COP21: non si salvano così il clima e la dignità umana

L’utilità non c’è, triste a dirsi ma è così. L’utilità dell’accordo siglato al summit sul clima di Parigi, semplicemente, non esiste. E ci sono alcuni punti che rappresentano vere assurdità. Non è più possibile affermare che questa intesa è “la migliore possibile”.

COP21: non si salvano così il clima e la dignità umana

"Un accordo differenziato, equo, sostenibile, dinamico e giuridicamente vincolante", queste le parole espresse dal presidente della COP21, il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, alla presentazione del testo dell’Accordo di Parigi e successiva approvazione per acclamazione da parte dei delegati dei 190 Paesi partecipanti alla Conferenza internazionale sul Clima. Sullo stesso tono i commenti dei diversi leader politici che hanno preso parte ai negoziati sul clima dal 30 novembre al 12 dicembre 2015:

“… accordo storico ed ambizioso … che dimostra cosa è possibile fare quando il mondo si muove compatto ... anche se non perfetto, è la migliore opzione che abbiamo per salvare il nostro pianeta … ” (Barack Obama).

Ciò che manca in questi commenti è una valutazione dell’effettiva utilità di tale accordo ai fini della lotta ai cambiamenti climatici, almeno così come considerata necessaria e leggendo il testo ci si accorge, purtroppo, che questa utilità non c’è, o almeno non è evidente. Così come salta agli occhi l’enorme assurdità di mettere sullo stesso piano alcuni “diritti”, da una parte quelli degli Stati-isola e dei Paesi più poveri e quindi più vulnerabili ai cambiamenti climatici e, dall’altra, quelli dei Paesi produttori di combustibili fossili ai quali è stato concesso di acquisire ulteriore tempo per una loro diversificazione economica (offerta energetica); laddove è evidente che proprio questi Paesi avrebbero avuto tutti gli interessi ad investire i loro proventi su nuove forme di energia sostenibile. Di fatto, gli stessi principi che hanno regolato fino ad ora i fallimenti delle precedenti conferenze sul clima. Perché adesso tutti parlano invece di un successo?

I tre punti principali dell’Accordo richiedono ai Paesi che lo sottoscrivono, la cui firma ufficiale dovrà essere posta a New York a partire dal 22 aprile 2016 ed entro un anno da quella data:

- di raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile, facendo in modo che vi sia un equilibrio tra le emissioni e gli assorbimenti di gas serra dal 2050 in poi e mantenere quindi l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C e di sforzarsi al massimo per avvicinarsi a 1,5°C;

- di analizzare i risultati raggiunti ogni cinque anni;

- di finanziare con 100 miliardi di dollari all’anno da qui al 2020 azioni per il clima a beneficio dei Paesi in Via di Sviluppo, con l’impegno a continuare tale finanziamento anche dopo il 2020.

Di “giuridicamente vincolante” c’è solo il fatto di presentare un obiettivo di riduzione delle emissioni (attenzione, solo “presentare” un obiettivo di riduzione, a titolo volontario quindi, senza alcun obbligo a rispettarlo, cioè senza alcuno strumento sanzionatorio in caso di non raggiungimento) e i progressi raggiunti ogni cinque anni, sapendo bene che cinque anni sono un lasso di tempo abbastanza lungo per continuare a fare danni, soprattutto con l’inazione. Gli obiettivi attualmente presentati dai Governi (Intended Nationally Determined Contributions - INDCs) sono totalmente insufficienti per rispondere al primo punto sopra menzionato, come era ben evidente ai negoziatori durante la COP21 (si veda il grafico).

