La primavera araba un anno dopo Bouazizi: siamo all'autunno?

Un anno fa il giovane tunisino Mohammed Bouazizi si uccideva dandosi fuoco per protestare contro l'ingiustizia delle istituzioni. Partiva allora la cosiddetta "Primavera araba", che avrebbe sconvolto il medio-oriente e l'Africa e causato la caduta di diversi regimi. Ad un anno di distanza il vuoto di potere lasciato dalla rivoluzione rischia di essere occupato da poteri tutt'altro che democratici.

La primavera araba un anno dopo Bouazizi: siamo all'autunno?
Un anno fa il gesto estremo di un giovane tunisino dava inizio ad una serie di rivolte che in breve si sarebbero estese a molti paesi limitrofi. Nasceva così quella che i media di tutto il mondo avrebbero di lì a poco iniziato a chiamare la “Primavera araba”. Il giovane si chiamava Mohammed Bouazizi, e aveva deciso di darsi fuoco. Il motivo era da ricercarsi nei soprusi e nell'indifferenza dell'autorità e delle istituzioni. Lui, 26 anni e un'intera famiglia a carico, era stato picchiato dalla polizia e si era visto confiscare il carretto con cui vendeva la frutta senza licenza. Aveva protestato davanti alle sedi del governo, ma invano. Allora, disoccupato e privo ormai di ogni speranza, si era dato fuoco. Ricoverato in ospedale, era morto dopo tre settimane di atroce agonia a causa delle ustioni riportate. Il video del povero Mohammed aveva fatto il giro della rete scatenando pena e indignazione; le proteste erano in breve esplose in Tunisia, e poi in Egitto, Libia, Siria. Il mondo intero si fece affascinare allora da questa rivolta popolare che come un'onda sembrava propagarsi di paese in paese, in un unico anelito di libertà. Molti regimi, ritenuti incrollabili, non ressero il colpo e caddero. Si spesero parole incensanti sulla rinascita dei paesi arabi, sulla forza della democrazia dal basso, sui nuovi strumenti di comunicazione diffusa e atomizzata, come i social network o i blog che tanto avevano contribuito al contagio rivoluzionario. Adesso, ad un anno di distanza, ad emergere sono soprattutto le contraddizioni. La primavera araba è ormai finita ma, come nota il sociologo Zymunt Bauman, “non abbiamo ancora visto l’estate”. Quella smania rivoluzionaria che ha messo a soqquadro il medio-oriente, a cui si ispirano movimenti occidentali come gli indignados e Occupy Wall Street, ha avuto un effetto distruttore, ha spazzato via molti elementi sociali retrogradi, ma cosa ha costruito? Le forze “che sono state in grado di abbattere il nemico (Mubarak, Gheddafi, Ben Ali) – si chiede ancora Bauman - saranno altrettanto brave a costruire quel nuovo edificio di cui c’è di bisogno?” Elias Canetti, grande scrittore bulgaro, definiva la folla come un mare, in cui è inebriante perdersi. Volendo estendere la metafora potremmo osservare che il mare riesce facilmente, con una sola onda, a sciogliere un castello di sabbia. Ma è in grado di costruirne uno nuovo? Alla stessa maniera, l'ondata rivoluzionaria ha acceso una smania, una brama di diritti e di libertà che però la folla, istintiva e disorganizzata, non è stata in grado di trasformare in istanze di cambiamento reale. Le primavere arabe hanno lasciato dei vuoti, ma non hanno gli strumenti per creare qualcosa di nuovo e migliore con cui riempirli. E il vuoto, si sa, è pericoloso. Perché del vuoto approfittano quei poteri che – pur senza la spinta emotiva e la freschezza dei movimenti popolari – hanno meccanismi già ben rodati e attitudini predeterminate al comando. Chi, in altre parole, ha già una soluzione pronta, e cavalca i movimenti delle masse attendendo il momento giusto per intervenire. È successo così in Libia, dove la Nato ha atteso il momento propizio per “dare una mano ai ribelli”, per poi spartirsi le enormi risorse del paese, prima di proprietà dello stato ed ora in mano alle multinazionali di mezzo mondo. Sta accadendo lo stesso anche in Egitto, dove è in corso un vero e proprio scontro fra poteri: quello colonialista occidentale, con gli Stati Uniti che appoggiano formalmente le proteste dei cittadini in piazza Tahrir ma poi strizzano l'occhio all'esercito che li reprime e li uccide a centinaia; e quello islamico, che cerca di approfittare delle proteste per serrare le proprie fila. In Siria sono ormai evidenti le mire di Israele e Stati Uniti, che non mancano di stuzzicare persino l'Iran. Insomma, a giudicare dalla situazione attuale, la primavera araba non è stata che la miccia, inconsapevole o in parte pilotata, di un esplosivo più potente; ha avuto come effetto principale quello di inasprire i rapporti fra le varie potenze mondiali che ambiscono al controllo del medio oriente e ha gettato legna nel fuoco colonialista degli Stati Uniti - e dell'Occidente in genere - che non si sono fatti scrupoli nel cavalcare l'ondata rivoluzionaria con scopi tutt'altro che democratici. Certo indignarsi resta importante, così come lottare e ribellarsi a ciò che si ritiene ingiusto. Ma è dopo, nella parte costruttiva, che si gioca la partita fondamentale. E i cittadini, non solo arabi ma di tutto il mondo, dovranno acquisire gli strumenti necessari alla costruzione, prima di distruggere, se vogliamo sperare in un processo di cambiamento reale e nell'instaurarsi di un modello sociale diverso, migliore e duraturo.

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