Olio di palma, #FerreroRipensaci: ad oggi raccolte 45mila firme

Sono 45mila ad oggi le firme raccolta dalla petizione lanciata per chiedere alla Ferrero di eliminare l'olio di palma dai suoi prodotti dopo le affermazioni dell'azienda che ha ribadito la scelta di continuare a utilizzarlo. Ma qual è l'impatto della produzione di questa materia prima? È una questione trasversale che tocca ambiente, alimentazione, salute, futuro del pianeta, interessi di potenti multinazionali. E c'è anche chi punta a fare confusione, magari per mischiare le carte. Proviamo a fare un po' di chiarezza con i dati alla mano.

Olio di palma, #FerreroRipensaci: ad oggi raccolte 45mila firme

Fino a pochi anni fa dell’olio di palma non si sapeva nulla. In etichetta compariva sotto il nome grassi vegetali ed era impossibile per il consumatore riconoscerlo. Poi, grazie all’entrata in vigore della direttiva europea del 13/12/2014 sull’etichettatura, le diciture generiche sono state messe al bando e l’olio di palma è apparso nella maggior parte dei prodotti da supermercato: non solo snack, merendine e dolci, ma anche creme, grissini, patatine, latti per neonati, niente sembrava immune di questa sostanza.

Il motivo è presto detto: l’olio di palma è estremamente economico. Ma, come spesso accade, se da un lato c’è chi ci guadagna, dall’altro c’è chi paga un conto, in questo caso salatissimo.
E chi sta pagando lo si scopre grazie a una puntata di Report del maggio scorso, dal titolo inequivocabile “Che mondo sarebbe senza…”. Il programma di Rai Tre mostra per la prima volta i tragici effetti della produzione e dell’utilizzo dell’olio di palma.
Malesia e Indonesia, i maggiori produttori di quest’olio, sono in ginocchio. In questi Paesi ogni ora viene distrutto l’equivalente di 300 campi da calcio di foresta pluviale per lasciare spazio alle piantagioni. Piantagioni che si sono impadronite anche di oltre il 90% delle terre coltivabili. I danni sono inimmaginabili: perdita di biodiversità vegetale e animale, oltre 1.500 specie di uccelli a rischio estinzione, morte di specie animali come le tigri di Sumatra, il rinoceronte di Giava, elefanti e orango. E ancora: inquinamento dei suoli e delle fonti d’acqua a causa del massiccio uso di pesticidi nelle coltivazioni, sfruttamento del lavoro (anche minorile), esproprio spesso forzato di terre di piccoli contadini e popoli indigeni, come più volte denunciato da Survival International.
A causa di questa produzione Paesi neanche lontanamente industrializzati come l’Indonesia hanno conquistato in pochi anni il podio nella classifica dei maggiori inquinatori al mondo, raggiungendo i livelli di Cina e Stati Uniti per emissione di gas serra.

Grazie a queste immagini inizia anche in Italia il boicottaggio dei prodotti contenenti olio di palma. Un boicottaggio talmente virale che dopo qualche mese le aziende del settore alimentare che lo utilizzano sono costrette a correre ai ripari promuovendo la campagna “Olio di palma sostenibile”, in cui si raccontano gli effetti positivi di questa sostanza.
In realtà la sostenibilità dell’olio di palma viene subito smascherata dalle tante associazioni ambientaliste, Greenpeace in testa, che raccontano come non vi siano concrete garanzie in tal senso. Dal 2004 le aziende produttrici e importatrici di olio di palma si barricano dietro alla Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), un ente certificatore che non solo non si è mai dimostrato in grado di garantire una produzione veramente responsabile o un reale controllo sull’intera filiera, ma che da quando esiste non è riuscito nemmeno a ottenere una minima riduzione del tasso di deforestazione. Anzi. Proprio molte delle società appartenenti al gruppo RSPO, come la malese IOI Group, oggi sono accusate di distruzione delle foreste tropicali e delle torbiere, violazione dei diritti umani delle popolazioni locali, sfruttamento dei lavoratori e utilizzo del lavoro minorile.

Il tentativo di tamponare l’emorragia di consumatori con la campagna “Olio di palma sostenibile” si rivela quindi un boomerang.

