È giusto disobbedire alle leggi ingiuste?

Due importanti personaggi del passato hanno scritto parole ispiratrici sulla disobbedienza civile, cioè il diritto-dovere di rifiutarsi di obbedire a leggi che non rispettano i principi di giustizia, equità e libertà. Analizzando brevemente il loro pensiero, proviamo a immaginare quale applicazioni potrebbe avere ai giorni nostri.

È giusto disobbedire alle leggi ingiuste?
Nel 1848 lo scrittore americano Henry David Thoreau fu incarcerato per non aver pagato una tassa di finanziamento della guerra in Messico. Rilasciato dietro cauzione (versata da una parente contro la sua stessa volontà), Thoreau pronunciò l’anno dopo, durante una pubblica assemblea, un discorso che sarebbe poi stato pubblicato e avrebbe ispirato tantissime persone, alcune molto conosciute e influenti, nei decenni a venire. Il titolo di questa sua orazione era Resistenza al governo civile, poi mutato in Disobbedienza civile, con cui divenne noto ai più. Al di là del tema specifico che scatenò l’intera vicenda e provocò l’arresto – il rifiuto di pagare la poll-tax di 1 $ per finanziare la cosiddetta 'guerra di mister Polk' –, il pensatore americano si pone un quesito fondamentale, ovvero se sia giusto ubbidire a delle leggi che ledono la coscienza dell’individuo e, più in generale, sottostare a uno Stato che non tiene conto della volontà dei suoi cittadini. Secondo Thoreau, prima di tutto bisognerebbe rispettare la propria coscienza, "la percezione e l’attuazione del giusto". Le stesse leggi dello Stato dovrebbero essere formulate secondo coscienza, rispettando la dignità di tutti i cittadini e non solo dei più potenti o dei più ricchi. Proprio questo è il punto di contrasto: accade spesso che l’obbedienza civile sia in conflitto con dei principi che superano per importanza quelli statali, quegli stessi principi che – come vedremo più avanti – secondo Don Milani si rifanno alla legge divina o, per chi non è credente, alla legge di coscienza. Posto davanti a questa scelta, Thoreau non ha dubbi: "dovremmo essere prima di tutto uomini e poi sudditi. Non c’è da augurarsi che un uomo nutra rispetto per la legge ma che sia devoto a ciò che è giusto". In questo modo si apre il conflitto fra l’uomo – che spesso non è un singolo individuo ma un gruppo, un movimento, una massa – e lo Stato, un’entità superiore per forza e potere ma in molti casi inferiore in quanto a rettitudine e senso di giustizia. Thoreau non rinnega lo Stato come entità, rifiuta quello stato, lo stato americano del diciannovesimo secolo, lo stato che aggrediva proditoriamente il vicino Messico, lo stato che non rinnegava la schiavitù, lo Stato retto e amministrato da persone che rispondevano a interessi diversi da quelli dei cittadini. È però pronto a obbedire a uno Stato le cui leggi siano studiate rispettando la coscienza e i valori di tutti, condivisi dalla comunità, anche se realisticamente non è molto ottimista su un suo avvento. Ancor meno dello Stato e delle sue leggi Thoreau sopporta gli uomini onesti, i patrioti del suo tempo, fedeli allo Stato e ingannati dal meccanismo della (finta) partecipazione democratica e del meccanismo elettorale, protagonisti di un laissez-faire che ricorda tanto la democrazia della delega che sta rovinando la vita politica nel nostro paese, la tanto sbandierata fiducia nelle istituzioni che maschera blandamente il disinteresse per l’applicazione dei principi di giustizia e libertà nella vita sociale e pubblica della comunità. Questo disprezzo si accompagna alla passione con cui Thoreau attua la sua disobbedienza civile, che egli considera un diritto, anzi un dovere, sacrosanto e inalienabile, tanto che all’amico Emerson che lo va a trovare in cella e gli chiede che cosa ci faccia lì dentro risponde: "Waldo, la vera domanda è cosa ci fai tu lì fuori". Di disobbedienza civile si sono occupati in maniera più o meno approfondita ed empirica molti altri personaggi della nostra epoca e di quelle precedenti, diversi dei quali presero ispirazione proprio dalle parole dello scrittore americano, come per esempio Gandhi, secondo cui la disobbedienza si sostanziava nella resistenza – naturalmente non-violenta, secondo le sue convinzioni – che consisteva nel violare le leggi che erano considerate ingiuste e pagarne le conseguenze, anche in termini di detenzione (Gandhi stesso trascorse in carcere più di sei anni della sua vita, mentre Thoreau protestò vivacemente quando gli venne pagata a sua insaputa la cauzione). Analogo è il pensiero di una persona che praticò la disobbedienza civile in un luogo e un tempo molto più vicino a noi, cioè Don Lorenzo Milani. A questo proposito è famoso il suo scritto L’obbedienza non è più una virtù, considerato uno dei manifesti dell’obiezione di coscienza e composto da alcune lettere rivolte ai giudici e agli accusatori di un processo che lo vide imputato per apologia di reato, avendo egli difeso degli obiettori incarcerati. In questo caso il potere esercitato dallo Stato è rappresentato dalla leva militare, dagli ordini impartiti ai soldati dai