pomezia, venti km da Roma, sorta nel ventennio fascista e ora città dormitorio e industriale con 60.000 abitanti. Via Catullo, via Singen, via Ugo La Malfa. E' un labirinto grigio, fatto di antenne e parabole, panni stesi, finestre senza affaccio, siepi alte, quasi a nascondere quello che c'è dentro a quel mondo. Un mondo senza saturazione, grigio, come quello immortalato dalla fotografa romana Ivana Bucci, nel suo reportage "Every ant has his day". Sette scatti che parlano chiaro, che fissano una realtà strana, ambigua, unica nel suo genere. Accanto a villette mono e bilivello, sorgono casermoni di dieci e dodici piani, costruiti senza una logica edilizia ed architettonica. Un far west del mattone, una guerra a chi ha più soldi e potere, per fare questo e quel palazzo. «Non ho fatto altro che scattare - afferma Ivana Bucci - senza alcun ritocco fotografico. Il bianco e nero del reportage non è altro che una conseguenza logica dell'atmosfera che si respira là dentro. Il colore reale non si discosta molto dal colore fotografico». Perchè qui, gli edifici dell'Ater o IACP che dir si voglia, sono ancora case popolari. Il termine "social housing", molto inglese ed europeista, qui non trova piede nè collocazione, lontano anni luce dal quadro normativo e architettonico d'oltralpe.
"Every ant has his day", "ogni formica ha il suo giorno di gloria" diceva Z la formica nell'omonimo film. «In una situazione sociale del genere - afferma Ivana Bucci - vivere la vita è molto difficile. Come si vede dalle foto, il senso di degrado fuoriesce da ogni minima crepa. In un ambiente del genere è molto facile cadere in piccole tentazioni illegali che, a lungo andare, possono rivelarsi drammatiche. Qui lo Stato ha il dovere di intervenire, sia da un punto di vista estetico sia da quello strutturale. Attraverso politiche sociali e culturali atte ad evitare catastrofi umane quotidiane». Ma lo Stato è assente. Da qui il titolo del reportage: «Sì, non possiamo sperare che le cose cambino aspettando lo Stato o la manna dal cielo - continua la fotografa romana - Anche nelle case popolari le persone possono avere il loro giorno di gloria, rifiutando lo status quo e impegnandosi a cambiare vita. Rispetto ad altre situazioni sociali è più difficile, ma non impossibile».
Pomezia, con le sue case popolari, emblema del nostro Paese. Ma, tra le grandi nazioni europee, l'Italia è quella con la più bassa percentuale di alloggi in “affitto sociale”, secondo i dati della Commissione Economica Europea. Ma ci sono differenze strutturali e architettoniche tra le case popolari italiane e quelle europee? «I casermoni italiani di cui parliamo - afferma Michela Tascioni, Professionista nel settore Architettura e progettazione - rappresentano il fanalino di coda di un filone europeo, definito "Movimento Moderno", il cui obiettivo era quello di ottimizzare lo spazio per ottenere il massimo di alloggi, attraverso l'utilizzo di una maglia regolare, che il cemento armato permetteva di realizzare in modo economico e veloce. Un esempio su tutti, l'Unità di Abitazione di Marsiglia. Chiaramente il nostro "Razionalismo Italiano" ha avuto picchi di espressione progettuale, a mio avviso meno geniali, forse legati più a fattori politici, e diventando così l'architettura del regime e quindi meno libera d'esprimersi rispetto agli standard mitteleuropei». Da qui, nascono i casi romani come Il Corviale, Tor Bella Monaca, Laurentino 38, San Basilio. E Pomezia, appunto, dove abitare è impossibile. E, se possibile, comunque spiacevole. Come nel resto dell'Italia, dove a prevalere nel corso degli anni sono state le logiche economiche che hanno portato alla creazione di edifici con prestazioni energetiche basse e conseguente regressione della qualità della vita. A questo, inoltre, si sono aggiunte le fratture sociali. Le case popolari sono state realizzate per dare alloggio a persone riportate in libertà da condoni carcerari, il che ha generato fenomeni sociali incontrollabili, che la struttura urbana ha ovviamente amplificato.
