Due terzi schiavo

Facciamo un po' di conti, di quelli antipatici, che non piacciono, che lasciano l'amaro in bocca. Ma facciamoli, che aprono gli occhi. Noi lavoriamo per due terzi della nostra vita, ce ne resta un terzo soltanto...per "consumare" usando i soldi che ci hanno dato in cambio del nostro tempo.

Due terzi schiavo

Dal blog llht.org, per gentile concessione dell'autore, Andrea Strozzi.

Questo non vi piacerà. Per la verità, piace poco persino a me. Perché è… vero. Sono veri i numeri. Vere le emozioni. Vero il rimpianto. Vera la consapevolezza. Vero il successo. Vera la sensazione di libertà. Come molti di voi ormai sanno, nel 2014 ho mollato un posto di lavoro prestigioso e dignitosamente retribuito, dopo quasi quindici anni trascorsi nel settore finanziario. A fare cose “serie”, diciamo. Delicate. Strategiche. Responsabilizzanti. Aggettivo ingannevole, quest’ultimo. Perché inevitabilmente… relativo. Relativo al contesto in cui mi trovavo.

Io ero responsabile in quel contesto. Ma ero dannatamente irresponsabile in molti altri. Salto i passaggi intermedi (tutti raccontati nel mio libro), per dire che si arriva così al punto in cui, se alla mattina vuoi continuare a guardarti allo specchio senza abbassare lo sguardo, il salto devi farlo per forza. E infatti lo feci.

Con la fine del 2015, si sta chiudendo il primo anno interamente da outsider. Un anno in cui ho potuto gustarmi una nuova concezione della vita. Una dimensione in cui sono finalmente io a farmi le regole che possono servirmi. La prima e più importante di queste regole si chiama tempo. Non sono più gli altri a scandirlo adesso, ma soltanto io. Questa cosa è impagabile. E per molti aspetti indescrivibile. Credo che abbia intimamente a che fare con il concetto di libertà.

In questi giorni ho rimesso in fila le cose. Le ho ripensate. Rimuginate. Le ho valutate e rivalutate. Con occhi diversi. Con chiavi di lettura che fino ad ora avevo solo sfiorato. Adesso le ho quantificate. E ho paura, adesso. Paura a specchiarmi in ciò che sto per scrivere. Così come dovreste averla voi, paura. Per quello che è stato. E per quello che sarà. O che non sarà.

La questione è semplice: per chi, o per che cosa, si lavora.

Ho elencato tutte e sole le spese che nel 2013, l’ultimo anno intero in cui ho avuto un lavoro salariato, ho sostenuto per… lavorare! Che cioè erano strettamente dipendenti da quel lavoro. Perché funzionali ad esso. Spese piccole e grandi che ero costretto a sostenere per il solo fatto di trovarmi inserito in quel meccanismo. La famosa ruota del criceto, certo. Ho quindi convertito l’ammontare di quelle spese in ore e giorni di lavoro, banalmente dividendole per il mio guadagno netto orario. In pratica, ho applicato alla lettera la filosofia di José Pepe Mujica, in base a cui quando compro qualcosa, non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che mi è servito per guadagnarli.

Vediamo quanto mi sono costate quelle spese necessarie a poter lavorare, allora:

• Bar. Al bar ci andavo tre volte al giorno (prima di entrare in ufficio, a metà mattinata insieme ai colleghi, e in tarda mattinata per un caffè volante), a cui va aggiunta una ricarica settimanale media di 5 euro sulla chiavetta per le macchinette. Nota (per prevenire obiezioni): la spesa del bar non è da considerarsi facoltativa, perché in certi ambienti il bancone del bar è un luogo di lavoro esattamente uguale – se non addirittura più mirato – alla propria scrivania, perché è dove si stringono relazioni con persone di altri uffici e si scambiano informazioni spesso basilari per la propria attività. Totale: 15,2 giorni di lavoro. Dovevo cioè lavorare più di quindici giorni all’anno, solo per potermi finanziare le colazioni al bar…

• Pranzi fuori. Spesa giornaliera eccedente il valore del buono pasto, moltiplicata per 220 giorni lavorativi. Totale: 11,3 giorni di lavoro.