loro superiori e dall’opportunità di eseguirli anche se in palese contrasto con le singole coscienze dei militari. Don Milani rivendica le sue posizioni, si esprime per ribadire la propria innocenza ma al tempo stesso assicura che le sue idee e i suoi metodi di insegnamento non cambieranno se verrà condannato, poiché egli ubbidisce alle leggi di Dio – per chi ci crede –, della morale e della coscienza e non dello Stato, visto che queste ultime sono spesso immorali e ingiuste. Milani considera – forse ingenuamente, guardando la situazione con il senno di poi – il voto e lo sciopero i diritti costituzionalmente garantiti grazie ai quali i cittadini possono esprimersi, ma al tempo stesso ritiene che l’esempio, l’azione e, quando serve, la disobbedienza siano una leva ancora più efficace. Spesso poi, è più difficile disubbidire che ubbidire, soprattutto se si accetta consapevolmente le conseguenze delle proprie azioni, secondo un coraggio, una coerenza e una convinzione nelle proprie idee che supera anche la paura del carcere o di pene peggiori. L’esempio che Don Milani propone è quello di Claude Eatherly, la vedetta che precedette l’Enola Gay la mattina del 6 agosto 1945 e che autorizzò lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima con le famose parole "su Nagasaki coperto, su Hiroshima sereno, con visibilità dieci miglia sulla quota di tredicimila piedi". L’aviatore americano si congedò subito dopo la fine del conflitto abbandonando una promettente carriera militare, rifiutò la pensione di guerra e visse il resto della sua vita fra i tormenti, rinunciando a psicofarmaci e tranquillanti nonostante ogni notte sognasse le donne e i bambini carbonizzati da Little Boy. Come scrisse Don Milani, "un 'bravo ragazzo, un soldato disciplinato' secondo la definizione dei suoi superiori, 'un povero imbecille irresponsabile' secondo la definizione che dà lui di sé". Per Milani come per Thoreau, proprio i 'bravi ragazzi', i collaboratori, coloro che permettono agli Stati tiranneggianti e alle leggi ingiuste di perpetrarsi, sono i peggiori, poiché in quanto sottoposti, ubbidienti a ordini e norme superiori, si considerano irresponsabili dei danni e delle conseguenze negative provocate dai loro comportamenti, al contrario dell’obiettore e del disubbidiente, per i quali l’assunzione della responsabilità in prima persona è una prerogativa fondamentale. Per concludere queste considerazioni sulle idee di due propugnatori della disobbedienza civile, vediamo brevemente che valore può avere questa pratica oggi. Prima di tutto dimentichiamoci delle varie rivoluzioni colorate, ultima in ordine di tempo quella dell’Onda Verde in Iran, propagandate come l’ultima versione dell’azione non violenta e della disobbedienza civile, ma ispirate da un pensatore tanto conosciuto quanto controverso qual è Gene Sharp e caratterizzate da alleanze strategiche troppo sospette per non indurre a pensare che si tratti di operazioni molto meno spontanee e massive di quanto vogliano farci credere. Dimentichiamoci anche degli altrettanto controversi episodi di cui sono stati protagonisti i dimostranti che recentemente – in maniera peraltro molto poco non-violenta – hanno manifestato contro il Governo e la riforma della scuola. Pensando a questi casi, la prima caratteristica che viene in mente e che dovrebbe possedere chiunque si rifiuti di obbedire alla legge, è la consapevolezza: sia per evitare una caotica anarchia in cui i principi a cui obbedire non sarebbero più equità, giustizia e libertà bensì convenienza personale – per capirci: una tassa non va pagata perché è ingiusta, non perché abbiamo voglia di tenerci in tasca qualche soldo in più –, sia perché abbiamo innumerevoli testimonianze di come tanto le masse quanto le singole persone siano spesso facilmente manipolabili. Il primo passo, certamente non indifferente, è quindi quello di creare una consapevolezza diffusa, gettare le basi culturali di un movimento o anche solo di una corrente di pensiero disobbediente, anticonformista, intransigente e decisa a portare avanti con coerenza le proprie idee. Al tempo stesso, è necessario lavorare sulla creazione di criteri alternativi sui quali fondare una nuova visione, poiché non si può contestare le leggi vigenti senza proporne di nuove, più giuste e più eque. Un terzo suggerimento è quello non cadere nelle trappole che il sistema dominante ha approntato: non illudersi di cambiare le cose affidandosi al voto elettorale, alle iniziative dei sindacati, ai partiti di nuova costituzione ma di vecchia concezione e a tutti gli altri meccanismi che servono semplicemente come valvola di sfogo per la voglia di cambiamento delle persone ma che non producono nulla di sostanziale. Pur senza volere spingere le folle in piazza né scatenare una grande rivoluzione dal giorno alla notte, non è fuori luogo pensare che non manchi molto al momento in cui bisognerà davvero uscire dagli schemi, cominciare a pensare e ad agire seguendo nuove idee e nuovi valori, mandando in pensione quelli vecchi e le strutture che li sorreggono.

