Le misure anti-crisi delle aziende? Flessibilità e precarizzazione del lavoro

Flessibilizzare e liberalizzare ulteriormente il mercato del lavoro sono operazioni prioritarie per le imprese italiane e anche molte delle rappresentanze sindacali sembrano adeguarsi diligentemente a queste imposizioni. Una strategia che non può non tener conto, però, della gravità degli ultimi dati statistici sull'occupazione.

Le misure anti-crisi delle aziende? Flessibilità e precarizzazione del lavoro
La parola d’ordine che in questi giorni è tornata alla ribalta all'interno del dibattito sul lavoro è 'flessibilità'. Nulla di strano che l’imprenditoria italiana invochi questa caratteristica nel rapporto con i salariati; la cosa che però può spiazzare è che anche la parte sindacale si sta uniformando alle esigenze dei datori di lavoro. Il tutto in uno scenario che, specialmente in determinati ambiti, comincia a lanciare segnali decisamente preoccupanti. Ma andiamo con ordine. “Meno precarietà e più flessibilità” è la ricetta che, attraverso il numero uno della sezione bolognese, propone Unindustria. L’obiettivo di fondo, certamente condivisibile, è quello di ridurre la conflittualità in ambito lavorativo fra lavoratori e datori di lavoro instaurando “un dialogo franco, sgombrando il campo da ostacoli che possano compromettere il clima di fiducia e serenità con il quale tutti vogliamo lavorare”. Sin qui niente da dire. Le prime perplessità vengono evidenziate dal pieno appoggio che viene assicurato – in effetti, non potrebbe essere altrimenti – alla politica economica preannunciata dal Governo Monti, che in realtà ricorda molto da vicino i 'calorosi suggerimenti' che il duo Trichet-Draghi aveva dispensato all’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi e al Governo tutto nel mese di agosto, attraverso quella lettera informale che fissava gli obiettivi economici e di produttività che l’Italia era ed è tutt’ora tenuta a centrare, anche attraverso una politica occupazionale che prevede una riformulazione dei contratti collettivi in modo da favorire il ricambio frequente e liberalizzare il mercato del lavoro, aumentando la flessibilità contrattuale. È il 'segreto di Pulcinella' che uno degli incarichi del neo Primo Ministro e del suo entourage è proprio quello di intraprendere queste iniziative di politica economica, che il vecchio Governo era restio ad attuare. Una nuova linea in tema di occupazione improntata alla flessibilità, per molti versi equiparabile alla precarietà vera e propria, potrebbe forse migliorare gli indici che da dopo l’estate hanno segnato cifre senza precedenti - 8,3% della popolazione senza lavoro, con un tasso di disoccupazione giovanile che ha raggiunto il 29,3%, secondo l’Istat –, ma non migliorerebbe certamente la condizione dei lavoratori dal punto di vista socio-economico. Essi rimarrebbero infatti sì formalmente occupati, ma appesi al filo di fragili contratti di collaborazione capaci di garantire introiti modesti per pochi mesi e nessuna tutela, il tutto a fronte di un costo della vita che, sempre secondo l’Istat, a ottobre è aumentato del 3,2% rispetto allo stesso mese del 2010. Se da Unindustria era scontato aspettarsi una chiamata in causa della flessibilità, possono far aggrottare le sopracciglia le dichiarazioni del segretario della CISL bolognese che, pur commentando preoccupato i dati sulla disoccupazione provinciale – aumento del 69% negli ultimi cinque anni della disoccupazione giovanile e sostanziale dimezzamento, dal 27% al 15%, dei contratti a tempo indeterminato –, auspica la creazione di un “Patto del lavoro in salsa bolognese per la stabilizzazione del lavoro precario”, per venire incontro alle imprese sul terreno della flessibilità. Sembra quindi che anche le sigle sindacali – che per la verità già da tempo sembrano essersi allineate, per non dire prostrate, rispetto alle esigenze di chi siede dall’altra parte del tavolo – si stiano convincendo che precarizzare i contratti e, in generale, la situazione economica dei lavoratori italiani, sia l’unico modo per uscire da questa crisi. Nel settore metalmeccanico si stanno poi cominciando ad avvertire gli effetti della detonazione della bomba del “Contratto Marchionne”: da gennaio 2012 infatti la Fiat, uscendo dai sindacati imprenditoriali Confindustria e Federmeccanica, si sottrarrà all’obbligo di rispettare gli accordi presi da queste sigle. Tutti i patti stretti con i sindacati verranno quindi meno, in previsione di una futura rinegoziazione in senso migliorativo, rispetto alla quale però nessuno, tanto meno lo stesso Marchionne, è ancora entrato nel merito. Partita dallo stabilimento di Pomigliano, questa presa di posizione si è allargata prima al Lingotto e poi a tutte le aziende principali del Gruppo Fiat, come la Magneti Marelli, sempre di Bologna; solo nel capoluogo emiliano saranno quasi mille i lavoratori interessati dal provvedimento. Da questa breve disamina appare quindi sempre più chiara la posizione della classe politico-imprenditoriale: precarizzare ulteriormente il lavoro attraverso lo strumento della flessibilità è un modo per perdere la zavorra rappresentata dalla fiscalità, necessaria per garantire ai lavoratori un trattamento equo. Peccato che questo sia un gioco a somma zero e al guadagno dell’uno corrisponda necessariamente la perdita dell’altro. Se consideriamo poi che si tratta di una serie di azioni inserite in un disegno di più ampio respiro, teso a salvare un sistema economico marcio nelle sue fondamenta, questa strategia si mostra senza veli nella sua vera natura: fallimentare e deleteria per il benessere del nostro paese e della sua popolazione.

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