La storia di Elisa, da stilista a missionaria in Tanzania

Colpita dal “mal d’Africa” e dalla voglia di cambiare vita, ha abbandonato il suo lavoro per un grande brand di abbigliamento e si è trasferita in Tanzania per fare la volontaria in un orfanotrofio. Elisa Grazioli ci racconta la sua esperienza.

La storia di Elisa, da stilista a missionaria in Tanzania
“Se si ha assaggiato almeno un po’ di Africa non si può fare a meno di volerci ritornare e respirare la sua vita. È una malattia senza guarigione, difficile da spiegare a chi non l’ha mai sperimentata. La terra è rossa, l’erba è verde, la luce è abbagliante, il cielo di giorno è di un azzurro intenso, essendo più vicino alla terra di quanto non sia ad altre latitudini, e la sera regala uno spettacolo luminoso di stelle che, senza l’inquinamento atmosferico delle nostre città, illuminano la notte. La Via Lattea appare subito con tutta la sua luce anche all’osservatore meno attento. Forse sono proprio questi colori messi insieme che mi hanno riportato qui in Tanzania e che mi accompagnano ogni giorno in questa esperienza di volontariato”. Elisa descrive così, di getto e con lo sguardo rivolto in alto tipico di chi sta sognando a occhi aperti, la sua esperienza africana. Fino a un anno fa aveva un contratto a tempo indeterminato con un importante marchio di abbigliamento, per cui faceva la stilista. Una vita tranquilla, la stabilità economica, il futuro garantito… ma le mancava qualcosa. Ciò di cui aveva bisogno lo ha trovato, in modo quasi casuale, in Tanzania. Quando hai pensato di partire per l’Africa, c’è stato un aspetto in particolare – un racconto, un momento di intima riflessione, un’immagine… – che ti ha aiutato a fare questa scelta? Sono arrivata qui non per un motivo specifico, ma perché in casa mia si è sempre parlato di questo continente “lontano” e la voglia è cresciuta piano piano attraverso i racconti dei miei genitori, che sono stati i primi a venire qui e a descrivere queste persone speciali e questi posti così diversi, che hanno suscitato in me grande curiosità. Nel 2011 sono partita per la prima volta per la Tanzania grazie all’associazione Albero di Cirene di Bologna; lì ho conosciuto un gruppo di ragazze con la mia stessa voglia di scoperta e con loro ho condiviso questa bellissima avventura di volontariato che rimarrà sempre nel mio cuore. Abbiamo raggiunto un piccolo villaggio chiamato Nyakipambo, dove abbiamo tinteggiato e decorato un asilo che l’associazione Gruppo Missionario Alto Garda e Ledro aveva appena finito di costruire. Lì abbiamo dipinto l’asilo, ma ci siamo anche inserite nella vita del villaggio e dei suoi abitanti e ci siamo confrontati con loro. Sono tornata nell’estate del 2012 e in quel viaggio la mia curiosità è cresciuta ancora di più e ho capito che le tre settimane di ferie estive non erano sufficienti per entrare davvero in sintonia con questi luoghi. In quell’occasione ho avuto la possibilità di conoscere l’orfanotrofio di Tosamaganga: lì, circondata da tantissimi bambini che mi chiamavano per nome chiedendo un’attenzione o una carezza, sono stata avvolta dal desiderio di trascorrere più tempo con loro. Quali sono state le reazioni delle persone che ti erano vicine quando hai deciso di partire? Una volta tornata in Italia, ho condiviso questo mio desiderio con la mia famiglia e con le persone vicine a me: la loro reazione è stata positiva, ma come tutti coloro che ci vogliono bene, mi hanno messo in guardia, riferendosi per esempio al periodo negativo che l’Italia sta attraversando e al fatto che oggigiorno lasciare un lavoro sicuro non è una scelta facile né conveniente. Certo, erano dubbi che anch’io mi ero posta, ma se una cosa la si vuole veramente secondo me la si deve rincorrere e non si deve avere paura di intraprendere una nuova avventura. Poi, se sarà destino, ritornerò sulla strada di prima; siamo sempre in tempo a tornare indietro. Viceversa, questa nuova esperienza mi potrebbe aprire orizzonti nuovi che, senza viverla, non potrei mai scoprire. Ma il bello delle nuove avventure è proprio la sensazione di incertezza e di sfida che le caratterizza. Quali sono le differenze culturali e spirituali fra la nostra società – in cui abbonda la ricchezza economica ma scarseggiano benessere e felicità – e quella tanzaniana e africana? Qui ogni cosa è intensa, dal profumo dell’olio di girasole all’abbraccio di un bambino, al sole che picchia sulla testa