Commenti

E' un articolo molto bello. Lo farò leggere anche ad altri. Peccato solo per l'uso poco corretto della parola "anarchia", qua intesa come desiderio egoistico e caotico, mentre una più corretta definizione, almeno nell'accezione contemporanea, è di una forma ordinata di organizzazione sociale, basata sulla mutualità, anziché sull'autorità, la gerarchia, ed in sostanza, l'esercizio del potere. ...Anche perché, sembrerà forse strano, ma un articolo come questo, sembra quasi uscito dalla penna di filosofi anarchici come Colin Ward, Murray Bookchin e Gustav Landauer. :-)
Masque, 05-01-2011 01:05
In questi giorni si parla dei Padri della Patria; di uno sentirete parlare poco: Giuseppe Mazzini. Egli fu insieme a Thoreau ispiratore della Satyagraha di Gandhi. La lettura del suo "Doveri dell'Uomo" dovrebbe essere inserita fin dalle scuole nell'educazione nazionale, invece quasi nessuno lo conosce. Su questi valori il Risorgimento riuscì a riunificare l'Italia, e su questi valori ancora oggi validi, dovremmo fondare gli Italiani. "...Dio v'ha dato la vita; Dio v'ha dunque data la legge; Dio è l'unico Legislatore della razza umana. La sua legge è l'unica alla quale voi dobbiate ubbidire. Le leggi umane non sono valide e buone se non in quanto vi si uniformano, spiegandola ed applicandola: sono tristi ogni qualvolta la contradicono o se ne discostano: ed è non solamente vostro diritto, ma vostro dovere disubbidirle e abolirle. Chi meglio spiega ed applica ai casi umani la legge di Dio, è vostro capo legittimo: amatelo e seguitelo. Ma da Dio in fuori, non avete, né potete, senza tradirlo e ribellarvi da lui, avere padrone." Giuseppe Mazzini - Doveri dell'Uomo
Ezio, 05-01-2011 02:05
@ Masque: accolgo volentieri la tua critica: in effetti ho usato la parola "anarchia" forse un po' sbrigativamente, non per richiamare particolari correnti di pensiero ma semplicemente come sinonimo di caos o situazione in cui ognuno pensa per sè. Effettivamente proprio Murray Bookchin e il suo municipalismo libertario sono uno degli argomenti a partire dai quali vorrei ampliare un po' il discorso qui solo accennato. @ Ezio: grazie per la tua puntualizzazione, è molto interessante e calzante.
Francesco, 05-01-2011 04:05
Mi permetto di fare una riflessione controtendenza: perché si parla di "ubbidire a delle leggi" e non di "rispettare delle leggi"? Dal momento che si vive in uno stato di diritto, e si è "cittadini" si hanno diritti, ma si hanno anche dei doveri, tra cui il primo credo sia rispettare la legge. Altrimenti il senso di giusto o sbagliato viene relegato soltanto alla morale soggettiva. Se non si condividono le leggi vigenti si possono promuovere politiche e comportamenti che democraticamente portano alla modifica o addirittura all'eliminazione della legge stessa. Se lo stato (e quindi i cittadini, attraverso il processo di democrazia rappresentativa) decide che la legge è giusta così com'è.... beh... o si cambia paese e ci si trasferisce dove questa legge non c'è... oppure si riconosce che non si può creare un mondo su misura per tutti. accetto repliche. un saluto.
