Antichi per il futuro. In Umbria cibo di ieri e di domani

Il primo legume, il primo cereale, le prime stoviglie. Fra Ficulle, Castelluccio e Monteleone un percorso per i cinque sensi fra settori produttivi dell’agricoltura e dell’artigianato che, densi di tradizione, ci guidano a una semplicità salutare, dando una mano ai produttori.

Antichi per il futuro. In Umbria cibo di ieri e di domani
Dall’umidiera versiamo la calda zuppa di lenta e farre. La condiamo con un po’ di olio preso da uno ziro. Tagliamo una fetta di pane anch’esso di farre. Ci dissetiamo con il vino rimasto fresco nella panata. La traduzione dalla lingua umbra è d’obbligo. Parliamo di due alimenti di base, la lenticchia e il farro, che sono rispettivamente il legume e il cereale forse più antichi al mondo. E parliamo di utensili, come la pentola, la giara, la brocca, fatti di una delle materie prime più antiche, la terracotta, lavorata già nell’età del Bronzo e che poi molti popoli si incaricarono di perfezionare. Fra questi gli Etruschi. Legumi, cereali, terracotte. Piccole perle di archeologia agricola e artigianale per il nostro uso quotidiano. E prodotti asportabili di alcune aree di grande bellezza. “Il coccio di Ficulle, lo levi dal foco e ancora bulle” Eccoci a Ficulle, nel ternano. A pochi chilometri – anche con il pullman di linea – dalla stazione ferroviaria di Fabro e dalla nota città di Orvieto (nota, ma così densa di dettagli da non esserne mai sazi), ecco Ficulle in alto, con il castello e le mura e intorno i boschi ma anche qui e là pareti d’argilla, quella giusta per i vasai ficullesi. In questo paese medioevale dolcemente si impone la visita al giardino comunale di Amadriade, in mezzo a una straordinaria varietà di piante acquatiche, officinali, aromatiche e ornamentali, anche rare, e frutteti di antica coltura. Ma la specialità ficullese è l’arte povera della terra lavorata al tornio, con la decorazione a colpi di “scopetta” che lasciano macchie brune e verdi sempre diverse, e una invetriatura trasparente a protezione. Altrove in Umbria, a Gualdo Tadino, Orvieto, Guccio, Deruta, si è sviluppata l’arte ceramica. Ma Ficulle (dal latino figulus, vasaio) è da mille e più anni il paese dei cocci di terracotta. Vasellame d’uso, non soprammobili. Tegami e pignatte in argilla refrattaria, creta per orci, brocche, ciotole, piatti, bicchieri, scolapiatti, tazze, vasi e altri oggetti non “per bellezza” ma utilitari. Grande crisi negli anni Cinquanta, con l’avvento della plastica e degli utensili di alluminio. La comunità artigiana scende da nove botteghe a due, spiega il bel libretto “Una famiglia, una storia, un tradizione” di Serena Rosati, ex allieva di Costantino del Croce. Ma nel settembre 2012 ha chiuso bottega pure lui. Rimane l’insegna “Terracotte dal 1834” (quattro generazioni: nel 2011 la Camera di Commercio di Terni gli ha assegnato il premio “Le radici del futuro” per i 150 anni di attività), ma accanto ha un malinconico cartello: “Vendesi”. All’interno, accanto al grande forno a gas comprato nel 1998 a sostituire quello a legna, rimane l’ultima produzione di cocci. “Questi pezzi erano il corredo di casa di tutte le famiglie di un tempo, che avevano bisogno delle pignatte per cuocere, di piatti e bicchieri a tavola ma anche, ad esempio, dei secchi per mungere il latte, delle grandi brocche per andare ad attingere l’acqua alla fontana, del focone per scaldare la stanza, del pretino per il letto e naturalmente del pitale notturno!”. Anche i colori erano fatti a mano: il verde con rame ossidato dallo zolfo, il marrone triturando oscuri sassi di fosso. Via via nuovi strumenti di lavoro hanno ridotto la fatica, il tornio a pedale è diventato elettrico, l’asinello che con i bigonzi trasportava la creta dalla vena e i cocci pronti al mercato di Orvieto ha lasciato il passo al camioncino. E per fortuna la cristallina ha sostituito da decenni il micidiale piombo usato un tempo per la verniciatura: chissà quante generazioni si sono intossicate lavorando e mangiando. Le tradizioni buone devono rimanere, il brutto va lasciato cadere. Costantino ha fatto un piccolo museo nella stanza grande della sua casa di pietra, dalla finestra con ampia vista sulla valle. La collezione con un oggetto per tipo, le foto dei nonni, del camioncino, i premi, il tornio di legno a pedale, costruito circa sessanta anni fa, sul quale le palle di creta diventavano di mille forme, per chi sapeva sincronizzare «mani e piedi. Tanti oggetti sono tuttora di piacevole utilità (si cuoce e si mangia bene nella terracotta) e non uno sfizio per regali di circostanza o piccoli souvenir. «E in effetti, spiega Costantino, fino a un anno fa pensavo di continuare. Si vendeva direttamente, e a negozi, alle fiere. Poi un po’ l’età, un po’ gli obblighi di legge e la burocrazia, un