Occupazione o lavoro? La 'crisi' secondo Ivan Illich

Ivan Illich e la 'Disoccupazione creativa'. La rilettura di un saggio della fine degli Anni Settanta del precursore della decrescita si rivela estremamente attuale per riflettere sull'ambivalenza della crisi, sulla nostra percezione della realtà economica e sulla possibilità, sempre aperta, di un cambiamento reale.

Occupazione o lavoro? La 'crisi' secondo Ivan Illich
In tempi come quelli attuali, in cui allarmano le elevate percentuali della disoccupazione e la crisi funge da spettro (e spauracchio) per le prospettive delle nuove generazioni, sono poche le proposte concrete capaci di ridisegnare il presente. Lo ha fatto di recente Michele Dotti con un bell' articolo che ben illustra la differenza fra possibilità reali di lavoro e incapacità politica di progettazione. Proprio questo è il punto da cui bisognerebbe ripartire per una riflessione di più ampio respiro sul significato della 'crisi'. L'emergenza che circonda la discussione sul tema fa venire in mente quanto Ivan Illich (1926-2002), filosofo austriaco fra i primi teorizzatori della decrescita e del vivere conviviale, scriveva in un saggio dal titolo: Il diritto alla disoccupazione utile, apparso per la prima volta in Gran Bretagna nel 1978, e tradotto in italiano dalla Boroli nel 2005 come Disoccupazione creativa. Illich inizia osservando lo straordinario mutamento di significato che lo stesso termine 'crisi' ha subito rispetto al passato: in greco antico la parola (dal verbo krinein, separo o divido) rinviava alla dimensione della scelta e del cambiamento, mentre le lingue moderne l'adoperano per significare la 'spinta sull'acceleratore', ovvero una minaccia da contrastare spingendo con denaro, potenza e management. Concepita in questi termini, la crisi rappresenta un buon mezzo per commissari, burocrati, educatori, politici e medici: l'accelerazione, infatti, rimette più potere al controllo del guidatore, mentre stringe più strettamente i passeggeri con le cinture di sicurezza. Soprattutto, la crisi giustifica la deprivazione di spazio, tempo e risorse a vantaggio della produzione di macchine e comodità che limitano persino la libertà dell'uomo di usare i propri piedi per spostarsi. Più precisamente, però, sul finire degli anni Settanta, Illich addita una differenza decisiva rispetto al decennio precedente e la individua in una nuova forma di percezione della realtà economica. Se, infatti, nel 1968 si accantonava la denuncia della professionalizzazione del sistema sociale bollando ogni protesta come il frutto di fantasie romantiche ed oscurantiste; appena dieci anni dopo la riorganizzazione del modello industriale secondo bisogni, problemi e strategie professionali costituiva la norma stessa del giudizio comune. Si era venuta a creare una comunità perfettamente fiduciosa nel progresso realizzato dalle politiche pubbliche basate sul parere degli esperti; non si metteva in questione l'efficacia dei trattamenti medici, così come non si discutevano i metodi educativi impartiti nelle scuole. In breve, i rituali relativi all'organizzazione dell'educazione, del trasporto, della sanità e dell'urbanizzazione erano stati solo in parte demistificati, ma per nulla compromessi nella loro stabilità. All'opposto, aveva preso piede una differente forma di povertà modernizzata, prodotta dalla stessa modernizzazione dei bisogni. Si tratta di una discriminazione determinata dal venir meno dell'immaginazione sociale e dei valori propri di una cultura a seguito dell'introduzione di beni e comodità divenuti insostituibili e imprescindibili. Benché questi limitino la potenzialità creativa umana, nessuno si permetterebbe più di togliere tempo al proprio lavoro per occuparsi di quelle utilità e di quei servizi per i quali occorre fare assegnamento alla tutela di un 'esperto'. La povertà modernizzata è, quindi, vissuta da tutti quanti, ad eccezione di coloro che sono così ricchi da vivere nel lusso estremo. Il diritto del cittadino a essere assistito e approvvigionato si è quasi tramutato in diritto delle industrie e delle professioni a prendere la gente sotto la propria tutela, a rifornirla del loro prodotto e a eliminare, con le loro prestazioni, quelle condizioni sociali ed ambientali che rendono utili le attività non inquadrabili in una 'occupazione'. In questo modo la metà del XX secolo, con la sua straordinaria specializzazione e separazione dei saperi, si guadagna a pieno titolo la denominazione di 'Età delle Professioni Disabilitanti' (Age of Disabling Professions), nella misura in cui queste garantiscono la soddisfazione dei bisogni dei cittadini al prezzo della riduzione di questi ultimi in clienti. Accade il paradosso per cui non avere un impiego significa passare il tempo in un triste ozio, e non essere liberi di fare cose utili a sé o al proprio vicino, poiché ciò non produce nessun incremento del PIL. Fa riflettere, al riguardo, la torsione che Illich ravvisa proprio nel linguaggio in uso, quando nota che le attività designate da verbi intransitivi sono ormai completamente sostituite da realtà istituzionali cui ci si riferisce per mezzo di nomi: così “educazione” sostituisce “Io mi istruisco”; “assistenza sanitaria” al posto di “Io guarisco”; “trasporto” per “Io mi muovo”; “televisione” per “Io gioco”. Eppure la crisi può significare anche altro da ciò; può segnare il momento della scelta, quando gli individui diventano finalmente coscienti delle gabbie che si sono auto-imposti e della possibilità di una vita differente. Si può ispirare la società con un'austerità conviviale che protegga il valore delle persone dall'arricchimento che le disabilita. Il principio di tale convivialità consiste nel togliere i beni e le comodità dal centro del sistema economico e nell'impedire che siano gli specialisti del settore ad assicurare il collegamento dei nostri bisogni con quel centro. Con un'inversione sociale si possono collocare al centro i valori d'uso creati e giudicati personalmente dai soggetti stessi. Gli individui stabiliscono un limite massimo dei mezzi di cui disporre per sé e per garantire i servizi del vicino; gli strumenti sono valutati in funzione dell'uso cui sono asserviti, anche se prodotti industrialmente. A fare la differenza è proprio la scelta che orienta i singoli come i gruppi nella determinazione dei bisogni e di ciò che li può soddisfare.

Commenti

un plauso. Illich docet. E qui cade un accento infinito!
gabrielle, 30-03-2011 05:30
Articolo ben scritto. Vivi complimenti per la sintesi. Da notare la piena sintonia filosofica di Ivan Illich con Michel Foucault, soprattutto per quanto riguarda il rapporto potere/sapere mediato da istituzioni come la scuola, l'ospedale, l'esercito, la fabbrica.
Roberto Lepera, 18-04-2011 10:18

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