Irpinia, l'immondezzaio di Napoli. Quando legalità e giustizia non coincidono

Il 19 aprile scorso la Regione Campania ha di fatto aperto alla possibilità di utilizzare gli ultimi spazi incontaminati delle aree interne per la nuova mega-discarica regionale. Tuttavia, da anni, l'Irpinia accoglie i rifiuti della Campania. Le disperate rivolte delle popolazioni ai piani di localizzazione delle discariche per i rifiuti sono raccontate nel saggio Biopolitica di un rifiuto. Abbiamo intervistato il curatore, Antonello Petrillo, docente di Sociologia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Irpinia, l'immondezzaio di Napoli. Quando legalità e giustizia non coincidono
Non tutti sanno che l’Irpinia, oltre a essere tristemente famosa per il terremoto del 1980, ha svolto, finora, due importanti funzioni apparentemente inconciliabili: è l’immondezzaio di Napoli e il serbatoio d’acqua del 35% della popolazione meridionale peninsulare. La Regione Campania ha pensato bene di premiarla e il 19 aprile, con due voti di scarto, ha certificato l’avvenuta deprovincializzazione del ciclo dei rifiuti aprendo alla possibilità di utilizzare gli ultimi spazi incontaminati delle aree interne (in particolare l’Irpinia, ma anche l’Alto Sannio) per la nuova megadiscarica regionale, panacea delle strumentali inefficienze delle province di Caserta e Napoli. Siamo al termine di un iter legislativo emergenziale iniziato con la legge n. 123 del 14 luglio 2008 e perfezionato dalla legge 201 del 24 gennaio 2011 che sancisce per la Campania lo status di regione a legislazione ambientale speciale derogando, praticamente, a tutte le norme ambientali che tutelano le altre regioni. In Campania si può, dal 2008, non tenere conto del Codice dell’Ambiente (Dlgs 152/2006), sversare in discarica rifiuti speciali e pericolosi; si può, dal 2011, chiedere una VIA (Valutazione di impatto ambientale) per aprire un nuovo sversatoio in 15 giorni; si può, infine, usare il compost fuori specifica per il 'risanamento' delle oltre 1200 cave abbandonate. L’acqua dell’Irpinia rifornisce circa 5 milioni di persone distribuite tra Puglia, Basilicata e Campania. L’Acquedotto Pugliese, l’A.R.I.N. di Napoli, l’Alto Calore irpino e sannita dipendono dalle sorgenti irpine. Il massiccio del Terminio Cervialto, nei Picentini, con le sue montagne calcaree, ospita buona parte delle sorgenti, inoltre qui nascono quattro grandi fiumi che vanno poi nel salernitano, in Puglia e nel Sannio: il Calore, il Sabato, il Sele e l’Ofanto. Senza contare i grandi invasi di Conza della Campania (60 milioni di metri cubi), San Pietro a Monteverde (15 milioni di metri cubi) e la più piccola Diga Macchioni a Castelbaronia. È un sistema delicatissimo e il reticolo idrografico è fortemente interconnesso con le acque di superficie. L’Irpinia ha accolto per anni i rifiuti della Campania nell’enorme discarica di Difesa Grande, ad Ariano Irpino. Nel 2008 apre a circa 15 chilometri lo sversatoio di Pustarza a Savignano irpino e, nello stesso periodo, formando un mostruoso triangolo isoscele a circa 30 chilometri, nell’Alto Sannio, con la discarica di Sant’Arcangelo a Trimonte. Le conseguenze per la Valle del Cervaro, dove incombe la frana di Montaguto, di memoria borbonica, sono disastrose. La prossima discarica, se ne parla da anni, la si vorrebbe probabilmente costruire sull’Altopiano del Formicoso, a pochi chilometri dalla Diga di Conza dalla quale l’Acquedotto Pugliese preleverà e potabilizzerà 1500 litri al secondo per consumo umano, sede di uno dei più grandi impianti eolici dell’Appennino meridionale. È un’area scarsamente abitata, con una densità media di 50 abitanti per chilometro quadrato e punte di 30 in alcuni piccoli comuni. Sulle Terre dell’osso incombe lo straordinario e selvaggio inurbamento delle aree costiere che premono, erodendo costantemente risorse, su quelli che alcuni considerano spazi vuoti, economicamente residuali. In Irpinia, in particolare in Alta Irpinia, a causa degli sprechi centrali vengono soppressi ospedali e scuole, aumentano i costi dei trasporti locali mentre l’economia risente fortemente della crisi nei piccoli e fortemente ciclici distretti industriali e il calo delle imprese agricole prosegue ininterrottamente da decenni. Eppure il territorio a livello ambientale è strategico. Il Formicoso, granaio della Campania, distretto per le energie rinnovabili, serbatoio d’acqua per il siccitoso Mezzogiorno insieme all’attiguo massiccio dei Picentini, combatte da anni la sua guerra contro una spoliazione territoriale che sarebbe definitiva. Le prossime lotte saranno particolarmente delicate, vitali per la sopravvivenza stessa del territorio e, per analizzarne l’importanza, capirne i meccanismi, contestualizzarle - prima che vengano ignorate o stereotipizzate attraverso frames mediatici - abbiamo consultato Antonello Petrillo, docente di Sociologia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e curatore del saggio Biopolitica di un rifiuto edito da Ombre Corte, Verona. Il libro è il risultato del lavoro del Gruppo di ricerca URiT (Unità di Ricerca sulle Topografie sociali) che fa capo alla cattedra di Topografie sociali. Di seguito l'intervista.