po’ la crisi generale mi hanno fatto dire basta. Ma vorrei non dover demolire questo forno. Spero che qualche giovane, oltre all’ultimo vasaio rimasto, Fabio Fattorini, arrivi qui a ravvivare l’arte povera di Ficulle”. Bene, dipende anche da quante persone decideranno che le terrecotte - per cuocere e mangiare, per bere e conservare - sono un oggetto del futuro. Idem per le ceramiche. Mangiare le lenticchie con gli occhi Dalle pignatte alle lenticchie – semi rinvenuti in tombe del 3.000 a.C. - il passo è breve come non è lunga la distanza fra i rispettivi luoghi di produzione, Ficulle e Castelluccio di Norcia. Il coccio è il materiale ideale per quei piatti che hanno bisogno di cotture lente e soavi: legumi, cereali, sughi, stufati, minestroni e zuppe. In primis il legume Andare a Castelluccio, oltre 1.400 metri s.l.m., sul versante umbro dei Monti Sibillini, non significa solo potersi approvvigionare direttamente dal produttore ma anche regalarsi uno spettacolo unico. Gli altipiani sono spesso fra i luoghi più suggestivi; sembrano stare fuori dal mondo (siamo sulle Ande o sul Pollino? In Nepal o appunto in Umbria?). Però Castelluccio, con la sua piana di 18 km circondata da colline e montagne, nei giorni detti della Fioritura è anche un immenso quadro nel quale fioriscono a miliardi tante specie, in un incanto di strisce e macchie colorate, giallo rapa selvatica, rosso papavero, azzurro fiordaliso, viola violetta, biancoviolachiaro lenticchia, nel verde erba. La Fioritura, con la colonna sonora del canto degli uccelletti, è diversa di anno in anno e va in scena per pochi giorni fra fine maggio e i primi di luglio. La data giusta è imprevedibile: meglio informarsi di volta in volta presso il Comune di Norcia. Proteica concorrente vegetale delle norcinerie sue conterranee, la lenticchia per crescere ha bisogno di poco, ma del poco giusto per lei. Si adatta bene in aree montagnose, svantaggiate, tendenti alla siccità, e a Castelluccio, ma anche ad Annifo e Colfiorito, il terreno e il clima producono un seme di gusto delizioso e di facile cottura. “Un’altra virtù ci dice la Coldiretti di Norcia, è che la lenticchia di Castelluccio, come lo zafferano di Cascia e il farro antico di Monteleone di Spoleto, sono il paracadute degli agricoltori di fronte alla crisi economica che colpisce altre colture di montagna, come pascoli, orzo, erba medica. La resa per ettaro è modesta – dai 2 agli 8 quintali – ma si guadagna in modo dignitoso”. A patto che la vendita sia il più possibile diretta, in azienda o nei mercati dei produttori. L’antico, delicato legume meriterebbe molta più attenzione di quella quasi una tantum che ottiene a Capodanno, 10 milioni di chili in una notte. Va detto però che secondo un’analisi di Coldiretti nazionale oltre il 90% delle lenticchie mangiate nel nostro paese viene dall’estero con importazioni a basso costo e di scarsa qualità, soprattutto da Cina, Usa e Turchia. Il sindacato agricolo teme l’estinzione delle coltivazioni nostrane. Castelluccio però non sembra correre il rischio. Anzi, i terreni giusti per la Igp sono già tutti coltivati. Ma certamente, c’è in Umbria e in altre regioni molto altro spazio per mettere a coltura la lenta, se la domanda aumenterà. Il palato e la salute ne godranno. Location molto adatta a lenticchie e farro, ma perfino alla patata rossa, è un altro altipiano: Colfiorito, sul tratto appenninico-nocerino. Segni particolari, una palude di cento ettari ricca di specie vegetali e habitat eccellente per uccelli acquatici e anfibi. Ma chi vuole trovare l’unico cereale dop (a denominazione di origine protetta) di tutta Europa deve salire al maestoso paesaggio agrario di Monteleone di Spoleto, centro etrusco e poi medioevale, stazione climatica. Là si cerca il tartufo nero e si coltiva il farre della varietà antica tritucum dicoccum. La richiesta di questo alimento molto buono e ricco di nutrienti cresce in Italia e all’estero, anche per i trasformati, pane, pasta, biscotti. Il cereale fra i più antichi del mondo è una pianta che resiste al freddo e preferisce terreni poco fertili di montagna, con inverni lunghi e rigidi. Un antico rituale presso i monteleonesi, chiamati anticamente 'mangiafarre', vede il parroco distribuire gratis il 5 dicembre la minestra di farro benedetto con sugo senza carne, per ricordare il miracolo che la tradizione attribuisce al vescovo san Nicola: impressionato dall’indigenza degli abitanti, egli avrebbe regalato appunto lo spartano cereale per sfamare i poveri. Proprio la permanenza di questo singolare rituale ha favorito la continuità della sua coltura a Monteleone. Lenticchie più farro: cibo di ieri e di domani. Ecologia della salute sulla tavola imbandita. Con i cocci, naturalmente.

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