Amazzonia peruviana: la teoria di Garcìa e le rivolte indigene

I popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana lottano da 30 anni contro quel concetto di sviluppo che avvelena il loro territorio ed apre indiscriminatamente le porte al capitale straniero, alle multinazionali ed allo sfruttamento delle risorse peruviane. Una lotta impari di dignità da un lato e rincorsa al profitto dall’altra.

Amazzonia peruviana: la teoria di Garcìa e le rivolte indigene
L’America Latina è diventata progressivamente terra di conquista delle multinazionali. Con metodi più o meno leciti che vanno da una legislazione condiscendente preconfezionata dalle istituzioni nazionali ai mezzi più spicci della corruzione e della violenza, i giganti del commercio internazionale possono permettersi il lusso di occupare terre ed assoggettare popolazioni senza nemmeno l’ombra di un rigurgito di coscienza. Questa volta vogliamo raccontarvi una storia che arriva dal Perù. Nel cuore più povero dell’America Latina per le multinazionali è fin troppo facile muoversi indisturbate agendo indiscriminatamente sulla natura, alterando l’equilibrio secolare che si è creato tra l’uomo e il territorio che abita. In Perù esiste un’abbondante legislazione a protezione dell’ambiente, dell’ecosistema e delle etnie indigene che vivono nella foresta Amazzonica, l’espressione più importante della quale è il cosiddetto Convenio 169 de la Organización Internacional de Trabajo (OIT), una legge di tutela a livello costituzionale, approvata dal Congresso. Si tratta di una legge di fondamentale importanza perché stabilisce che qualsiasi disposizione sui territori indigeni debba ottenere il consenso delle comunità che li abitano. Non è però con una legislazione del genere che si fermano le ruspe delle multinazionali perché dove non arriva la legge, arrivano molto più velocemente i dollari, la corruzione. E la teoria di Alan García, Presidente della Repubblica peruviana dal 2006 al 2011. García, puntellando, qualora ce ne fosse bisogno, i concetti variegati a sostegno del neoliberismo, ha formulato la cosiddetta teoria del perro del hortelano (il cane dell’ortolano). Sinteticamente, afferma che il Perù è ricco, ricchissimo di risorse non sfruttate: di fiumi che corrono a mare senza produrre energia; di ettari di bosco non sfruttati; di terreni incolti che nessuno coltiva o coltiverà; di centinaia di depositi minerali in cui non si lavora. La motivazione che dà di tutto questo spreco è la seguente: “Ci sono molte risorse non sfruttate, su cui non si investe e che non generano lavoro. Tutto questo per colpa del tabù di ideologie superate, per pigrizia, per indolenza o per la legge del cane dell’ortolano che dice: Se non lo faccio io, non lo farà nessun altro”. Per converso, con molto cinismo e senso della globalizzazione, García propose una ricetta spietata che spalanca le porte al neoliberismo: visto che i piccoli contadini o le comunità indigene non sono in grado di investire in alcunché e visto che non dispongono di grandi capitali, devono farsi da parte e permettere alle grandi compagnie (soprattutto quelle minerarie nella Sierra) e le imprese estrattrici (nella Selva) di investire sul territorio; bisogna lasciare mano libera alle grandi compagnie agroindustriali che tappezzano il territorio di monocolture e agli agrochimici che sintetizzano prodotti da esportazione tagliando fuori il mercato interno. Questa è stata la ricetta del Presidente García per lanciare il Perù nell’orbita del progresso (qui la versione integrale della teoria). Perché potesse mettere in pratica questa teoria, García ha ottenuto dal Potere Legislativo l’autorizzazione a legiferare. Per prima cosa, tra il 2006 ed il 2009 il Presidente ha firmato l’adeguamento del Perù al Tratado del Libre Comercio (TLC) con gli Stati Uniti. Non a caso, George W. Bush subito dopo l’approvazione del Trattato da parte del Senato americano (2009) affermò testualmente che si trattava di “un accordo che equilibra il terreno di gioco per gli esportatori e gli investitori nordamericani, decisivo per l’espansione verso l’importante mercato nella regione andina dei prodotti e servizi made in Usa”. Da parte sua, García ha utilizzato il Trattato come piattaforma per emanare decreti contro l’organizzazione comunitaria degli indigeni della Sierra e della Selva e permettere alle compagnie straniere le attività di estrazione di gas e petrolio; il taglio della legna; la semina di canna da zucchero e palma da olio. Già dal 2006, García iniziò a concedere enormi porzioni di territorio indigeno nella regione Amazonas e Loreto per lo sfruttamento minerario ed energetico a multinazionali straniere. Stessa cosa ha fatto con i territori delle comunità Achuar e Aguaruna-Huambisa nella zona alta della Selva (Amazonas, Loreto e San Martín): in tutto, ha destinato dieci lotti di terra a compagnie petrolifere. Nell’aprile del 2009 ha sottoscritto un contratto con