Trivellazioni libere nelle aree protette di prossima istituzione

La norma che avrebbe consentito di trivellare sotto costa e quella sulle concessioni facili scompaiono dal decreto liberalizzazioni. Ora, però, a far discutere è un altro articolo: quello che consente di trivellare nelle aree protette non ancora inserite nell'elenco ufficiale. Un rischio enorme per l'ambiente, che lo stato si assume a fronte di guadagni davvero esigui se paragonati alle perdite ambientali.

Trivellazioni libere nelle aree protette di prossima istituzione
È una parziale marcia indietro, quella del governo sulle 'trivelle libere' previste da una bozza del decreto liberalizzazioni circolata giorni fa. Sono scomparsi gli articoli incriminati, che prevedevano la possibilità di trivellare a 5 chilometri dalla costa (anziché a 12), e non v'è traccia delle concessioni facili. In compenso, fa discutere la norma che consente di cercare idrocarburi nei parchi nazionali di prossima istituzione. Non hanno fatto in tempo ad esultare, i comitati e le associazioni ambientaliste, che subito è uscita la nuova magagna. Il primo ad accorgersene è stato il presidente dei Verdi Angelo Bonelli: “La norma sulle trivellazioni libere non è affatto scomparsa dal decreto sulle liberalizzazioni. Abbiamo scoperto il trucco che consente di fare trivellazioni petrolifere anche in 17 aree di straordinario pregio ambientale e che devono essere ancora inserite nel decreto che contiene l'elenco delle Aree protette, perché fanno parte dell'Elenco delle Aree Marine di prossima istituzione”. La norma incriminata è contenuta nell'articolo 17 del decreto, che emenda l'art.6 comma 17 del D.lgs. 3 aprile 2006 n.152. La legge del 2006 prevedeva il divieto di svolgere attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi all'interno di tutte le aree protette (presenti e future). Il nuovo provvedimento inserisce questa precisazione: “nel caso di istituzione di nuova area protetta restano efficaci i titoli abilitativi già rilasciati alla data di inserimento della stessa nell'elenco di cui al decreto 27 aprile 2010 e sue modifiche e integrazioni”. Ovvero limita la definizione di aree protette a quelle individuate dal DM 27 aprile 2010 (IV Elenco ufficiale). Una prima ricerca compiuta dai Verdi ha individuato un elenco parziale di quali potrebbero essere le aree protette soggette a trivellazioni: “1) Area marina protetta Costa del Piceno; 2) Area marina protetta Isola di Gallinara; 3) Area marina protetta Arcipelago Toscano; 4) Area marina protetta Costa del Monte Conero; 5) Area marina protetta Capo Testa - Punta Falcone; 6) Area marina protetta Golfo di Orosei - Capo Monte Santu; 7) Area marina protetta Isole Eolie; 8) Area marina protetta Isola di Pantelleria; 9) Area marina protetta Penisola Salentina; 10) Area marina protetta Pantani di Vindicari; 11) Area marina protetta Arcipelago della Maddalena; Procedimenti in fase di avvio: 12) Area marina protetta Monti dell'Uccellina - Formiche di Grosseto - Foce dell'Ombrone Talamone; 13) Area marina protetta Costa di Maratea (L. 394/91); 14) Area marina protetta Isola di Capri; 15) Area marina protetta Isole Pontine; 16) Area marina protetta Monte di Scauri; 17) Area marina protetta Isola di San Pietro”. Tutte zone di enorme pregio ambientale, che le trivellazioni rischierebbero di compromettere per sempre. Il decreto, poi, si inserisce in una situazione già di per se drammatica, ben descritta dal dossier da poco pubblicato dal Wwf Milioni di regali – Italia: Far West delle Trivelle. Secondo l'associazione ambientalista nel 2011 sono 82 le istanze di permesso di ricerca di idrocarburi liquidi o gassosi in mare, mentre 204 sono quelle in terra. Permessi rilasciati spesso troppo facilmente anche in zone di pregio ambientale e a fronte di una prospettiva di estrazione limitata. E neanche a dire che lo stato italiano ci guadagnerebbe chissà quanto. Nonostante tutti questi permessi, infatti, i proventi per le casse pubbliche sono esigui: su 136 concessioni di coltivazione in terra di idrocarburi liquidi e gassosi attive in Italia nel 2010, solo 21 hanno pagato le royalty alle amministrazioni pubbliche italiane, su 70 coltivazioni a mare, le hanno pagate solo in 28. Su 59 società che nel 2010 operano in Italia solo in 5 pagano le royalty. Si tratta di guadagno davvero irrilevante, se confrontato con i danni causati all'ambiente, vero patrimonio nazionale di valore inestimabile.

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