ricordandoti che in Africa la vita non è facile. Specialmente per noi “wageni”, ovvero stranieri, l’esistenza quotidiana è molto impegnativa, a partire dal caldo, dal sole che ti segue tutto il giorno e rende tutto più lento. L’acqua è diversa, così come il cibo, e il nostro corpo è catapultato in un ambiente sconosciuto e ha bisogno di tempo per abituarsi al cambiamento. Così come esso metabolizza questi mutamenti un po’ alla volta, anche nel nostro voler aiutare il prossimo dobbiamo avanzare con prudenza. Una frase di Giuseppe Alamanno, un missionario che ha operato in Africa, esprime perfettamente il concetto: “Non dobbiamo semplicemente fare del bene: dobbiamo farlo con diligenza e nel miglior modo possibile. La pazienza va seminata dappertutto”. “Pazienza” è una parola che mi è tornata spesso in mente in questo periodo, perché oltre alla diversità del clima e dell’ambiente, bisogna fare i conti anche con la diversità culturale. Tante cose ci accomunano e tante altre ci dividono. I tanzaniani sono un popolo gentile e accogliente e lo si vede subito dai saluti; per loro il saluto è importantissimo, non sono mai avari con il tempo da dedicare ai convenevoli, si informano sulla salute delle persone che incontrano e della loro famiglia, anche se non le conoscono. La famiglia per loro occupa un ruolo centrale nella vita ed essi attribuiscono una grande importanza ai matrimoni e agli altri riti sociali. Anche nella nostra società la famiglia è importante, ma oggigiorno è diventato normale crearla sempre più tardi, perché ci preoccupiamo prima del lavoro, di trovare una sistemazione economica buona che possa dare stabilità alla futura vita familiare. Difatti, quando ci si confronta su questo argomento, viene sempre fuori quella buffa domanda: “Come mai a trent’anni una donna italiana non ha ancora figli?”. Qui, a quell’età, sono già al secondo! Qui non danno peso ai soldi e alla stabilità economica; hanno quella piccola dose di “irresponsabilità” che a noi ci manca e che a loro forse permette di vivere la vita nel presente più che nel futuro... Ma non voglio esprimere giudizi di merito, perché non credo esistano un modo giusto e uno sbagliato. C’è qualche aspetto in particolare che ti ha colpita? Il loro legame con la Terra, sulla quale camminano a piedi nudi. Ma anche il rapporto col cibo, che spesso mangiano senza posate e che per loro significa semplicemente nutrimento e non è legato al “culto” della gastronomia come da noi. In occidente è diverso: da fonte di sostentamento, il cibo si è evoluto; la varietà da noi è apprezzata, mentre per loro spesso non c’è questa possibilità, ma anche quando ce l’hanno non osano molto, poiché sono conservatori e abitudinari. Dico “conservatori” perché spesso qui si trovano “bianchi” che vengono a operare come volontari, che portano il loro aiuto, la loro conoscenza e parlano con loro. Confrontandoci, anche se si opera in settori diversi, emerge sempre un comune denominatore: la diffidenza nei confronti dei nostri consigli. Non dicono mai di no perché sono un popolo molto gentile, ma ce lo fanno capire... Ho riflettuto spesso su questa cosa e ho concluso che forse è dovuta alla colonizzazione: il loro è sempre stato un popolo soggiogato, che ha sempre ricevuto ordini, e ora vogliono dimostrare di essere in grado di farcela anche da soli. E lo possono fare, perché non è grazie ai bianchi che vanno avanti, anzi, ma questo atteggiamento al tempo stesso li frena. Comunque siamo noi gli ospiti della loro terra e cerchiamo di dare una mano nel modo in cui a loro è più comodo. Ci puoi parlare del progetto che stai seguendo? Vi sto scrivendo dalla Tanzania-Iringa-Tosamaganga, dall’orfanotrofio delle Suore Teresine, Kituo Cha Watoto Yatima. Questa casa è la mia casa e le persone che ci lavorano e i bambini adesso sono la mia famiglia. Questa famiglia è composta da 66 bambini che variano dal mese ai sei anni di età, 6 suore, una ventina di dade e altri 3 volontari tedeschi. Ognuno ha il suo ruolo e ci si aiuta a vicenda per rendere tutto divertente ma nello stesso tempo efficace e formativo. I bambini sono divisi in quattro gruppi: lattanti, piccoli, medi e grandi. Il gruppo che seguo è quello dei piccoli, che vanno dai nove mesi ai tre anni e questi 16 bimbetti ci riempiono la giornata! E qual è la tua giornata tipo? È una domanda che mi sento porre spesso! Ora provo a descriverla... I giorni qui in Africa iniziano presto la mattina e con i bimbi è normale. Verso le 7.30, dopo aver fatto colazione, mi reco nella stanza dei “miei” bimbi, che quando mi scorgono da lontano iniziano a chiamare “Elisa, Elisa, Dada Elisa!”