• Cene fuori. Questa voce – è vero – non dipende tecnicamente dal fatto di lavorare: mia moglie ed io avremmo in effetti potuto cenare ogni sera a casa, preparandoci noi qualche manicaretto. Ma… alle dieci di sera? In quanto, rientrando dal lavoro molto tardi, non avevamo né il tempo, né la testa, né la voglia di metterci ai fornelli. I ritmi a cui eravamo sottoposti ci “costringevano” quindi ad andare fuori a cena in media un paio di volte alla settimana. Totale: 22,9 giorni di lavoro.

• Acqua minerale. Questa voce la metto perché all’epoca, sempre per ragioni di tempo, prendevamo l’acqua al supermercato e non – come avviene oggi – gratuitamente all’acquedotto. Totale: 2,6 giorni di lavoro.

• Vacanze. Tema delicato, questo. In quanto, come per le cene fuori, nessuno ci obbligava tecnicamente a fare vacanze dispendiose. Ma, ancora una volta, quando si vive in un certo contesto le vacanze diventano purtroppo un modo per dimostrare di farne legittimamente parte. Una specie di certificato di appartenenza. Ricordo che una volta facemmo un bellissimo giro a piedi di alcuni giorni su un antico tracciato del nostro Appennino, spendendo una cifra irrisoria: il risultato fu che, al lunedì mattina, provai una certa vergogna a comunicare agli altri tale scelta. Ai fini di questo calcolo, considero quindi una vacanza “corposa” all’anno e tre weekend in giro per l’Italia, per un totale di 40,3 giorni di lavoro.

• Abbigliamento. Una delle regole non scritte era un abbigliamento formale piuttosto decoroso. Considero quindi, in media ogni anno, 3 camicie, 2 completi giacca+pantalone, 3 cravatte, 2 paia di scarpe, 1 giaccone o soprabito. Tutto di qualità media o medio-bassa e preso rigorosamente in saldo. Totale: 13,2 giorni di lavoro.

Subtotale fino a questo punto: 105,4 giorni di lavoro.

Poi c’è tutta un’altra serie di altre voci che, sebbene assorbissero importi inferiori, concorrevano sensibilmente a gonfiare la cifra complessiva. Mi riferisco per esempio a: previdenza integrativa (quota della mia retribuzione girata al fondo pensione), carburante per tragitto casa-lavoro (fortunatamente nel mio caso abbastanza modesto), lenti a contatto (possedevo un paio d’occhiali con una montatura del 1992 e, per le ragioni sopra esposte, oltre al dress-code esistevano anche delle convenzioni estetiche), alcuni farmaci o parafarmaci (per piccoli malanni che, guarda caso, da quando non vado in ufficio non mi colpiscono più), quotidiani e riviste (necessarie per aderire – almeno formalmente – a un circuito informativo mainstream, necessario per non sembrare dei disadattati), più altre voci di spesa inferiori.

Bene: includendo anche queste voci, il totale di giorni lavorati soltanto per “finanziare” la mia appartenenza a quel meccanismo sale a 148,7 giorni.

Detta in altre parole, dei 220 giorni lavorativi annuali, circa 150 mi servivano soltanto per restare inserito in quel modello. Senza che mi venisse in tasca niente di più. Niente di cui avessi effettivamente… BISOGNO.

E qui entriamo nella parte più drammatica. Che provo a illustrare aiutandomi con un grafico.

Grafico

Visivamente fa paura. Dei 220 giorni che la vita mi mette ogni anno comunque a disposizione e che io avevo scelto di dedicare al lavoro salariato, oltre due terzi (67,6%) erano funzionali a mantenere in moto quella ruota! Niente che servisse a me, alle persone che amo, ai miei bisogni, alle mie passioni, alla percezione di un Senso, di un Significato…

Per due terzi del mio tempo, vivevo per lavorare. E ve l’ho appena dimostrato.

Fermatevi, adesso. Fermiamoci un attimo. Ok, ora è perfettamente naturale: in alcuni lettori potrebbe scattare qualche legittima barriera di autodifesa, potrebbe persino sembrare giusto aggrapparsi alle possibili incongruenze dei miei calcoli. Vi risparmio la fatica: ci sono sicuramente delle incongruenze! Come altrettanto sicuramente le mie misurazioni sono state in qualche caso approssimative. Se non altro, in quanto frutto di una valutazione soggettiva. Certamente, la mia condotta non è stata irreprensibile. Certamente, ho ceduto su molti fronti. Avrei potuto evitare qualche cappuccino, qualche cena fuori e persino quel weekend a Volterra. Però adesso domandiamoci: di quanto si sarebbe abbassato l’istogramma rosso, senza quelle incongruenze? Davvero credete che si sarebbe abbassato a sufficienza per… non farci vergognare dei gerani che comunque tutti noi, nel corso degli anni, appendiamo alle sbarre della nostra cella? Se anche quell’istogramma rosso scendesse dal 67% al 50%, potremmo forse ritenerci soddisfatti?