VS: È un lavoro che, purtroppo, sembra destinato ad essere sempre attuale… AP: Il lavoro è uscito a fine 2009, al termine del precedente ciclo di lotte e proteste per la costruzione delle discariche in Campania nei territori di Pianura, Gianturco, Chiaiano, Marigliano, Savignano e S. Arcangelo a Trimonte. L’obiettivo era restituire soggettività piena agli 'oggetti' della ricerca in una contaminazione reciproca tra ricercatore e attori locali producendo 'racconti vivi' tramite un interazione molto forte tra i protagonisti delle vicende narrate e gli studenti. I riferimenti sono Foucault, per i meccanismi di controllo sociale e Bourdieu per l’individuazione delle topografie sociali. È una ricerca etnografica che si basa sullo stare sul posto, sul partecipare direttamente a quello che accade. Abbiamo usato principalmente l’osservazione partecipante e quindi molte interviste, anche a testimoni privilegiati. Col nostro lavoro cerchiamo di restituire dignità a tali lotte, sottolineandone il valore propriamente 'politico', di avanzamento e non di arretratezza. La ricerca partiva dal bisogno di restituire un volto reale a queste donne e uomini in lotta dipinti dal circuito della politica come barbari, passatisti, incapaci di concepire il progresso. In più, trattandosi della Campania, c’era lo stigma del meridionale arretrato. Una sorta di etnicizzazione di queste rivolte collettive che era una depoliticizzazione, il tentativo di ricoprire i contenuti politici della rivolta. Abbiamo cercato di smontare e decostruire questo discorso pubblico intorno alle rivolte, di dimostrare che fare delle rivolte locali non significava avere obiettivi egoistici. Se si vuole la nostra interpretazione è agli antipodi delle teorie del Nimby (Not in my back yard) con cui vengono comodamente definite tutte le rivolte locali che invece hanno a che fare con le stesse possibilità di sopravvivenza. Alla fine il bersaglio, il terminale è sempre un luogo, sono sempre dei corpi specifici, dei bisogni locali, in breve offese ricevute localmente. Ogni lotta, ogni resistenza è specificamente locale. Se avessimo intervistato quelli che erano sotto la Bastiglia ci avrebbero semplicemente detto che erano lì per liberare figli e mariti in galera, non per fare la Rivoluzione francese. Gli stessi marinai della corazzata Potëmkin protestavano contro il rancio cattivo, era un’istanza locale, particolaristica, non pensavano certo di innescare la rivoluzione russa e poi la rivoluzione d’ottobre. VS: Quindi l’elemento locale riveste una importanza fondamentale… AP: Nessuna lotta può prescindere dall’elemento locale. È sempre la mia condizione soggettiva quella che mi motiva. Nessuno può abbandonare la propria vita per mesi e mesi, rinunciare al lavoro, tirarsi dietro i figli in carrozzina alle manifestazioni, se non avverte un interesse proprio e immediato nel condurre quella lotta. Una mobilitazione così forte e intensa coinvolge i territori locali nella loro interezza. Nelle nostre interviste era difficile trovare un singolo cittadino che si astenesse dalla partecipazione, magari stava alla finestra, ma nessuno sosteneva la discarica. Si tratta di un coinvolgimento sociale che passa attraverso classi normalmente divise. Quando parli con questa gente capisci che hanno ben chiaro di aver a che fare con dinamiche globali più ampie. Anche il contadino di Savignano ti parla di raccolta differenziata non fatta, di imballaggi inutili, di riduzione a monte del volume dei rifiuti. VS: Quale è adesso il futuro delle resistenze in Alta Irpinia? AP: In astratto, in teoria, tutte queste resistenze sono disperate. Sono luoghi molto piccoli, con popolazioni molto contenute, isolate, senza grandi interessi economici. Si tratta di contadini dispersi che complessivamente fanno una bella economia, ma non c’è un potere economico forte, in grado di tutelarli. Ma io non credo esistano lotte disperate in partenza. Esiste, invece, un quid difficilmente calcolabile all’interno di ogni lotta che poi determina lo spostamento dell’equilibrio. Basta pensare ai quattro gatti, ai pochi disperati che hanno avviato le grandi rivoluzioni nel corso della storia mondiale, non ultimo il caso della Tunisia. Sono lotte estremamente difficili da condurre, ma abbiamo visto che a volte anche in Campania si è riusciti ad arginare le decisioni istituzionali. A Terzigno, nelle ultime proteste, la comunità si è impadronita del consiglio comunale costringendo gli amministratori tentennanti a prendere posizioni estremamente rigide. È già avvenuto nel ciclo precedente, quando è stata la comunità a spostare la politica locale visto che i sindaci sono a stretto contatto con la gente e per la loro sopravvivenza politica devono stare dalla parte del popolo. Anche qui è stata tentata l’etnicizzazione della protesta, ma ha funzionato meno che nel 2008. VS: Quale è