To feel not to know, per una cultura della relazione con il mondo

La dimensione razionale sta prevaricando la nostra intelligenza. Ma cosa succede quando l'informazione ha la meglio sulla sensazione? Sapere quello che facciamo non è uguale a sentirlo. Si possono sapere molte cose del mondo senza conoscerlo autenticamente. Qualcosa di simile è accaduto al nostro modo di fare esperienza della realtà.

To feel not to know, per una cultura della relazione con il mondo
Non parleremo di nodi, manovre, tecniche o teoria del soccorso. Tratteremo una prospettiva sulla sicurezza stile uovo di Colombo. Nessun consiglio. Nessun esperto. Nessuna verità definitiva. Nessuna tecnica, né Sapere, nessuna scoperta, né nuova idea. Solo una precisazione: capire non basta. Ri-creare è necessario. Quando andersen [1], il primo uomo che si mise due legni sotto i piedi per muoversi meglio nella neve, ad un certo punto incontrò un pendio eccessivo, si cavò i legni e proseguì a piedi. L’idea d’aver rischiato di rompersi un femore non la conobbe mai. Non aveva bisogno di conoscenze tecniche per adattare il suo comportamento allo scopo della sicurezza. Osservando il pendio ne aveva solo 'sentito' l’eccesso. Quel 'sentire' passa attraverso le orecchie della Relazione con l’ambiente, Sé incluso. Non si nutre d’esperienza e di scienza perché è lei, la relazione, che le crea e le nutre. Il modo di comportamento del 'vecchio andersen' non è qualcosa che possiamo imitare, né imparare o studiare, possiamo solo prendere coscienza che è già nostro patrimonio. Quel modo di comportarsi dovrebbe tornare ad essere nostro strumento di vita. Non è neppure proponibile quale alternativa, è una integrazione ai modelli più standard, quelli che prediligono ed eleggono il criterio fornito dalle tecniche, dalle regole, dai decaloghi e dai professori ad unico e assoluto. Burocrati della vita, inetti a vedere l’uomo oltre la norma, capaci di uccidere per rispettarla. Il modo di comportamento del 'vecchio andersen' è un modo di fare che rischia di essere messo in atto ogni volta che avvertiamo di muoverci su un terreno che non necessita di regole e tecniche per essere frequentato. È un tipo di terreno metaforico che soddisfa tanto il contesto fisico quanto quello concettuale. È un tipo di terreno dove la nostra libertà espressiva non avverte ostacoli, cioè dove ci muoviamo in sicurezza, dove ci accorgiamo di muoverci adeguatamente alla nostra misura, dove vediamo lontano, dove siamo in grado di strutturare strategie e di crearne continui aggiornamenti stradafacendo, dove alziamo il rischio di successo. Imparare a camminare è forse una delle cose più difficili nella vita di una persona. Come possiamo esserci riusciti TUTTI da soli? Ogni tentativo che mettiamo in atto nelle fantastiche settimane di quel periodo è pieno di noi ed è totalmente orientato ed in grado di raccogliere frammenti d’informazione che ogni autonomo tentativo, che ogni esperienza, ci mette sul piatto d’argento della relazione. Con l’età (fine dell’infanzia) [2] la dimensione razionale trova spazio per svilupparsi in noi. Ma è solo con la cultura, la nostra cultura, che quello spazio razionale prevaricherà la condizione psicomotoria. Quella che ci assisteva per abbandonare i 'gattoni', quella che ci fa saltare sulla sedia quando l’emozione non è trattenuta, quando segna la tua squadra, quando il thriller ci prende, quando ridiamo di soddisfazione. Perché allora richiamare all’attenzione quel terreno che non necessita di regole, consigli e saperi? Perché quando per quel terreno riteniamo sia necessario sapere le tecniche, le regole o avere l’equipaggiamento specifico, 'automaticamente' la potenzialità creativa subisce una spinta verso la sua mortificazione. Il degrado della creatività è