Lampedusa: ancora sbarchi e rimpatri, Cie blindati

Spenti i riflettori su Lampedusa, cala il velo sull’immigrazione via mare dalle coste nord-africane. Gli sbarchi sulle coste italiane non sono cessati da agosto e mentre i rimpatri procedono nel silenzio dei media, della preoccupante situazione del sistema di accoglienza italiano si parla ancora meno.

Lampedusa: ancora sbarchi e rimpatri, Cie blindati
Gli incidenti e le sortite di ribellione nei centri di accoglienza non si sono mai arrestati. Neanche gli sbarchi, per quanto fortemente ridotti dallo scorso 16 agosto, sono cessati del tutto. Qualche giorno fa a Lampedusa si è consumato l’ultimo atto di vandalismo ai danni del Cie (Centro di identificazione ed espulsione), dove il furgone (che non è il primo) intestato alla società che gestisce la struttura è stato incendiato per mano ancora ignota. E restando in zona, la notte dell’11 novembre, a circa 50 miglia a Sud dell'isola di Lampedusa, in acque di competenza maltese, una nave della Marina Militare Italiana soccorreva un gommone in avaria con 44 profughi a bordo. Gli immigrati tuttavia, partiti dalla Libia, non sono stati portati a Lampedusa dichiarata a settembre 'porto non sicuro'. Eccetto una donna che ha partorito sul gommone e la sua bimba, trasportate immediatamente in elicottero nell'ospedale di Agrigento, gli altri migranti sono stati destinati al villaggio della solidarietà di Mineo, nel catanese, un Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo, ndr) sede di circa 2000 persone e che a sua volta lascia trapelare diversi problemi. Bisogna dire che la nave militare italiana, secondo le norme di diritto internazionale, avrebbe dovuto dirigersi verso La Valletta, ma le autorità maltesi, oltre che inadempienti nel soccorso, rivendicando il diritto di dirigere le operazioni, hanno opposto il loro veto adducendo svariate motivazioni per non accogliere i profughi, e costretto l'unità militare a fare rotta verso il porto di Augusta (Siracusa). La ripresa degli approdi sulle nostre coste di carrette dall’Africa settentrionale non appare episodica se si considera che a poche ore di distanza da quanto accadeva nell’isola siciliana, un’imbarcazione con 14 tunisini era soccorsa a poche miglia da Capo Teulada in Sardegna, mentre un barcone con 37 tra afgani, curdi, pakistani e turchi e con due scafisti a bordo veniva bloccato da una motovedetta della Guardia di Finanza sulle coste salentine. I rimpatri del resto procedono. Nelle ultime due settimane, il Ministero degli Interni - riferisce in una nota sul suo sito - ha rimpatriato 90 extracomunitari clandestini al 12 novembre e 85 alla data del 5 novembre. Sono tunisini, marocchini e nigeriani, rintracciati sul territorio nazionale. L’ambito che meno traspare dell’emergenza umanitaria è però quello del sistema dei centri di accoglienza anche perché la detenzione amministrativa è stata prolungata a 18 mesi. I Cie sembrano implodere in un contesto ovattato all’orecchio dell’opinione pubblica. Tornando alla struttura definita più volte d’eccellenza, quale il villaggio della solidarietà di Mineo, è dello scorso 9 novembre l’ultima protesta espressa da un centinaio di richiedenti asilo. Hanno invaso la strada statale 417, Catania-Gela, bloccandola con un rogo improvvisato con dei copertoni incendiati. Protestavano contro i ritardi nel rilascio dei permessi di soggiorno. Dal Cara di Mineo trapelano fattori di malessere sia per gli ospiti del centro che per i residenti della zona. I primi hanno più volte lamentato lo stato d’isolamento in cui vivono (attorno c’è solo campagna) protestando sì contro la qualità del cibo che gli viene somministrato, ma soprattutto contro l’estrema lentezza burocratica. Gli agricoltori della zona, d’altro canto, segnalano continue invasioni dei loro campi da parte dei migranti del Cara, ruberie dei frutti ancora acerbi e altri danni ai terreni, provocando