Tommaso, 05-01-2011 07:05
@Tommaso: se dessimo per scontata l'infallibilità dei legislatori e quindi la giustezza delle leggi, potrei essere d'accordo con te. Ma la fallibilità umana ci mette in una condizione per la quale chi produce le leggi, non è più infallibile di chi le deve seguire e tuttavia, c'è una differenza di potere fra le parti. Quindi, ci troviamo spesso nella situazione in cui esistono leggi non giuste, oppure malfatte, scritte senza tenere conto di molte implicazioni e conseguenze che si evidenziano solamente all'atto pratico dell'applicazione. La differenza di potere legislativo fra la maggior parte della gente e chi governa, rende estremamente difficile per i primi, il compito di modificare o correggere le leggi ingiuste o malfatte. La "distanza" psicologica ed ambientale fra chi governa e chi è governato, rende difficile ai primi di rendersi conto o di accettare le difficoltà e le lamentele dei secondi. Esistono quindi leggi non rispettabili, perché non hanno le giuste caratteristiche che possano suscitare considerazione e quindi non vengono considerate come una buona regola di relazione fra gli individui. Al contrario, l'obbedienza alle leggi è una cosa richiesta, obbligata. Secondo lo stato, non si può interpretare a modo proprio una legge, o prenderla come un consiglio, ma si deve obbedire. Quindi, fra rispetto ed obbedienza, solo la seconda è una caratteristica richiedibile da tutte le leggi. Quando al cambiare paese, penso che se davvero tutti applicassero questo principio, ci troveremo in una diaspora totale. Considerando quanto la necessità di avere un lavoro ci costringe negli spostamenti ed influenza le nostre decisioni su dove vivere, cambiare paese diventa una scelta molto difficile da fare. Sarebbe inoltre una scelta egoistica. Ritengo preferibile agire in modo da portare al cambiamento di leggi ingiuste, anche con la disobbedienza ed incoraggiando gli altri alla disobbedienza, in modo da contribuire al miglioramento della società in cui viviamo.
Masque, 06-01-2011 12:06
Non ritengo soltanto GIUSTO disobbedire a leggi ingiuste ma addirittura DOVEROSO. Il legislatore ha il dovere di legiferare con cura e soprattutto in armonia con i principi dettati dalla Costituzione italiana e l'infallibilità o meno del legislatore, dopo una marea di leggi fatte non per errore o imperfezine ma appositamente in contrasto con i pirnicpi costituzionali, è a questo punto un pretesto di alcun valore. L'errore è involontario quando una volta segnalato viene corretto... quando permane nonostante ripetute segnalazioni e proteste diventa un abuso di potere. Cerchiamo di dire le cose come stanno senza nascondersi dietro alle foglie perché un elefante non può nascondersi dietro ad una foglia.
BrunoAprile, 07-01-2011 10:07
articolo molto ben scritto e interessante. in riferimento all'ultima parte mi piacerebbe conoscere l'opinione dell'autore riguardo a quanto sta succedendo in spagna nelle ultime settimane (occupazione delle piazze, movimento 15M, indignati). io stesso non sono ancora riuscito a farmi un'opinione precisa in merito... grazie! ciao
Piero, 05-06-2011 02:05
Caro Piero, sulla Spagna ti consigliamo di leggere questo articolo: http://www.ilcambiamento.it/lontano_riflettori/protesta_indignati_reportage_barcellona.html
La redazione, 06-06-2011 10:06
SONO IMPIEGATA IN UN UFFICIO COMUNALE CHE SI OCCUPA ANCHE DELLA CONSEGNA DEI TESSERINI VENATORI AI CACCIATORI. IO SONO ANIMALISTA VEGETARIANA E HO GIA' CHIESTO A SUO TEMPO DI ESSERE ESONERATA DA QUESTA INCOMBENZA.NON ESISTE OBIEZIONE DI COSCIENZA IN QUESTO CAMPO. SE TI RIFIUTI PUOI ESSERE ANCHE DENUNCIATO PER INADEMPIENZA AI DOVERI D'UFFICIO. I CACCIATORI AGISCONO NELLA LEGALITA' MA IO NON APPROVO LA CACCIA E FACCIO VIOLENZA SU ME STESSA A CONSEGNARE LORO UN DOCUMENTO CHE LI AUTORIZZA AD UCCIDERE GLI ANIMALI. E' GIUSTO OBBEDIRE ALLO STATO O ALLA COSCIENZA?
LAURA, 29-07-2012 06:29

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