Killer Jeans: la sabbiatura del denim uccide

La Campagna Abiti Puliti ha lanciato un appello ai produttori di jeans e ai governi per fermare la sabbiatura del denim, tecnica che può causare la silicosi, una malattia polmonare mortale e che viene spesso eseguita in piccoli laboratori dell'economia sommersa nei Paesi produttori di jeans. Fra questi ci sono Bangladesh, Egitto, Cina, Turchia, Brasile e Messico: nazioni in cui è prodotta la maggior parte dei jeans venduti in Europa. Nella sola Turchia sono stati documentati 46 casi di decessi di sabbiatori a causa della silicosi. E questa sembra essere solo la punta dell'iceberg.

Killer Jeans: la sabbiatura del denim uccide
La Clean Clothes Campaign (CCC) è nata nel 1989 per migliorare le condizioni delle persone impiegate nel settore tessile e dell’abbigliamento a livello globale. Il suo obiettivo è quello di far rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori attraverso la sensibilizzazione e la mobilitazione dei consumatori, la pressione sulle imprese e i governi. Le sue campagne sono molte. Ultima, solo in ordine di tempo, quella che chiede l’arresto della pratica della sabbiatura dei jeans, un processo abrasivo per lisciare o formare superfici (non solo tessuti, ma anche ceramica ed altri materiali) su cui la sabbia viene sparata ad alta pressione. Una tecnica che invecchia il denim (il tessuto più utilizzato per il confezionamento dei jeans) a danno della salute di chi lo deve trattare. Presente anche in Italia come Campagna Abiti Puliti, la CCC ha recentemente lanciato un appello ai produttori di jeans e ai governi per fermare la sabbiatura del denim. Motivo? "La sabbiatura (sandblasting) può causare una forma acuta di silicosi, malattia polmonare mortale". Questa tecnica per rendere scoloriti o sfumati i nostri pantaloni sta infatti mettendo in grave pericolo la vita di migliaia di lavoratori del settore tessile in molte parti del mondo. È spesso utilizzata nei laboratori dell'economia sommersa di Paesi come il Bangladesh, l'Egitto, la Cina, la Turchia, il Brasile e il Messico, nei quali vengono prodotti i jeans venduti in Europa ed in Nord America. La situazione più allarmante si è riscontrata in Turchia, dove si sono documentati 46 casi di decesso di sabbiatori a causa della silicosi. In Turchia, però, grazie alla crescita di consapevolezza e ad una campagna pubblica iniziata circa dieci anni fa, il Ministero della Salute ha vietato la sabbiatura dei jeans nel marzo 2009. Si stimano tra gli 8.000 e i 10.000 i lavoratori impiegati nei laboratori di sabbiatura negli ultimi dieci anni, la maggior parte dei quali impiegata informalmente e senza contratto. Quelli stranieri e i bambini sono generalmente impiegati illegalmente. Di questi si stima che dai 4.000 ai 5.000 siano affetti da silicosi. La maggior parte di loro purtroppo non è consapevole dei rischi alla salute che corre lavorando in questi laboratori. Risulta però essere molto difficile raggiungere i lavoratori interessati, molti dei quali immigrati da Romania, Moldavia, Azerbaigian e Georgia. Viste le condizioni di illegalità con le quali questi lavoratori sono assunti, nel gennaio 2010 il Ministero della Sanità turco ha approvato una legge “per fornire ad ogni paziente malato di silicosi servizi sanitari a titolo gratuito, indipendentemente dal suo stato di sicurezza sociale”. Un’altra ottima scelta del governo di Ankara. Il problema è che molte altre difficoltà affliggono gli operai della sabbiatura: avendo lavorato sempre in nero, ad esempio, non sono coperti dalla previdenza sociale e non ricevono alcuna pensione. Devono invece promuovere azioni legali per chiedere pensioni di invalidità. La CCC ha però reso noto anche un caso che si è risolto positivamente, e che può rappresentare anche un importante precedente: "alla fine di settembre 2010, Yılmaz Dimbir (32 anni) che aveva sabbiato jeans in una fabbrica del sommerso, e si era ammalato di silicosi, ha vinto una causa come primo lavoratore colpito. Ha ricevuto protezione sociale come se fosse un lavoratore regolare". Nel resto del mondo, invece, la ricerca tra i partner della CCC nei Paesi produttori ha mostrato che la sabbiatura dei jeans (ora giuridicamente vietata in Turchia), viene ancora praticata in Bangladesh, Messico e Cambogia. La ricerca effettuata dalla Ong svedese Fair Trade Center, invece, ha confermato che la sabbiatura ha avuto luogo anche in Cina, Bangladesh e Pakistan, Paesi ai quali il Solidarity Committee of Sandblasting Labourers (Comitato di Solidarietà dei Lavoratori della Sabbiatura in Turchia) aggiunge l’India e l’Indonesia. I risultati ottenuti in Turchia sono perciò ottimi, ma per nulla sufficienti. Serve un’azione su scala globale, perché da quando è stato ottenuto il divieto legale in Turchia (marzo 2009), i produttori di jeans hanno trasferito i loro ordini di sabbiatura dalla Turchia, appunto, verso l’Egitto, la Giordania, la Siria, il Bangladesh e la Cina. La Clean Clothes Campaign, in collaborazione con il Comitato Turco di Solidarietà, per questo motivo “chiede ai produttori di jeans di garantire che la sabbiatura sia eliminata dalla filiera produttiva”. Alcune aziende del settore tessile e della distribuzione hanno già vietato la vendita di jeans sandblasted o, come nel caso di H&M (Hennes & Mauritz) e Lévi-Strauss & Co., annunciato pubblicamente che li elimineranno gradualmente nei prossimi mesi. La CCC invita poi i governi dei Paesi produttori di jeans “a mettere fuori legge la sabbiatura del denim, ad assicurare l’applicazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e a garantire pensioni di invalidità ai sabbiatori che hanno contratto la silicosi”. Anche i consumatori nei Paesi importatori, ovviamente, possono dare un contributo concreto, assicurandosi che i jeans che acquistano non sono stati trattati con questo processo potenzialmente mortale. Un’azione semplice ma molto importante. Il dipartimento di malattie toraciche dello Yedikule Teaching Hospital di Istanbul ha analizzato i casi trattati nel suo istituto dal 2001 al 2009. Su 32 pazienti con alle spalle 12.957 ore di esposizione al silicio è risultato che il 64% ha sviluppato una fibrosi polmonare progressiva, mentre un malato su 5 finiva in ospedale (morendoci) per insufficienza respiratoria entro i primi 6 mesi. Di queste persone solo il 28,1% è stato risarcito. Ma solo due malati sono riusciti a ottenere l’indennizzo prima del decesso. Ora, se vuoi contribuire… Firma l'appello! Le organizzazioni possono aderire inviando una email a deb(at)lillinet.org

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