Notte senza dimora, reportage di una dormita in strada

Reportage di una notte trascorsa all'aperto, in piazza, in compagnia di volontari e senza fissa dimora. È l'edizione 2010 de 'La notte dei senza dimora', un'occasione per riflettere e far riflettere sulla questione del disagio abitativo.

Notte senza dimora, reportage di una dormita in strada
Attorno alle 7 di mattina i corpi avvolti nei sacchi a pelo iniziano pigramente a rianimarsi. Si muovono le giunture, si provano i legamenti, le ginocchia scricchiolano dal freddo e qualche fitta ai fianchi spazza via in fretta i sogni e ci ricorda del cemento duro e freddo che ci ha fatto da giaciglio per la notte. Una cinquantina in tutto, sparsi come tante crisalidi colorate sui gradini lunghi e piatti di piazza dell'Immacolata, quartiere di San Lorenzo, a Roma. Per alcuni di loro – chi scrive è fra questi – è la prima volta. Per altri è la vita di tutti i giorni. Fra queste due categorie si apre una forbice immensa in cui sta racchiusa, rannicchiata, tutta la vita metropolitana. Ma procediamo con ordine. Il 17 ottobre è stata la giornata mondiale per la lotta alla povertà. In quell'occasione in molte piazze d'Italia si è organizzata 'La notte dei senza dimora', una manifestazione pensata per sensibilizzare i cittadini al problema del disagio abitativo. A Roma la serata è partita con musica e interventi, la premiazione del concorso letterario 'La vita di un senza dimora' e circa 400 persone in piazza. Dal palchetto di piazza dell'Immacolata in molti hanno preso la parola. Girolamo Grammatico, fra gli organizzatori dell'evento e membro dell'associazione 'La casa di cartone', ha introdotto la serata. Lo ha seguito Andrea Piqué, uno degli 'avvocati di strada', uno staff di avvocati regolarmente iscritti all'albo che segue le vicissitudini giudiziarie di chi non può permettersi né un avvocato proprio né – per ragioni burocratiche o di permessi – uno d'ufficio. Ha parlato Antonio che viene da Napoli e per vivere fa i tarocchi ai passanti. Roberto ha urlato in faccia ad una piazza attonita. Poi, come in una favola strana, è scoccata la mezzanotte ed è finito tutto. Si sono chiusi gli stand, la gente ha iniziato a defluire, si sono spente pian piano le voci. E mentre dalla piazza adiacente risuonavano ancora le grida del divertimento, chi è rimasto ha tirato fuori il sacco a pelo, lo ha steso per terra e si è coricato. Dormire all'aperto era l'obiettivo della serata. Niente bivacchi, festicciole, chitarre o bottiglie di vino; lo aveva spiegato chiaramente Grammatico in conferenza stampa. Non era un occasione per chiacchierare e tirar tardi; si trattava piuttosto di sperimentare sul corpo e sulla mente gli effetti di una notte all'addiaccio. "La gente spesso si chiede perché queste persone non si trovano un lavoro", aveva continuato. "Provate voi ad andare a lavorare dopo aver trascorso la notte all'aperto. Fatelo per due, tre, quattro giorni di seguito e poi ditemi come vi sentite". Ci si sente strani, pallidi e doloranti. Una notte per strada pesa sul fisico come dieci notti in un letto. Invecchia le ossa, tira la pelle, appesantisce il corpo. Ci vuole uno sforzo notevole, al mattino, per rimettere in moto gli arti intirizziti. Si trova a fatica la forza di alzarsi, spezzare l'incantesimo di un mondo più bianco e gelido del solito che aspetta fuori dal sacco a pelo. Ci vuol coraggio a tirarsi su. Dopo una sola notte, in un ottobre non troppo gelido. In tutta onestà, non so – senza retorica – come si possa farlo tutte le mattine. Alzarsi, far scorrere il sangue nelle vene e riscaldare il corpo sapendo che a sera ci attende un'altra notte così, e la sera dopo ancora e via e via chissà fino a quando. Per molti versi essere un senza tetto assomiglia ad una condizione perenne. Un clochard è sempre stato e resterà un clochard. Nessuno sospetterebbe che sotto a qualche strato di cartone si possa nascondere un ex-fioraio, un avvocato, un postino: gente qualsiasi che per qualche dramma o una serie di sfortunate coincidenze è giunta a perdere tutto ciò che aveva. Deve sembrare una sorta di punizione divina: essere scaraventati all'improvviso dall'altra parte, oltrepassare il muro che separa la gente per bene dai reietti, gli emarginati, e rendersi conto di quanto questo muro sia fragile e sottile. Finire ai margini, fra il disprezzo e l'indifferenza generale, a scontare una pena orribile per l'unico peccato che la società contemporanea proprio non riesce perdonare: quello di non poter più consumare. Alle sette e qualcosa di mattina, nella luce grigia, ci siamo alzati tutti. Abbiamo fatto colazione col caffellatte e i biscotti e poi ognuno se n'è andato per la sua strada, qualcuno a casa, qualcuno no. È difficile tenere dentro una sensazione in un'epoca in cui niente dura più di un istante. Ancora più difficile decidere di dedicare un po' del proprio tempo a chi se ne sta zitto in un angolo in un mondo che fischia e grida e che ha fatto del tempo delle persone la merce più preziosa da accaparrarsi.

Commenti

grazie!
girolamo, 20-10-2010 03:20
meriterebbe maggiore approfondimento,video,interviste.. intendo anche ad operatori,servizi sociali,psichiatria,psicologi,sociologi.. uno studio approfondito...sui perchè,quando,come..
Pioggianelbosco, 31-01-2011 07:31

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