così il deprezzamento dei loro prodotti agricoli. Ma sbarramenti, fili spinati, negazione dei diritti di difesa e tentativi di fuga con conseguenti scontri e sanzioni penali, emergono un po’ in tutta Italia, senza distinzioni tra nord e sud. Ne è esempio il caso di Bologna, nel cui Centro d’identificazione ed espulsione di Via Mattei, alla periferia della città, a fine ottobre un gruppo di 15 persone ha provato a fuggire sfasciando la cancellata che separa gli alloggi dai campi di calcio. Durante il tentativo di fuga e lo scontro tra immigrati e forze dell'ordine, sono rimasti feriti due poliziotti e un militare dell'esercito e contusi anche i tre nord africani arrestati che sono stati giudicati guaribili tra i cinque e i dieci giorni. Uno degli immigrati, un tunisino di 26 anni, è riuscito a fuggire della struttura salendo sul muro di recinzione e saltando a terra da un'altezza di cinque metri. Che dopo la scossa politica nel Nord-Africa sia essenziale “la costruzione di una politica migratoria europea con una strategia complessiva che, oltre ad accompagnare il percorso dei Paesi interessati, ponga al centro dell’azione la lotta all’immigrazione irregolare e il sostegno alla migrazione legale”, lo vanno asserendo tecnici e politologi in svariati seminari e consessi tenuti negli ultimi mesi sul tema. Della preoccupante situazione del sistema di accoglienza italiano si parla invece molto meno. Per la creazione di nuovi Cie nel 2012 sono previsti 113 milioni di euro, ma nessuno sembra soddisfatto di queste strutture, siano essi gli ospiti, i residenti delle zone interessate o gli operatori partner del Ministero dell’Interno. Il problema principale risiede nell’accessibilità di questi centri di accoglienza, oggi riservata solo a medici, avvocati, mediatori linguistici e pochi altri professionisti. L’accesso è assolutamente negato alla stampa e alle telecamere dallo scorso aprile per effetto di una circolare del Ministero dell’Interno, una sorta di legge speciale voluta di fronte all’emergenza profughi e non ancora revocata. E pare che il diniego valga anche per gli operatori umanitari, da quanto si legge sul sito ufficiale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che insieme all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e Save the Children, opera dal 2006 come partner nell’ambito del progetto Praesidium finanziato dal Ministero dell’Interno. Tutte e tre le organizzazioni lamentano di non avere potuto incontrare 150 migranti sbarcati a Bari il 25 ottobre u.s.,dopo essere stati intercettati a largo delle coste pugliesi. “Di questi infatti, 71 sono stati rimpatriati senza alcun contatto con le organizzazioni partner - si legge nella nota - le quali avevano richiesto di poter incontrare i migranti a conclusione delle attività ispettive e d’identificazione, prima che fossero adottati provvedimenti sul loro status giuridico ed eventuali misure di allontanamento dal territorio italiano. Tale richiesta era finalizzata all’individuazione di soggetti particolarmente vulnerabili, come minori erroneamente riconosciuti maggiorenni o richiedenti protezione internazionale”. La denuncia di questa interdizione a voce dell’UNHCR – che rivendica la trasparenza del proprio operato negli ultimi cinque anni - si riferisce a un caso non isolato dell’ultimo anno, durante il quale alle organizzazioni del progetto Praesidium sarebbe stato “sistematicamente negato l’accesso ai migranti provenienti dall’Egitto che sbarcano in Puglia, Calabria e Sicilia. In tali casi il divieto è stato motivato con esigenze legate alle indagini e alle procedure d’identificazione. Di fatto però, l’accesso non è mai stato consentito neanche a conclusione delle suddette attività. Tali esigenze non sono invece mai state sollevate a Lampedusa dove, nel corso dell’anno, sono stati registrati oltre 50.000 arrivi”.

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