Ma non tutto è da buttare nel nostro Paese. Ci sono casi di buona architettura, che rappresentano l'esempio concreto dove l'abitare intensivo e la qualità della vita possono coesistere. «Me ne vengono in mente due nel panorama romano - continua Michela Tascioni - Sono il quartiere INA Casa al Tuscolano e il Villaggio Olimpico in via Flaminia. Il primo esprime al meglio quell'eterogeneità, generatrice di standard elevati di qualità della vita, tra infrastrutture, spazi verdi e servizi. La collocazione delle abitazioni a ridosso di grandi spazi verdi, come il Parco degli Acquedotti, consente di utilizzarli come reali punti di aggregazione, e il verde diventa collettore sociale in senso profondo. Il secondo, a seguito della costruzione dell'Auditorium, si presenta come una sorta di "città giardino", immersa in un verde diffuso, e il rapporto tra spazi collettivi e privati è in perfetta armonia. Una sorta di piccolo centro urbano dove i bambini giocano nei cortili mentre gli anziani li controllano dalle loro postazioni strategiche».
Nel corso degli ultimi dieci anni si è registrata una nuova esplosione della questione abitativa in Italia, con un allargamento dalle categorie sociali più deboli al ceto medio. Rispetto al passato, infatti, quando il problema della ricerca di un’abitazione riguardava un numero relativamente contenuto di famiglie, negli ultimi anni l’emergenza abitativa ha investito una fascia più ampia della popolazione italiana, facendo emergere, nel dibattito politico, il problema di approntare strumenti nuovi ed efficaci per garantire il controllo del fenomeno. La crisi in atto riguarda proprio le famiglie che vivono in abitazioni in affitto a canone di mercato, ed il fenomeno sembra concentrarsi soprattutto nelle grandi aree metropolitane, dove sono stati più consistenti gli incrementi dei canoni negli ultimi anni (più 60%in cinque anni).
A differenza dell'Europa, dove le nuove case popolari sono costruite garantendo una buona qualità architettonica, attraverso la progettazione di interventi con elevati livelli di qualità formale, funzionale e tecnologica, in Italia siamo ancora ben lungi dal realizzare tutto ciò. La crisi e l'emergenza abitativa potrebbero fungere da volano per la ripresa del settore "popolare"? «Il grande tema su cui bisogna soffermarsi è la riqualificazione dell'esistente - afferma ancora Michela Tascioni - Ci sono moltissimi immobili abbandonati che, riqualificati, potrebbero far fronte all'emergenza abitativa. D'altro canto, visto che il problema più importante al giorno d'oggi è l'inquinamento, la riqualificazione energetica dell'esistente, attraverso l'isolamento termico degli edifici e l'utilizzo di fonti di energia rinnovabile, potrebbero veramente incidere sulla qualità della vita e fungere così anche da volano per la ripresa dell'economia. Ed è molto facile, basta guardare all'Europa. Un esempio su tutti è il quartiere di Kronsberg, ad Hannover: un esempio di progettazione sostenibile integrata alla scala urbana». Costruito nel 2000, in occasione dell'Expo, il quartiere è formato da 6000 unità abitative, per un totale di 15.000 abitanti su una superficie di 150 ettari. Nella costruzione sono stati utilizzati fonti di energia rinnovabile, come turbine eoliche e impianti di cogenerazione alimentati da gas naturale; particolare attenzione è stata data all'isolamento termico; i rifiuti vengono riciclati ed usati per la produzione di nuova energia; le acque piovane vengono raccolte e riutilizzate; e il tutto finalizzato alla riduzione delle emissioni di CO2 e ad una socializzazione costruttiva degli abitanti. Qui le "formiche" hanno avuto i loro giorni di gloria. «Credo che in questo periodo storico i tedeschi, ma più in generale i nord europei, abbiano più giorni di gloria rispetto a noi - sorride Ivana Bucci - Le mie fotografie raccontano proprio questo. E' impensabile che al giorno d'oggi esistano ancora dei complessi abitativi così fatiscenti, senza spazi adeguati per far crescere i bambini e senza infrastrutture di aggregazione sociale. E' impensabile aprire una finestra e avere come unico panorama il muro del proprio palazzo. Abitare significa anche crescere, divertirsi e stare bene. Dai miei scatti, e dalla realtà, questo purtroppo non traspare».
Dal sito www.massimonardi.it

 

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