qualcosa di umano, d’ineludibile, di periodico, è un aspetto tipico della nostra condizione. Ma è anche allenabile nonostante l’attuale cultura sbilanciatamente tecnicistica non aiuti, anzi, è come se tendesse ad obnubilare certe potenzialità della nostra intelligenza, dell’intelligenza animale. Una rappresentazione della cultura nella quale siamo immersi ci è offerta dalla constatazione che, per la maggioranza delle persone Sentire e Capire sono sinonimi. Per molti di noi, concentrarsi significa pensare intensamente a qualche cosa. Spesso non siamo in grado di muoverci se non dopo valutazioni esclusivamente razionalistiche. È tipico il foglietto con le due colonne, dei pro e dei contro. Pro e contro sarebbero apprezzati se non fossero l’unico – ed inconsapevole – criterio di sfondo, fideisticamente impiegato ed indiscusso. Non è idoneo alla saggezza perché è uno sfondo che mortifica la dimensione umana più intima ed autentica di noi stessi. Fino al punto di negare quanto sentiamo, quindi di non coniugare il nostro sentimento con le nostre intenzioni; il criterio non può perciò soppesare e consapevolmente il sentimento in occasione della scelta del momento, bensì prevaricarla. Da qui deriva forse il singhiozzo (contraddizione tra respirazione/sentimento e intenzione volontaria/violentaria); le contratture muscolari, quelle cervicali, dorsali e lombari, più frequentemente; gli urti accidentali contro oggetti da sempre (stipiti, tavoli, ecc). Tutto ciò non ci accade soltanto in circostanze alpinistiche, ci accade vitanaturaldurante. Quante volte ci è capitato, sciando, di fare una curva cercando di ricordare o di seguire le indicazioni del Maestro o della Guida senza perciò essere in grado di farci guidare dalle sensazioni emotivo-corporee che continuativamente ci arrivano e che continuativamente castriamo? Senza perciò essere in grado di sfruttarne le informazioni. Senza predisposizione per osservare il terreno ed anche da esso raccogliere fondamentali informazioni per aggiornare, adattare, rendere efficiente ed economico il comportamento, la prassi, l’efficacia. Senza attitudine ad osservare il nostro, o altrui, movimento per poter esplorarne nuove combinazioni. Rimaniamo invece concentrati nel tentativo di realizzare una buona esecuzione sforzandoci ad eseguire le indicazioni analitico-inuman-tecniche raccolte. Una concentrazione tale, che riesce anche a contrastare la forza muscolare che siamo in grado di sviluppare. A sera siamo stravolti. Il cieco e bieco rispetto della regola, l’assunzione a valore assoluto e sovrumano della codifica teorica – per quanto – mossa con le migliori intenzioni, le regole appunto, può essere fonte di alienazione profonda e difficilmente identificabile. Come nella produzione industriale l’operaio 'pativa' l’alienazione dal suo stesso operare. La causa era la ripetitività priva di sbocco ultimo, di scopo e soddisfazione del fine raggiunto: il pezzo finito. Senza più legame autentico con il processo del prodotto, come è invece caratteristica della produzione artigianale –, limitarsi al rispetto della norma senza esserne emancipati, comporta il rischio di disumanizzare l’uomo, il suo pensiero e le sue azioni. Senza l’opportunità, offerta dal modo della relazione, di divenire i ri-creatori stessi della regola, senza perciò avere avuto modo di ri-percorrere il processo e la storia che l’ha generata, si tende a comprimere spinte umanitarie e vitali. Una compressione che offre un punto di vista per osservare i comportamenti più antisociali, tanto più efferati quanto più 'palesemente' dimostratori di alienazione dal contesto nel quale si verificano. Pensiamo ai ragazzi benestanti, educati e rispettosi che uccidono i loro coetanei a colpi di fucile. Pensiamo alle loro dichiarazioni