E ora sferriamo il colpo finale. Estendiamo cioè il ragionamento, passando dal particolare all’universale. Dalla vicenda personale mia e di molti di noi ad una sua dimensione sistemica. Guardate, sempre in quel semplicissimo grafico, a cosa corrispondono veramente le due aree: quella rossa (che – ripeto – serve solo per tenere in piedi il meccanismo) e quel surplus verde (che corrisponde al tempo di lavoro con cui ci guadagniamo i soldi da destinare ad altro):

Garfico PIL

Circa un terzo del tempo che dedichiamo al lavoro serve effettivamente per consentirci di acquistare il cibo, pagare le utenze domestiche, la cultura e, qualora avanzasse qualcosa, mettere due soldi da parte: in pratica, sono i beni di prima necessità.

Ma – ed è qui che vengono i brividi – i due terzi rimanenti servono esclusivamente a mantenere in moto la megamacchina produttiva. Ad alimentare, cioè, il fantomatico PIL! Servono esclusivamente a fornire linfa a quel sistema perverso, autoreferenziato ed autoportante che si chiama libero mercato. I benefici di quei 148,7 giorni di sforzi non erano destinati al mio benessere, ma soltanto a… preservare il sistema.

Ed ecco perché tremano i polsi: perché, su un arco temporale di quasi quindici anni della mia vita, ne ho usati dieci solo per… nutrire il mio carceriere! Fisso quel grafico. E lo fisso ancora. Quasi inebetito. Fino a pietrificarmi. Non riesco a farmene una ragione. E in quanti ci siamo dentro, penso.

Oggi ne sono uscito, è vero (per essere dentro a qualcos’altro). Oggi il mio unico obiettivo è garantirmi l’equivalente monetario di quel surplus verde in alto, quello che cioè serve ad assecondare i bisogni primari miei e della mia famiglia. E’ un obiettivo che sto costruendo pezzo dopo pezzo. Un obiettivo che, soprattutto se alleggerito delle “zavorre rosse” che ci sono sotto, si rivela essere un traguardo assai più raggiungibile.

Lo so, è un pessimo post per concludere l’anno. O forse è ottimo, chi lo sa. Perché la consapevolezza è come al solito il primo passo, se davvero lo vogliamo, per passare poi all’azione.

 

Vivere Basso, Pensare Alto
Pensare come le MontagneVoto medio su 4 recensioni: Buono
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Commenti

