Emissioni di CO2, l'acidificazione degli oceani mette a rischio le specie

La ricerca scientifica internazionale ha portato alla luce una ulteriore conseguenza delle eccessive emissioni di CO2: l’acidificazione degli oceani. L'anidride carbonica rilasciata nell'atmosfera reagisce infatti con le molecole di acqua, determinando mutamenti chimici che mettono in pericolo la sopravvivenza di diverse specie marine. Prime fra tutte: coralli, molluschi e crostacei.

Emissioni di CO2, l'acidificazione degli oceani mette a rischio le specie
Se di cambiamenti climatici si parla quotidianamente, poco noto è invece un altro pericoloso fenomeno che trova origine nella medesima causa, ossia l’emissione nell’atmosfera di anidride carbonica in quantità eccessive. Si tratta dell’acidificazione degli oceani: processo graduale, ma rapido, che si è imposto all’attenzione delle comunità scientifiche di tutto il mondo solo negli ultimi anni. Oltre metà della CO2 liberata bruciando combustibili fossili, producendo cemento e disboscando, viene immagazzinata dalla vegetazione e, soprattutto, dagli oceani. Le conseguenze dannose sul clima sono così significativamente rallentate, ma in realtà altrettanti effetti negativi sono prodotti a livello di ecosistemi marini. L’anidride carbonica reagisce – infatti – con le molecole di H2O e dà origine a processi che alterano fortemente l’equilibrio chimico, determinando l’acidificazione delle acque e una riduzione degli ioni carbonio liberi. Ciò che ne consegue è che l’habitat diventa non più confortevole per varie specie marine, soprattutto per quelle che hanno bisogno di carbonio per sviluppare strutture come gusci e scheletri. Più specificatamente, due reazioni hanno luogo. Una determina la formazione di acido carbonico, che poi si scinde in ioni di idrogeno e ioni di bicarbonato. La maggiore concentrazione di ioni idrogeno comporta una diminuzione del pH degli oceani (ossia per l’appunto la loro acidificazione). Una seconda reazione, che produce ancora una volta ioni di bicarbonato, coinvolge oltre all’acqua e alla CO2 anche ioni di carbonio. Da qui la sopra citata riduzione di tali ioni liberi, i quali sono fondamentali affinché si realizzino i processi di calcificazione necessari alla formazione di gusci calcarei e scheletri. Ad essere affetti da questa carenza sono, dunque, specie come molluschi, crostacei, ricci di mare, alcune alghe, ma soprattutto i coralli, i quali a loro volta ospitano altre specie marine, rappresentano una protezione per le coste e sono componenti chiave nella catena alimentare. Si giunge quindi al solito punto: la biodiversità è messa gravemente a repentaglio, con possibili ricadute anche sulla sopravvivenza di specie superiori che di tale fauna si cibano. L’acidificazione degli oceani è emersa a livello mondiale come problematica di rilievo solo nel 2005, in virtù di un rapporto della Royal Society sullo stato dei medesimi. Si era qualche volta accennato al fenomeno già in passato, ma solo in questi ultimi anni se ne è compresa la portata. In seguito a tale rapporto, varie ricerche scientifiche sono state condotte in tutto il mondo (si contano in particolare 8 progetti, distribuiti tra Europa, America, Asia e Oceania, in cui confluiscono varie Università e Istituti di Ricerca). I risultati degli ultimi studi sono stati di recente pubblicati in una guida chiamata 'Acidificazione oceanica: risposte alle domande', la quale è il completamento e l’aggiornamento di una precedente pubblicazione (diffusa nell’inverno 2009), che dava una prima introduzione alla questione. Tale guida, come anche la precedente, è stata redatta dal Gruppo di Riferimento sull’Acidificazione Oceanica (OARUG) e unisce le conoscenze (e le risposte ad alcuni quesiti fondamentali) fornite da 27 tra i maggiori esperti mondiali di ecosistemi marini e oceanografia, provenienti da 19 istituzioni e 5 paesi. A inizio mese il Principe Alberto II di Monaco ha presentato il nuovo fascicolo in occasione di un meeting organizzato nel Principato da varie Commissioni, tra cui la IUCN (Unione Internazionale per la Tutela della Natura). "Rispondendo ad alcune tra le domande fondamentali sollevate - ha affermato Dan Laffoley, vice-responsabile per il settore marino della Commissione Mondiale sulle Aree Protette del IUCN (nonché editore capo della guida) - intendiamo fare breccia nell’ignoranza e la confusione che vigono tra la gente, in modo che ognuno possa avere chiaro cosa sta accadendo e perché si tratti di una faccenda di alta priorità a livello globale". Secondo gli studi riportati nella guida, l’attuale aumento di concentrazione di anidride carbonica negli strati superficiali delle acque oceaniche - e quindi la conseguente acidificazione delle stesse - procede circa 100 volte più rapidamente di quanto non abbia fatto alla fine dell’ultima