Rifugiati ambientali: vittime del clima globale, ma senza tutela

Coniata per la prima volta nel 1970 dall’ambientalista americano e fondatore del WorldWatch Institute, Lester Brown, la definizione di rifugiati ambientali, a quarant’anni di distanza individua i protagonisti di un fenomeno contemporaneo di migrazione intercontinentale di massa, disconosciuta dalla legislazione.

Rifugiati ambientali: vittime del clima globale, ma senza tutela
Guerre, rivolte e persecuzioni politiche non sono le sole cause della migrazione internazionale contemporanea. Tra le motivazioni che inducono larghe masse ad abbandonare il proprio paese entrano sempre più spesso in gioco le degenerazioni e le emergenze di carattere ambientale. Succede nei paesi dell’Africa Sub-sahariana, dove ampi strati della popolazione sono spinti a emigrare dalle difficilissime condizioni in cui i fattori climatici hanno stretto la loro vita: tsunami e terremoti, ma anche alluvioni e non ultimo il fenomeno della desertificazione. Africa Sub-sahariana, Asia, America Centrale e tutte le regioni interessate da processi e cambiamenti climatici suscettibili di inasprire la sopravvivenza renderanno il fenomeno – secondo studiosi quali Norman Myers – sempre più di portata globale, e già dal 2005, del resto, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP - United Nations Environment Programme) è stato preposto alle rilevazioni e allo studio specifico di un esodo ascrivibile all’epoca che viviamo. Alcuni risultati dell’UNEP sono evidenziati nel dossier Profughi ambientali: Cambiamento climatico e migrazioni forzate, pubblicato da Legambiente in questo mese di maggio. Stando all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e allo IOM, la percentuale dei cosiddetti 'rifugiati climatici' è assolutamente in salita. I venti milioni del 2008 raggiungeranno entro il 2050 i 200/250 milioni di persone coinvolte, che vorrebbe dire una persona ogni 45 nel mondo. Si rafforza inoltre la cosiddetta femminilizzazione, in altre parole sempre più donne in fuga (rapporto donne-uomini è 3-1), e si conferma la media stimata in 6 milioni di donne e uomini costretti ogni anno a lasciare i propri territori. Nel 2010, sempre guardando al continente africano, gli studi dell’IPCC (Intergovernmental Panel on climate change), l’istituzione delle Nazioni Unite incaricata di monitorare i cambiamenti climatici, sottolineano come la già afflitta Somalia sia stata colpita da una letale ondata di siccità che ha fatto salire al 32% della popolazione il numero di persone affette da malnutrizione, provocando 431.000 rifugiati ambientali che hanno oltrepassato il confine e si sono spostati in Kenya e altri 300.000 rifugiati stanziatisi vicino alla frontiera keniota. Ancora l’Africa, del resto, a gennaio del 2011 ritorna scenario di disastri. Botswana, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Zambia e Sud Africa hanno dovuto far fronte a pesanti piogge e inondazioni causa di più di 20 mila sfollati. Scienziati e accademici oggi concordano nel dire che le alterazioni gravi e relativamente rapide degli ecosistemi indotte da fattori climatici e antropici avranno effetti diretti e indiretti sulle società, la cui sola scelta resterà tra migrare permanentemente o temporaneamente. Ma la perdita dei mezzi di sussistenza per intere comunità rurali e la sempre più grave carenza d’acqua e di cibo costituiscono per l’UNDP (United NationDevelopment Programme), il Programma ONU per lo Sviluppo gli impatti dei cambiamenti climatici, una gravissima minaccia tanto per i paesi che si trovano a dover gestire il problema dei profughi ambientali sul proprio territorio, quanto per la sicurezza mondiale. Soprattutto, i flussi inaspriscono situazioni di privazione e ingiustizia sociale a livello locale e internazionale. La desertificazione, che al momento sembra una delle più gravi emergenze ambientali, minaccia circa un quarto delle terre del pianeta e con esse anche l’esistenza di circa un miliardo di persone che vivono in circa 110 Paesi. Da vero killer per la biodiversità e gli ecosistemi, le migrazioni di popoli verso altri territori che determina, instaurano a loro volta un aumento della conflittualità sociale e il sovrappopolamento nei territori scelti come rifugio. S’innesta così un circolo vizioso di causa-effetto che mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’uomo. I paesi africani, in un continente pesantemente toccato dal fenomeno, si battono da tempo per convincere la comunità internazionale della necessità di incrementare l’attività della Convenzione sulla lotta contro la desertificazione nei paesi gravemente toccati dalla siccità, ritenendo che si può combattere la desertificazione e assicurare uno sviluppo durevole alle aree colpite solo agendo a livello planetario. Per quanto appaia difficile stimare l’area globale delle terre aride colpite da desertificazione, perché essa varia significativamente dal metodo di calcolo e dal tipo di degradazione che si prende in considerazione, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Food and Agriculture Organization of the United Nations – FAO) attesta che circa il 70% delle terre aride coltivabili, pari a circa il 30 % delle terre emerse, è già colpito oppure è a rischio desertificazione. Anche in questo caso, le aree più colpite e vulnerabili sono Africa, Asia, Caraibi e Sud America, ma il fenomeno interessa e interesserà tuttavia sempre più anche Stati Uniti, Europa, Oceania e in particolar modo il bacino del Mediterraneo, Italia compresa. Siccità e desertificazione minacciano la sopravvivenza di 2 miliardi di persone, e sono collegate al degrado del suolo. "Ormai il numero dei profughi ambientali – rileva il dossier di Legambiente - ha superato quello dei profughi di guerra. Ciò nonostante, queste persone non esistono da un punto di vista giuridico, non essendo stati riconosciuti come 'rifugiati' dalla Convenzione di Ginevra del 1951, né dal suo Protocollo supplementare del 1967", nonostante dal 1970 si parli sempre più spesso di rifugiati (o profughi) ambientali. Nel loro caso, esiste un cosiddetto vuoto normativo. Il che significa che coloro che fuggono dagli sconvolgimenti climatici non hanno diritto a essere considerati 'profughi', non hanno un riconoscimento internazionale. La più recente occasione di ottenerlo, sfumò alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima di Copenhagen (dicembre 2009). Le ONG auspicavano l'integrazione della dimensione delle migrazioni climatiche nel nuovo accordo contro il riscaldamento climatico, ma non lo ottennero. È lecito chiedersi quante delle persone giunte da gennaio 2011 sulle nostre coste rientrino nella categoria dei 'profughi ambientali', viste le rilevazioni di grossi numeri di provenienti dall’Africa sub-sahariana, ma senza un riconoscimento giuridico internazionale, sembra impossibile quantificarli e annoverarli propriamente tra quanti nel cui nome, il prossimo 20 giugno, si richiamerà la tutela durante la Giornata Mondiale del rifugiato, indetta nel 2001 dall’ONU.

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