il ruolo dell’informazione? E quali i contenuti delle lotte? AP: Nell’ultimo ciclo di lotte del 2010 ci sono state molte più trasmissioni critiche, orientate a mostrare la natura reale del problema, i fatti stanno venendo fuori. L’informazione alternativa oramai è una realtà e il fatto che l’informazione mainstream non è più l’unica alternativa possibile aiuta moltissimo questo tipo di lotte. Si è già visto nel ciclo del 2008/2009 il ruolo importantissimo dei social network, dei siti, dei blog. VS: Come funzionano i movimenti di protesta? AP: I comitati parlano di compostaggio, trattamento a freddo, di una nocività del sistema discariche e inceneritore che va al di là del loro piccolo luogo. L’interesse è locale ma il livello di riflessione e consapevolezza che abbiamo trovato intervistandoli è davvero elevato. Questi movimenti hanno una vera e propria funzione pedagogica. La gente scende in strada, partecipa alle riunioni, comincia a guardare i siti, i blog, chiede spiegazioni. Abbiamo osservato che in due o tre giorni ognuno dei partecipanti era perfettamente informato. La metodologia è più o meno uguale in tutti i comuni osservati. Vengono invitati geologi, esperti di rifiuti, personaggi, sindaci di comuni virtuosi nella raccolta differenziata, esperti da altre nazioni. I movimenti hanno avuto un grande ruolo nella diffusione dell’idea di gestire diversamente i rifiuti. La gente che vive in questi territori non ha bisogno di dimostrazioni scientifiche quando vede nascere agnelli a due teste, né del Registro dei Tumori per constatare l’aumento vertiginoso della mortalità oncologica. La gente sa che il territorio è terribilmente degradato, non ha bisogno di dimostrazioni. VS: E adesso tocca all’Alta Irpinia… AP: Oggi le comunità minacciate dell’Alta Irpinia devono attivarsi da subito per spiegare che l’Irpinia non è affatto un deserto, non è affatto un luogo privo di vita e che le discariche servono a sbarazzarsi di rifiuti che non sono i rifiuti solidi urbani. Le discariche sono la copertura per lo smaltimento dei rifiuti tossici, nocivi. È una dinamica estremamente chiara, un sistema sul quale si lucra. Visto il problema dei costi dello smaltimento dei rifiuti tossici industriali bisogna alimentare delle aree dove la raccolta differenziata non si fa. Ed è estremamente difficile non fare la differenziata in un piccolo Comune, dove c’è un controllo diretto della popolazione mentre è più facile non farla a Napoli, dove aiutano anche gli stereotipi e i pregiudizi sui napoletani. VS: Qualcuno potrebbe rassegnarsi, visto che tutto è già deciso… AP: Non bisogna essere pessimisti. Le lotte possono fare molto e, in ogni caso, cosa ci resta? Non c’è altro che lottare. Noi sappiamo che anche gli imperi più grandi della storia crollano. A un certo punto, si trova quel tallone d’Achille. Del resto c’è sempre meno gente disposta ad accettare questa realtà e le lotte sono cresciute. Quindici anni fa, quando sono nate le prime discariche, o non ci furono lotte o furono estremamente localistiche e nessuno ne ha saputo niente. Erano di meno, meno visibili. Abbiamo, ad esempio, potuto ricostruire i movimenti contro le prime discariche nel Casertano solo dalla memoria della gente che partecipava nel 2008 al nuovo ciclo di lotte. VS: Quindi in ogni paese bisogna si faccia una discarica per rendere la gente consapevole? AP: In ogni paese bisogna opporsi alla discarica. Come un appestato che viene cacciato da tutti. Alla fine qualcuno dovrà capire che il ciclo dei rifiuti è diseconomico e bisognerà prima o poi riconvertirlo. Una cosa è pensare di fare una discarica per quella frazione di rifiuti che non può essere smaltita altrimenti, un’altra è pensare di aprire un buco per risolvere i problemi della cittadinanza. Anche perché questo non aiuterà la città di Napoli a risolvere il problema. È Napoli che deve lottare per imporre agli amministratori la differenziata. Finché troveranno un buco – e ne troveranno ancora per decenni – continueranno così. In Campania si sono fatte le discariche per due motivi: la disponibilità di cave del dopo terremoto e la presenza sul territorio di un imprenditore locale molto attivo, la Camorra, in grado di fluidificare una serie di rapporti a livello nazionale e transnazionale. Ma, soprattutto, perché le comunità locali non erano particolarmente sensibili a questi temi. Oggi io vedo una grandissima reattività di tutte le categorie di persone. È una sensibilità trasversale che va dal giovane dei centri sociali napoletani, al professionista, fino al vecchio contadino di Savignano, tutto chiesa e lavoro. La gente inizia a distinguere tra giustizia e legalità. Si rendono conto che non sempre la giustizia coincide con il perimetro di quello che viene dallo Stato, dall’ufficialità della norma. E non è poco.

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