. Queste vocine che urlano il mio nome sono una cosa bellissima e i loro occhi che mi cercano per un’attenzione, una coccola o semplicemente uno sguardo mi scaldano il cuore e mi riempiono la giornata! Si inizia riempiendo i biberon e i bicchierini di latte, si cambiano, si puliscono e poi tutti in cortile a giocare! C’è chi è alle prese con le prime parole – mamma, dada e anche Elisa è diventata una di esse –; non potete immaginare la gioia nel sentire una vocina pronunciare il mio nome, in quel momento il mio cuore batte a mille! Altri sono alla scoperta del mondo visto a quattro zampe e quindi iniziano a gattonare dappertutto alla ricerca dei loro amici. Poi ci sono quelli che piano piano cercano di prendere il via alzandosi e provando a camminare da soli. Ogni giorno si fanno dei progressi, dal rimanere in piedi, al camminare con l’aiuto una mano... e un po’ alla volta vedi che lasciano la presa e cercano di avanzare da soli! Ogni giornata ha il suo evento: Joseph ha fatto i primi passi, Enjoy ha detto la sua prima parola, Lecho ha imparato a battere le mani… queste sono soddisfazioni che riempiono il cuore di gioia. Poi ci sono i più grandicelli del gruppo che corrono e ti saltano addosso alla ricerca di un abbraccio o ti chiamano per farsi guardare mentre scendono dallo scivolo o semplicemente per invitarti a giocare insieme a loro con dei tappi di bottiglia. Giochi semplici ma capaci di infondere grande felicità. A metà mattinata arriva l’ora del semolino: si recuperano i 16 bambini sparsi per il cortile e li si mette a sedere uno accanto all’altro su un kitenge – un tessuto africano – con il proprio bavaglino e in gruppo si inizia a imboccarli. Alla fine del pasto, i bimbi vanno a nanna e io mi reco in stanza a studiare il kiswahili; piano piano, con l’aiuto di uno dei volontari tedeschi, sto imparando questa lingua, importantissima sia con i bambini che con le dade con cui lavoro tutti i giorni. Dopo l’ora del pisolino e il mio pranzo, ritorno dai miei folletti birbanti, do loro del latte e li riporto a giocare in cortile. Verso le quattro, un altro po’ di semolino, cambio pannolino e tutti a nanna fino alle otto, dopo di che si prende il latte e ci si riaddormenta nuovamente per raggiungere Morfeo nel cuore della notte. C’è un bambino di cui ci vuoi parlare in particolare? In questo gruppo c’è anche Neema, una bimba che ha bisogno di assistenza e non è autosufficiente a causa di un problema cerebrale che compromette la funzionalità degli arti, che devono essere sollecitati e movimentati. L’altro problema da cui è affetta è la contrazione della massa muscolare nella zona di bacino e gambe e per questo ha bisogno di essere rilassata con esercizi ripetuti giornalmente. Con lei, due volte alla settimana, andiamo in città, a Iringa, per delle sedute di fisioterapia in un centro specifico per bambini e quotidianamente svolgiamo gli esercizi che ci danno da fare a casa. Quest’anno Neema ha compiuto tre anni. Il nostro primo incontro risale all’estate 2012: era sdraiata a pancia all’aria su una coperta e osservava sorridendo i suoi amici passarle vicino… abbiamo incrociato i nostri sguardi, mi ha sorriso chiedendomi con gli occhi di andare a giocare con lei e così ho fatto. Da quel momento in poi abbiamo pensato che sarebbe stato bello che Neema potesse avere la possibilità di provare a camminare e a giocare con gli altri bambini, quindi abbiamo deciso di adottarla a distanza e aiutarla nel suo percorso. Una volta tornata in Italia, insieme al mio amico Matteo, ho parlato ai nostri conoscenti di Neema e della nostra idea di aiutarla e grazie anche alla collaborazione delle suore siamo riusciti a trovare un centro specialistico per bambini con problemi come i suoi. Ora io e lei siamo inseparabili! Per raccontare la mia esperienza ho aperto il blog unatwigaintanzania.blogspot.it, dove cerco di trasmettere le emozioni che sto vivendo. Non è come vivere questa esperienza in prima persona, ma spero tanto di arrivare ai vostri cuori e farli battere almeno una volta come sta facendo il mio in questo momento. Non so cosa mi aspetta quando tornerò in Italia, ma sarò sicuramente felice di quello che avrò fatto in Africa e una parte di me rimarrà per sempre in questa Terra.