la compagnia Olympic Perù, una succursale dell’omonima compagnia statunitense, per affidarle il lotto numero 145 (500 mila ettari di terreno) situato nella conca di Bagua (Amazonas). L’occupazione del territorio, condotta in violazione del Convenio 169 OIT, ha innescato una serie di proteste e manifestazioni da parte di tutte le popolazioni indigene, guidate dalla Asociatión Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana (AIDESEP), che chiedevano il ritiro dei decreti nel rispetto del loro diritto all’autodeterminazione e ad essere consultati sulle risorse naturali presenti sui loro territori ancestrali, contro la politica delle porte aperte del Presidente. I metodi di lotta delle popolazioni indigene hanno previsto i blocchi dei trasporti (di terra, ma soprattutto i trasporti fluviali molto utilizzati dalle multinazionali), l’occupazione delle infrastrutture e le piste di decollo degli aerei e si sono dislocate da Bagua a Yurimaguas, Tarapoto, Napo, Atalaya. Con l’inizio delle proteste i manifestanti sono riusciti a riportare una piccola vittoria ottenendo che il Congresso derogasse i decreti. Una vittoria di Pirro, stracciata dai fatti che si sono verificati il 5 giugno del 2009. In quella data si celebra la giornata mondiale dell’ambiente: Ariel García l’ha utilizzata per scagliare i corpi speciali della polizia addestrati nella repressione dei movimenti sociali (la Dirección Operaciones Especiales) contro i manifestanti. Quel giorno in Perù lo ricordano come Baguazo, perché la rappresaglia contro le etnie Awajun e Wampis si è consumata proprio nei pressi di Bagua, alle cinque del mattino. Un tiro al piccione contro una popolazione disarmata, a colpi d’arma da fuoco da terra e dagli elicotteri. Dopo il massacro, la polizia impedì il soccorso ai feriti e la raccolta dei cadaveri. Le immagini che rimbalzano tra i vari bloggers che si sono interessati all’argomento sono agghiaccianti: vere e proprie scene di mattanza contro gente armata solo di lance, frecce e pietre. Il bilancio di quella giornata, tracciato dall’Asociación Pro Derechos Humanos, parla di 189 feriti e 113 fermi. Gli indigeni, nel difendersi, hanno occupato una centrale petrolifera in cui hanno preso alcuni poliziotti come ostaggi, giustiziandone poi alcuni nel cuore della Selva. Il caos ha dato a García l’assist per sospendere tutte le garanzie costituzionali dando, di fatto, mano libera ai poliziotti di agire indiscriminatamente contro i nativi. Dal 2010 è in atto un processo contro i leader della rivolta. Dopo la fase investigatoria, il 13 aprile 2010 la titolare della Primera Fiscalía Mixta de Alto Amazonas (Loreto), Sandra Alarcón, ha chiesto 10 anni di carcere per sei degli accusati più una ammenda e 11 anni di carcere per Mario Bartolini Palombi, con la possibilità di essere espulso dal paese. Il 21 dicembre 2010 il Giudice Dr. Julio César Aquino Medina ha assolto soltanto Mario Bartolini ed Eduardo Geovanni Acate Coronel, direttore di Radio Oriente. Gorki Vásquez, Adilia Tapullima, Elías Sánchez, Javier Alava y Bladimiro Tapayuri sono stati condannati per attentati contro i mezzi di trasporto e comunicazione e perturbazione del funzionamento dei servizi e della quiete pubblica, con sommosse contro lo Stato peruviano. I legali dei leader si sono opposti alla sentenza, decidendo di ricorrere in appello. Il Tribunale di Tarapoto, finalizzando i termini legali, ha emesso una risoluzione, datata 28 dicembre 2011 e pubblicata il 12 gennaio 2012, in cui si afferma che Adilia Tapullima Torres, Elías Sánchez Días, Javier Alava Florindez, Mario Bartolini, Bladimiro Tapayuri Murayari, Gorki Vásquez Silva, Eduardo Geovanni Acate Coronel sono stati assolti dalle accuse a loro carico. Non si tratta di una storia isolata, né di un semplice racconto a lieto fine. Questo vuol dire che i cani dell’ortolano hanno alzato la testa e deciso di mordere lo stinco di chi stava per tirar loro dei calci. Vuol dire che ci sono popoli che non accettano alcun prezzo per privarsi della propria terra e del legame che li tiene stretti ad essa e che il principio del mandar obedeciendo (comandare obbedendo) che lega uomini e madre terra è più forte di qualsiasi idea velenosa di sviluppo.

Commenti

Secondo me chi ha scritto l'articolo non ha compreso pienamente la metafora del cane dell'ortolano... Oppure ritiene che sia meglio morire di fame e di ignoranza piuttosto che mettere a frutto le risorse. A mio parere è proprio la mancanza di sviluppo civile e sociale che consente agli esterni di sfruttare (a volte male ma a volte bene) il proprio territorio incolto. La storia dovrebbe averlo confermato. L'esempio più vicino a me è quello della Costa Smeralda in Sardegna mentre quello più lontano, ma altrettanto emblematico, è quello della colonizzazione dell'Australia. Potrebbe l'autore chiarire il suo punto di vista? grazie
Alberto, 10-03-2014 07:10

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