glaciazione (risalente a 20.000 anni fa), ossia l’ultima volta che si è avuto un incremento notevole di CO2. Ed anche se la quantità nell’atmosfera si stabilizzasse a 450 parti per milione in volume [1] (al momento ci si attesta sulle 391 ppmv, ma questo valore aumenta di 2 ppmv all’anno), l’acidificazione avrebbe comunque un impatto profondo su gran parte dell’ecosistema marino. È evidente che, ancora una volta, ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera si rende assolutamente necessario, in particolare nel testo si parla di un taglio di almeno il 50% entro il 2050: obiettivo ambizioso! Sebbene il processo di acidificazione coinvolga tutti gli oceani della Terra, esso procede più rapidamente in alcune zone. Gli studi mostrano che il primo a manifestarne le conseguenze sarà l’Oceano Artico. Se i livelli di CO2 nell’atmosfera, e di conseguenza nelle acque, continueranno a crescere con i tassi attuali, entro il 2018 nel 10% delle acque di tale oceano avrà inizio il processo di dissoluzione delle strutture calcaree (o non generazione di nuove). Nel 2050 si arriverà alla metà ed entro i 50 anni successivi al 100%. Nel frattempo, ovviamente, il fenomeno avrà avuto inizio anche in altre regioni del pianeta. Già oggi alcuni campioni di fauna marina rinvenuti negli oceani del sud del globo presentano un guscio del 30-35% più sottile di quello di corrispettivi resti risalenti al periodo precedente la rivoluzione industriale (momento in cui è iniziato il vertiginoso aumento di emissioni di CO2). Si potrebbe obiettare che le specie che popolano gli oceani potranno adattarsi, evolversi o estinguersi ed essere sostituite da altre, com’è avvenuto in passato (si parla ovviamente di ere geologiche) quando il pianeta è andato incontro a profonde trasformazioni. Ma ciò che muta completamente lo scenario al giorno d’oggi è la rapidità con cui i cambiamenti avvengono. Non trattandosi di evoluzioni naturali, bensì pilotate dall’attività umana, il pianeta non è in grado di rispondere con altrettanta velocità e rigenerarsi, oltre che adattarsi. Ne segue che i processi in corso sono inevitabilmente distruttivi: questo vale tanto per i cambiamenti climatici quanto per l’acidificazione degli oceani. Si è pensato anche a vari interventi tecnologici, sviluppati da una branca della ricerca definita geo-ingegneria. Tra le soluzioni proposte vi è quella di iniettare nelle acque dei composti che neutralizzino chimicamente l’acido carbonico. Ma la quantità di sostanza che andrebbe aggiunta è tale da rendere l’impresa estremamente complessa. Per altro essa comporterebbe l’estrazione della materia necessaria da cui ricavare i componenti da inserire in acqua, con conseguenze ambientali ancora una volta ignote; inoltre si dovrebbero costruire opportune infrastrutture per realizzare i processi chimici necessari e per l’iniezione negli oceani. Discorso analogo vale per la cosiddetta 'fertilizzazione' delle acque, che stimolerebbe la crescita del fitoplankton. Si tratta di imprese dal costo e dalla complessità tale da rendere al confronto la strada della riduzione di CO2 ben più praticabile (oltre che di impatto maggiore in quanto avrebbe effetto su varie problematiche ambientali in contemporanea). Ad opinione degli esperti il processo non è irreversibile (anche se in ogni caso procederà oltre per parecchi anni, anche se smettessimo di colpo di emettere anidride carbonica, a causa di una certa inerzia intrinseca nel sistema), ma occorre agire immediatamente per determinare un taglio netto delle emissioni. A quanto pare le alterazioni del pianeta in tutti i suoi sottosistemi stanno giungendo ad un livello tale da non essere più trascurabili e ogni giorno qualche nuovo risultato di studi scientifici ci pone duramente faccia a faccia con le nostre responsabilità. Che cosa vogliamo farne, dunque, del futuro della Terra e della nostra stessa specie? [1] ppmv = parti per milione in volume; in questo caso 1ppmv indica che ogni milione di volumi di aria si ha un volume di anidride carbonica

Commenti

Perchè quando si parla di emissioni di CO2 si incolpano sempre i combustibili solidi o il petrolio e non si parla mai della produzione da allevamento intensivo di bestiame che è di gran lunga superiore. mi aspetterrei un articolo informativo al rigurdo
m.gazzano@mediterranea.it, 19-11-2010 04:19
E' falso imputare gli allevamenti peggiori di quello di bruciare i combustibili. Anzi gli allevamenti di bestiame è solo un milionesimo di questo inquinamento come i 7miliardi di persone nel mondo. Basta leggere i dati WWF e quelli del consumo dei petroliferi per rendersi conto. Questa bufala è stata messa in giro dagli inquinatori per non dover diminuire l'inquinamento con costi per loro aggiuntivi. Ciao
ziomaul, 16-07-2011 06:16

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