Commenti

Io ho la fortuna di conoscere Elisa, siamo state colleghe per un paio di anni... Ho visto in lei nascere questo amore dall'esterno, l'ho osservata e ho visto i suoi occhi illuminarsi quando mi parlava dei suoi primi viaggi, ho visto la sua determinazione quando invece mi ha informata della sua decisione di partire e lasciare tutto... Sono felice che esistano persone come lei perché involontariamente influenzano anche "noi" è ci rendono persone migliori...ci stimolano a prenderci momenti di riflessione e a compiere anche nel quotidiano piccoli gesti per gli altri... Grande Elisa, Un bacio Lucia
Lucia Stoppioni, 30-10-2013 01:30
'Quando tornerò in Italia....' Ma è come lasciare una sorta di Paradiso...con i suoi angioletti..
carlo carlucci, 30-10-2013 09:30
Lacrime di gioia scendono ...
Leonardo, 01-11-2013 06:01
come un tanzaniano a roma sono molto commosso da questo articolo che descrivere la mia terra in un modo sincero, e di più questo incredibile amore di dada elisa, personalmente mi piacerebbe conoscerla. che Dio ti benedica
jonathan, 28-12-2013 12:28
mi ha commosso questo articolo è veramente ma veramente splendido spero che un giorno potrò visitare anch'io l'Africa
elena, 10-12-2014 07:10
Elisa,hai veramente un cuore d'oro!non è da tutti lasciare un lavoro sicuro che ti permette di vivere senza preoccupazioni ,cioè senza aver paura di non sapere cosa mettere sotto i denti ,per andare in un paese molto povero(perchè in effetti la Tanzania ,con tutto il dovuto rispetto per questa terra e i suoi abitanti è un paese molto povero)e vivere nella povertà,perchè i volontari non credo guadagnino molto :e fare lì del bene.A Jonathan:sono contenta che tu sia venuto in Italia,perchè questo mostra l'interesse reciproco che abbiamo noi italiani e voi tanzaniani ognuno per il paese opposto(a noi italiani piace andare là nel vostro paese a fare del bene e qualche volta anche voi,come te,venite a stare nel nostro). A me piacerebbe conoscerti,Jonathan,te lo confesso.Un abbraccio ad Elisa,italiana in Tanzania,e a Jonathan,tanzaniano in Italia.
maria elenac oppola, 24-12-2014 11:24
Elisa, ci sono poche parole per commentare quanto scritto; si percepisce la felicità della scelta che hai fatto, una felicità che mi ha colpito al cuore e alla pancia!!! Grazie per quello che stai facendo.