e annunci, quanto mai estranei alla cultura razionalista che li ha generati. Ma basterebbe citare l’assassinio delle tradizioni in nome della scienza, del futuro, della tecnologia, della globalizzazione, di cose più importanti. Peccato che dal grembo della tradizione siano nate tutte le nostre identità. Peccato che ora ci manchi il nord, il punto di riferimento, il posto ove voler tornare. Ma anche altrove la questione non cambia. Ai fornelli, in cucina, alcune persone non sono in grado di preparare un buon piatto mettendoci la propria creatività. Accade che rinuncino del tutto o si affidino al libro di ricette, che seguono pedestremente. “Ma come?” – dicono. “È ancora cruda!”. “Eppure l’ho fatta cuocere come scritto nella confezione”. L’informazione prevarica la sensazione. Altre persone non hanno mai seguito un ricettario, aprono il frigo o passano dal negozio di alimentari, comprano o raccolgono qualche elemento, arrivano in cucina, li combinano, seguono la cottura, la densità, il colore, il tipo di tegame, il livello del fuoco, osservano e si relazionano empaticamente a tutto. Il rischio che venga fuori una pietanza gradevole e che quella pietanza venga sempre leggermente diversa, ma “sempre” buona, è alto. Come può succedere invece che capiti sia insipida, poco gradevole, scotta, bruciata? Forse una distrazione, una preoccupazione che ci allontana dalla relazione con ciò che stiamo facendo è spesso lo sfondo di un errore, di un incidente. I due emblematici cuochi sono le rappresentazioni della presenza o dell’assenza del modo della relazione. I due cuochi siamo noi, l’importante è esserne consapevoli. Il modo della relazione non alza solo il rischio di fare ottimi piatti. Mette in moto un’altra realtà, ovunque si guardi, in qualunque ambiente si stia operando. Attraverso il modo della relazione si può compiere un passo di avvicinamento verso l’esistere attraverso il corpo. Il corpo come sede di noi stessi e – giocoforza – della cultura estetica (dei sensi), nonché della realtà dell’empatia, sono le parti che potremmo scoprire di aver dimenticato, che potremmo decidere di recuperare, che il modo della relazione viene a mostrarci. Aspetti che sono stati prevaricati (con tutta la legittimità del caso e della storia: evidentemente le esigenze erano altre) dalla dimensione razionale. Una prevaricazione di tale portata che oggi è credo comune, è sentirsi esistere prioritariamente nella ragione. Una concezione della vita, del mondo e di noi stessi che prediligeva l’idea pensata, ma sorda al valore, al senso e al significato dell’emozione vissuta. È da qui che sorge l’inconsapevole arroganza che l’esperienza sia trasmissibile. È da qui che nasce la 'maestria di fondovalle' [3]. Continua... Note 1. Secondo certa tradizione e luoghi comuni, nell’immaginario collettivo di molti di noi i primi uomini ad usare gli sci furono i nordici della penisola scandinava. 'andersen' è scritto minuscolo perché si riferisce ad un ipotetico primo generico sciatore. 2. Tra i 6 e i 10 anni. Prima per le femmine, poi per i maschi. 3. Personale modo di dire per riferirsi al comune criterio di affaccendarsi fino a sbraitare per comunicare, spiegare e insegnare come fare per risolvere un passaggio. Modo di fare che presuppone la trasmissibilità dell’esperienza, uno dei nodi che il modo della relazione è in grado di sciogliere. L' articolo è la prima di tre puntate sulla cultura della relazione, una riflessione avvenuta all'interno dell'associazione Victory Project

Commenti

COMPLIMENTI Lorenzo .. bravissimo ... mi ritrovo in molto di quanto scritto ... il ahimè abbiamo perso cognizione del "sentire".... attendo il seguito ancora complimenti ;o) bye
Dario, 21-02-2011 04:21

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