Fortunatamente il mondo è vario. Quindi non tutti i lavori sono uguali. Ma la domanda è: quindi chi non "salta", continua a pagare il sig. STROZZI e il suo stato di disoccupazione?
Valerio, 04-01-2016 12:04
Conosci così bene la mia situazione economica e il mio bilancio famigliare, Valerio, per poter giudicare ciò che sto facendo con tale disinvoltura e accanimento (sia qui, che su FB)? Oppure la tua è soltanto... insicurezza?
Andrea Strozzi, 05-01-2016 11:05
Non conosco nulla, ma la domanda è lecita. Lei fa disanime puntuali, ma non parla mai del dopo licenziamento. Come fare dopo? Si sceglie un altro lavoro? E quale lavoro non rende schiavi?
Valerio, 09-01-2016 07:09
Il grosso del lavoro va fatto prima, Valerio. Non dopo. Il lavoro che si fa prima, almeno per quanto ha riguardato me e mia moglie (che non abbiamo le spalle coperte), è essenzialmente su due fronti: 1) consapevolezza interiore: per valutare, senza barare con se stessi, se siamo davvero idonei ad abbracciare la nuova condizione che ci avrebbe atteso; 2) ricerca, tra le cose che so fare, di quelle che potranno in qualche modo "interessare il mondo": questo aspetto è fondamentale per valutare la nostra motivazione e la sua "spendibilità". Fatte queste due cose, che hanno essenzialmente a che fare con la pianificazione e per le quali a me sono serviti circa... DIECI ANNI (giorno più, giorno meno), si passa al fare qualcosa DOPO. Ovvio che ognuno ha le sue prerogative, in funzione delle risposte che si è dato ai primi due punti. Nel mio caso, visto che te lo domandi, oggi campo con molto meno e con i due soldi che riesco a farmi entrare dalle vendite del libro e da piccole conferenze/seminari che faccio sui temi che tratto. Da bravo analista quale ero, registro che, sebbene i livelli assoluti di queste entrate siano bassi, il loro trend (che è ciò che conta) sia in espansione. Dunque, come dico spesso, posso affermare a me stesso che "la strada è questa". Ma se avessi fatto errori previsionali, o se la mia motivazione non fosse stata autentica, oggi sarebbero dolori. Spero di averti fatto un po' di luce. Tu, invece, a che punto sei? (Se intendi muoverti.)
Andrea Strozzi, 10-01-2016 09:10
Assolutamente vero! Questo articolo dovrebbe essere letto da molti... che ancora non si rendono conto che fanno un lavoro deprimente che non li aiuta certo a vivere meglio ma anzi... Io ci sono già passata qualche anno prima di Andrea e vi posso confermare che è proprio vero... perdere il lavoro (e soprattutto quel lavoro) è stata per me una vera liberazione!!! Non tutti i mali vengono per nuocere, anzi aiutano a disintossicarti e a capire qual'è il vero senso della vita! I conti che ha fatto Andrea sono giusti, ognuno può analizzare la propria situazione e verificare. Io da quando mi sono liberata da quel lavoro, mi sono liberata anche di tante cose superflue e "tossiche" (tra cui l'auto). E vi assicuro che mi sento molto meglio!!! Buona Vita a tutti!
Alessandra, 12-01-2016 04:12
Valerio, io ho dedicato una parte del mio tempo per darti spiegazioni che reputo molto delicate. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi e se, come ho fatto io, intendi rispondere alla mia domanda. Ciao, grazie.
Andrea Strozzi, 12-01-2016 07:12
Ciao Andrea, la mia esperienza nasce da un licenziamento di un lavoro che non sentivo mio. E' stata una liberazione, ma ho trovato difficoltà ad andare avanti per molto tempo. Fortunatamente adesso lavoro nella web communication, ma a dire il vero, neanche questo mi soddisfa. Ma ho un mutuo da pagare e delle bocche da sfamare. Non mi sento ancora di fare il passo che hai fatto tu...
Valerio, 13-01-2016 06:13
Come potrei mai dimenticare quella penna tutta rosicchiata con la quale mi avete fatto firmare la lettera di licenziamento! Grazie per quel gesto e per tutto il resto... perché forse senza tutto quello non sarei riuscita a liberarmi da quella prigione infernale! Auguro di cuore a tutti quelli che hanno sofferto molto come me di riuscire a vivere veramente come finalmente sto facendo io!
Alessandra, 15-01-2016 04:15
Caro Andrea, condivido la sua analisi che fa riflettere profondamente. Non mi stupisce invece il fatto che, per la maggior parte delle persone sia difficile, se non impossibile, prendere decisioni come quelle che lei e sua moglie avete preso (che condivido ed ammiro). Come ci spiega infatti il premio nobel Daniel Khaneman con la "teoria del prospetto” e con l’aiuto della psicologia cognitiva si riesce a dimostrare empiricamente che le scelte degli esseri umani violano sistematicamente i principi della razionalità economica in particolare sulle decisioni in condizione di rischio. Nel prendere queste decisioni intervengono infatti fattori psicologici (trappole cognitive) come: l’avversione alla perdita e gli effetti di isolamento, contesto e di riflessione, ad esempio . Ho invece una perplessità sulla valutazione quantitativa del 2°grafico, ovvero: 220 sono circa i 2/3 dei giorni che ci servono per acquistare i beni di prima necessità e non viceversa o forse non ho capito qualcosa? Infine, e concludo, con l’apporto dell’analisi sociologica: oltre ai bisogni primari, nelle società occidentali, si ha la necessità di soddisfare molti bisogni intangibili (ad esempio: la sicurezza) che nelle analisi di Maslow e poi ancor meglio della Heller sono definiti come bisogni “radicali” e quindi fondamentali. Certamente, in una vita più libera, si ha più tempo per conseguirli ... ma non si stupisca se nella contrapposizione dei bisogni in molti non riescono a fare scelte apparentemente così evidentemente appaganti. Un caro saluto e continuo a leggerla con interesse. Cinzia Boniatti
Cinzia Boniatti, 28-02-2017 02:28

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