 

Ammettere, politicamente, che non dobbiamo superare i 2°C, o meglio ancora 1,5°C, è una gran cosa ma sottolinea come la scienza sia al servizio della politica solo quando fa comodo. Sono diversi anni che l’IPCC ammonisce i governi di tutto il mondo sui rischi dei cambiamenti climatici ma solo adesso viene riconosciuto, dal mondo politico a livello globale, la necessità di limitare l’innalzamento della temperatura media del pianeta; senza però avere il coraggio di fissare degli obiettivi (target) di riduzione delle emissioni di gas serra per ogni Paese. Coraggio che mancò alla Conferenza di Copenhagen nel 2009 e ne decretò il fallimento, coraggio che è mancato adesso a Parigi ma che ne fa un successo. C’è qualcosa che non torna.

Forse è proprio la parola “coraggio” sulla quale i leader governativi dovevano lavorare di più, e porsi quelle domande che almeno un Capo di Stato (papa Francesco) si è seriamente posto alla vigilia della COP21: “… che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Dobbiamo fare di tutto per fermare i cambiamenti climatici, o almeno attenuarne gli effetti, e lottare per far fiorire la dignità umana”. Ebbene, i leader politici della Terra il coraggio di considerare come criterio di scelta il “maggior bene per l’intera famiglia umana” non l’hanno avuto. Ed è servito a poco ricordare che decine e decine di conflitti nel mondo sono legati a cause ambientali. Cosa si doveva attendere ancora? I disastri diretti (frane, alluvioni, siccità, ecc.) e quelli indiretti come i conflitti e le potenziali derive terroristiche non erano abbastanza? Il nostro benessere futuro dipende da quello che facciamo adesso; sono anni che si rimandano le decisioni per il taglio delle emissioni ed ora a Parigi si è “approvato” un principio già noto ma senza dare chiare e vincolanti indicazioni per il raggiungimento degli obiettivi necessari per l’attuazione pratica di quel principio. Non era certamente questo il senso del messaggio che aveva dato papa Francesco, peraltro apparentemente apprezzato da molti. Ancora una volta, i diritti umani vengono considerati dopo gli interessi economici.

Dal punto di vista finanziario, per molti 100 miliardi all’anno fino al 2020 sono poca cosa rispetto agli interessi che muovono i combustibili fossili ma qui il problema è che non si capisce chi alimenterà queste risorse finanziarie, chi ne beneficerà concretamente (si ricorda che nella dizione “Paesi in Via di Sviluppo” a volte, a seconda dei contesti, troviamo ancora Paesi come la Cina, l’India, il Messico) e quali strumenti finanziari saranno effettivamente messi a disposizione (donazioni, prestiti, ecc.).

Il fatto che eminenti scienziati si siano espressi in questi giorni in maniera critica sull’accordo (Pascal Acot; James Hansen), mettendo in risalto la vaghezza dei suoi contenuti, stride con l’univoco clamore del “successo” raggiunto a Parigi. Anche note associazioni ambientaliste che da sempre sono in prima linea per suggerire obiettivi ambiziosi nella lotta al cambiamento climatico sembrano aver accettato il responso della COP21 quale miglior risultato possibile, sebbene insufficiente.

La visione e il modo di pensare che ci porta all’accettazione delle conclusioni della COP21 quali le “migliori possibili”, purtroppo, sanno di vecchio; fanno parte di quell’obsoleto sistema, anche terminologico, che deve essere rinnovato, radicalmente. Solo fra cinque anni, nel 2020, quando in effetti entrerà in vigore l’Accordo di Parigi, potremo dire se il principio adottato alla COP21 (1,5 – 2,0 °C) sia stato realmente accettato dai Paesi. E se lo sarà, a mio avviso, ciò sarà dovuto non in conseguenza delle decisioni (insufficienti e forse fuorvianti) adottate a Parigi, ma come conseguenza della mobilitazione che avverrà nei prossimi cinque anni. Mobilitazione dei cittadini e dei governi locali che già stanno agendo concretamente nei loro territori, e del mercato (almeno una parte) che ben prima dei politici vede lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica quali risposte concrete alla lotta al cambiamento climatico.

 

 

 

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