Il mercato delle pellicce. Occhio alle etichette per non essere complici

Se la richiesta di pellicce intere si è ridotta notevolmente, oggi sono soprattutto 'pezzetti' di pelliccia applicati su un numero esponenziale di capi di abbigliamento a circolare sul mercato. Ma l’attuale assenza di obbligo di etichettatura per le guarnizioni, che permette alle case produttrici di ometterne l'origine animale, rende sempre più difficile un consumo etico dei capi d'abbigliamento.

Il mercato delle pellicce. Occhio alle etichette per non essere complici
Il mercato della pelliccia, nonostante le non poche difficoltà che, a partire dagli anni ’80, ne hanno segnato la pesante battuta d’arresto, continua a prosperare grazie all’escamotage degli inserti in pelliccia: guarnizioni e risvolti in pelliccia animale che ornano e ‘abbelliscono’ non solo le ormai classiche giacche con il cappuccio ma anche capi e accessori insospettabili, come scarpe da jogging, abbigliamento intimo, giocattoli per bambini e persino i caschi per le moto. In seguito alla condanna etica da parte dell’opinione pubblica della 'pelliccia' intesa come cappotto interamente rivestito in pelo animale, il mercato - per evitare di entrare in una crisi irreversibile - ha escogitato un modo a dir poco subdolo per riproporre lo stesso prodotto, frutto di quella sofferenza e di quell’orrore che la gente ormai non voleva più vedersi addosso, sotto forma di rifiniture. Psicologicamente l’impatto sul consumatore è molto diverso: un conto è comprare una 'pelliccia', altro è comprare un capo di abbigliamento, dove, sembrerebbe quasi per caso, è stato cucito sopra un bordino, un risvolto, un taschino, un pon pon in pelliccia; una semplice e innocente rifinitura, si è portati a pensare. Così piccola, che non può essere così grave. Così insignificante, su un giaccone così economico, che non può comunque trattarsi di pelliccia vera. Ora persino bambini piccolissimi indossano giacche con un cappuccio dal folto bordo in pelliccia animale, spesso più grande di loro. Un accostamento che onestamente fa venire i brividi. Se la mettono su un vestitino per bambini, non potrà essere vera, penserà il genitore quando la compra... Spesso viene anche colorata, la pelliccia vera. L’obiettivo è sempre quello: allontanare dalla mente, dalla vista, dal cuore delle persone l’immagine dell’animale vero, e vivo, proponendogli la pelliccia in qualunque forma, il più camuffata possibile, che sembri anche finta... purché la comprino! A causa dell’attuale assenza di obbligo di etichettatura (richiesta solo per il materiale principale del capo, non per le finiture) le case produttrici possono scegliere di fare come meglio credono, e spesso evitano di indicare l’origine animale della pelliccia, consapevoli che presso l’opinione pubblica esiste una sensibilità per le condizioni degli animali sacrificati e allevati a questo scopo. Di fatto dunque ciò che tristemente avviene ogni inverno è esattamente ciò che i pellicciai e gli allevatori avevano pianificato e sperato: non essendoci quasi più richiesta di pellicce intere si vendono ‘pezzetti’ di pelliccia, più piccoli, certamente, ma in compenso su un numero di capi di abbigliamento spaventosamente più grande. Bambini, giovani, adulti, anziani, tutti acquistano questi capi con guarnizioni in pelliccia e contribuiscono, più o meno inconsapevolmente, a foraggiare questo mercato di sangue. L'85% della produzione mondiale deriva da specie allevate appositamente; sono visoni, volpi, lontre, procioni, castori, conigli, ermellini, zibellini, anche cani e gatti. Nel mondo 50 milioni di animali (molti di più se si conteggiano anche i conigli) vengono fatti nascere, allevati e uccisi per diventare 'pellicce'. In Italia, dal 2004, con la Legge n.189 (art. 2), è vietato “utilizzare cani e gatti per la produzione o il confezionamento di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e articoli di pelletteria costituiti od ottenuti, in tutto o in parte, dalle pelli o dalle pellicce dei medesimi, nonché commercializzare o introdurre le stesse nel territorio nazionale”. A seguito dell’approvazione del Regolamento comunitario 1523/2007 che a sua volta vieta “la commercializzazione, l’importazione nella Comunità e l’esportazione fuori della Comunità di pellicce di cane e di gatto e di prodotti che le contengono” nel marzo 2010 il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto Legislativo che introduce un nuovo sistema sanzionatorio nel contrasto al commercio di pellicce di cani e gatti (arresto da tre mesi ad un anno o ammenda da 5.000 a 100.000 euro,oltre alla confisca e distruzione del materiale a proprie spese). Il provvedimento rimane tuttavia incompleto fintanto che non verrà varato un sistema chiaro e obbligatorio di etichettatura di tutti i capi contenenti parti in pelliccia. Solo così sarà possibile infatti un controllo reale sul mercato illegale, risultando impossibile riconoscere, anche per un occhio esperto, una pelliccia di cane da una di volpe o altro animale. Tuttavia l’etichetta che indica l’animale utilizzato, il Paese di provenienza, l’allevamento e il metodo di uccisione sarà fondamentale per individuare non solo le pellicce di cane e gatto ma per distinguere finalmente e senza dubbio alcuno le pellicce vere, prodotto di morte, da quelle ecologiche e cruelty free. Perché evidentemente cane, gatto, volpe o procione che sia, non vi è alcuna differenza. La sofferenza che patiscono questi animali nella loro sfortunatissima esistenza, la morte atroce cui vanno incontro - spesso scuoiati vivi, fulminati per elettrocuzione anale o gassati - è un prezzo davvero troppo alto. Non sapendo come regolarsi spesso ci si affida alle indicazioni dei negozianti i quali o per loro stessa ignoranza o per assecondare il cliente garantiscono l’origine sintetica della pelliccia. È consigliabile invece, raccomandano le associazioni animaliste e ambientaliste, controllare sempre bene l’etichetta. Nel caso in cui non sia riportato il nome dell’animale, per sapere se la pelliccia è vera basta controllare alla base del pelo: se c’è una retina di stoffa si tratta di pelliccia ecologica, se c’è la pelle invece evidentemente è vera. A volte si trova indicato: “La pelliccia di questo capo proviene da allevamenti autorizzati e certificati, e gli animali non appartengono alla lista delle specie protette stabilita dalla convenzione di Washington”. Questa dicitura ci aiuta solo per un aspetto: ci comunica che si tratta di pelliccia vera, quindi da evitare, almeno per chi lo ritiene opportuno. Per il resto non aggiunge altro, limitandosi a dire che l’animale proviene da allevamenti legali, ma questo non è minimamente rassicurante in quanto i terribili metodi di allevamento e di soppressione degli animali sono purtroppo perfettamente legali e autorizzati. In secondo luogo afferma che l’animale non appartiene ad alcuna specie protetta, ma è comunque un animale che ha sofferto ed è morto per diventare pelliccia. Anche per dare una risposta al vuoto legislativo in materia di etichettatura e al disorientamento dei consumatori è nato in Svizzera 'Fur Free Fox'. “Qui non si vendono pellicce di animali” questo è lo slogan che recita la neonata forma di etichettatura di cui si potranno fregiare negozi, boutique e marche di abbigliamento che rinunciano all'impiego di pellicce. Sostenuta in tutto il mondo da 35 organizzazioni, essa è stata presentata nei giorni scorsi a Zurigo dalla Protezione svizzera degli animali (PSA). Il presidente della PSA, Heinz Lienhard, ha affermato che, oltre ad essere un aiuto per i consumatori, questo sistema di etichettatura si propone anche di lodare le aziende esemplari e puntare il dito contro i venditori 'incorreggibili' di pellicce. In Italia, sotto la pressione di una campagna animalista (a.i.p.), sempre più catene di negozi hanno adottato una politica fur free. Dopo la prima, Zara, hanno seguito l'esempio Upim, Coin, Oviesse, Guess, Stefanel, Carrefour, Sixty, Diesel, Bennet, Auchan, Escada. È amaro constatare come l’adesione a questa linea ‘animal friendly’ non sia stata per nulla spontanea, bensì frutto di un ricatto: per porre fine al danno di immagine messo in atto dalla campagna animalista - che, legalmente, presidiava per mesi le catene commerciali incriminate esponendo davanti alle loro vetrine cartelli, video e immagini degli animali da pelliccia scuoiati e massacrati - l’azienda di turno presa di mira ha deciso di sottoscrivere l’impegno a non commercializzare più pellicce vere. Qualche anno fa alla top model Naomi Campbell fu negato l’accesso in un club di New York perché indossava una pelliccia. Il proprietario del club disse “Amo molto gli animali, e vogliamo essere dei bravi ragazzi”. Un’altra VIP, Pamela Anderson, di tutt’altre convinzioni, acerrima nemica delle pellicce e di ogni altro prodotto derivato dallo sfruttamento animale, nonché attivista e testimonial della Peta, ha lanciato il suo messaggio con un video. Fonti: Oipa Italia, Lav, Peta

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