Anche perché, nello stesso periodo l’Efsa (European Food Safety Authority) pubblica uno studio su alcuni contaminanti di processo (3-MCPD, 2-MCPD e glicidil esteri degli acidi grassi, GE) che si formano ad alte temperature principalmente negli oli vegetali. Lo studio evidenzia che l’olio di palma contiene quantitativi molto più elevati di questi contaminanti rispetto ad altri oli/grassi. A queste sostanze sono attribuite caratteristiche di tossicità, in particolare il 3-MCPD e il glicidolo, che è classificato dallo Iarc (International Agency for Research on Cancer) nel gruppo 2 A come probabile cancerogeno per l’uomo e che proprio per questo il gruppo CONTAM (gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui contaminanti nella catena alimentare) non ne ha potuto stabilire alcuna soglia di sicurezza.
L’allarme dell’Autorità si aggiunge ai tanti altri studi che negli ultimi anni hanno denunciato i rischi sanitari derivanti dall’abuso di questa sostanza (che presenta ben il 52% di grassi saturi contro, per esempio, il 15% dell’olio di oliva e l’11% dell’olio di girasole). Aumento del rischio cardiovascolare, del colesterolo e di coronaropatie, sono solo alcuni degli effetti scaturiti dall’uso dell’olio di palma e riportati da autorevoli fonti quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Center for Science in the Public Interest, la statunitense American Heart Association, l’Agenzia francese per la sicurezza alimentare, il Consiglio Superiore della Salute del Belgio.

La reazione dei consumatori è immediata e non lascia scampo all’industria alimentare che a poco a poco non solo si vede costretta a eliminare l’olio tropicale dai propri prodotti ma, addirittura, a metterne ben in evidenzia l’assenza. “Senza olio di palma”, ormai è scritto ovunque.
Conad, Buitoni, Carrefour, Esselunga, Pam Panorama, Grom, Loacker… anche la stessa Barilla, prima tra le capofila dell’Unione olio di palma Sostenibile, ora è ben allineata tra le fila dei “Senza”.
C’è addirittura chi va oltre. Come la Coop, che non solo elimina l’olio ma ritira addirittura i prodotti a proprio marchio che lo contengono dagli scaffali. Nella nota emanata dal supermercato si leggono i motivi della decisione fatta in virtù del principio di precauzione: “Alla base di questa scelta la pubblicazione del dossier Efsa su alcuni contaminanti di processo…”.
E la Di Leo, che oltre a rinunciare da subito al palma si impegna attivamente nella riforestazione dell’Isola di Sumatra, uno dei territori indonesiani più martoriati da questa produzione.

Un successo. Un’azione nata dal basso che in pochissimo tempo è riuscita a cambiare le sorti del mercato. E che mercato! Consumatori consapevoli e aziende pronte a rinnovarsi insieme, per provare a sistemare le cose, a rimediare ai danni fatti. Ma non per tutti si è trattato di una vittoria.

Ferrero va controcorrente e per i suoi 70 anni decide di promuovere il suo marchio difendendo l’uso dell’olio di palma che nello spot viene definito “insostituibile” e “sostenibile”. Dopo oltre dieci anni di fallimenti della RSPO l’azienda di Alba annuncia il suo ingresso nella Palm Oil Innovation Group (POIG), una nuova garanzia di sostenibilità. Ma la domanda nasce spontanea: abbiamo altri dieci anni di tempo per verificare se questa volta la certificazione funzionerà? La risposta sembrerebbe essere negativa. Se si continua così, entro il 2020, le foreste indonesiane saranno definitivamente distrutte e con loro andranno perduti anche tutti quei servizi eco-sistemici cruciali per la sopravvivenza delle popolazioni locali, della stessa biodiversità e del controllo del cambiamento climatico.

Molti consumatori si sono già schierati per provare a convincere Ferrero a cambiare strada. In pochi giorni la campagna #FerreroRipensaci lanciata su Change.org per chiedere all’azienda piemontese di rinunciare all’olio di palma ha raggiunto le 45.000 firme. Intanto un’altra petizione promossa l’anno scorso dal Fatto Alimentare contro l’olio tropicale ha oltrepassato quota 170.000 firme. La mobilitazione è sempre più insistente. I motivi per cambiare strada, del resto, sembra ci siano tutti. Tutti a parte uno: quello economico. Ma un’azienda d’eccellenza come la Ferrero, con un fatturato miliardario e una storia di successo mondiale, può davvero basare le proprie scelte aziendali solo su questo? C’è chi si augura di no.

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Olio di Palma

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