Riccardo, 31-12-2014 09:31
OGGETTO: RICHIESTA di collaborazione reciproca gentilissima sono Angelo un pediatra e sono appena tornato dal mio sperduto villaggio del Kenya, Muyeye, uno slum, per dire la verita', una baraccopoli di fango, lamiere e stenti. Ti dico : "Pensa ad una cosa, una qualsiasi cosa, loro non ce l'hanno", ma in verità hanno un sacco di cose: - hanno la fame, la malaria, la prostituzione, l'aids, la guerra , una vita appesa ad un filo che vale pochi, pochi centesimi. Oggi Muyeye e' una baraccopoli che si estende a perdita d'occhio alla periferia ovest di Malindi, dove vivono piu' di venticinquemila anime tra spazzatura che brucia, animali, mosche, malattie e degrado. E' superfluo dire che ancora oggi mancano fogne, acqua, corrente elettrica e la maggior parte delle persone vive all'interno di capanne di canne e fango. La maggior parte degli abitanti vive di espedienti, inventandosi giorno per giorno qualcosa da fare per sbarcare il lunario. E' ovvio che l'indigenza, la fame e le malattie finiscano per prevalere sull'etica, la moralita' e la legalita', ed allora il confine tra bene e male, tra lecito ed illecito diventa sempre piu' sottile fino a scomparire. In questi anni ho rischiato la vita e i miei occhi hanno visto tante cose. Hanno visto greggi frugare nell'immondizia insieme agli uomini; Hanno visto bambini piccolissimi attraversare la foresta camminando per ore per raggiungere la scuola, non tanto per studiare ma perche' certi di trovarci un piatto di fagioli o di polenta, Hanno visto donne bellissime barattare il proprio corpo con un pacco di farina, Hanno visto uomini, bestie immonde, partire dal proprio paese usare ed abusare di bambine e bambini indifesi, Hanno visto bambine e bambini abbandonati per strada violentati, Hanno visto bambini piccolissimi essere soli al mondo, Hanno visto uomini senza diritti, senza speranze, senza piu' dignita'. Ma, grazie a Dio (e a Muyeye, a volte risulta difficile immaginare che ne possa esistere uno), ho visto una donna amare tutti questi bambini come fossero suoi e questi bambini riconoscerla come mamma, ho visto bambini chiedermi di costruirgli una toilette perche' di notte hanno paura di uscire nella foresta a fare la pipi' e uomini buoni lavorare sotto la pioggia per costruirgliela, ho visto un bambino che non mangiava da giorni a cui ho comprato un panino e lui nonostante fosse affamato lo ha condiviso con i propri fratelli e cugini. Ringraziero' per sempre il destino che mi ha portato in questo paese in mezzo ai miei bambini. In questo villaggio io e Leonardo, anche lui medico, ci siamo capitati per caso, ormai non e' neanche piu' importante ricordarsi esattamente come, quando e perche', la cosa importante e' che oramai ci siamo e ci siamo integrati a tal punto da sentirci come a casa nostra. Il tempo a mia disposizione e' scaduto, non ti trattengo oltre vorrei solamente pregarti di farti portavoce per farci sostenere in questa iniziativa, stiamo mettendo su una fattoria e vogliamo aprire una sala operatoria. Abbiamo bisogno di tutto, qualche spicciolo, materiale sanitario che porteremo nelle nostre valigie. Serve latte in polvere, antibiotici, vitamine, integratori, antistaminici ecc. ecc.. E soprattutto volontari che vogliano partire con noi ed aiutarci nella realizzazione di questi piccoli ma grandi progetti. Inoltre qualcuno che ci sostenga nella realizzazione dei nostri progetti piu' ambiziosi. Grazie per quanto potrai fare e grazie a nome dei miei bambini. Pediatra Dott. Angelo Perrotta
angelo, 31-12-2014 04:31
magnifica esperienza complimenti come posso aiutarti ea realizzare u n progetto x i tuoi bimbi?
rapelli donatella, 01-01-2015 11:01
ciao Elisa, ho seguito la tua intervista in tv di qualche giorno fa e sono rimasto incantato. ti faccio infiniti auguri per la tua esperienza, sto pensando anch'io di seguire le tue tracce ed anzi ti chiedo a chi posso rivolgermi, scrivo da Pescara, per avere informazioni su come affrontare la preparazione del viaggio. grazie!
antonino, 08-01-2015 06:08
Ciao Donatella, per aiutarci puoi acquistare uno dei calendari del 2015 che puoi trovare in questo link: http://unatwigaintanzania.blogspot.it/p/pro-tanzania.html Oppure puoi fare una donazione libera, dove puoi indicare a quale progetto vuoi donare i soldi... Grazie mille del pensiero Antonino se vuoi fare un'esperinza di un periodo breve periodo di volontariato puoi scrivermi via mial: eli.grazioli@gmail.com e magari ti unisci ad un gruppo che parte nel periodo estivo. Elisa
elisa, 25-01-2015 09:25

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