Parole di terra. Dal saccheggio al ritorno della comunità

È appena stato pubblicato il nuovo libro di Pierre Rabhi che rappresenta uno straordinario atto di denuncia e uno straordinario atto di speranza: denuncia, dei disastrosi effetti sociali dell’agricoltura industrializzata sulle comunità indigene, e, speranza, di una riconciliazione con la madre terra, fondamentale per la nostra vita.

Parole di terra. Dal saccheggio al ritorno della comunità

 

Il testo è un passo fondamentale per ogni persona che volesse riavvicinarsi alla terra attraverso l'analisi di quelle civiltà che dominano la vita utilizzando metodi intensivi e invadenti. Il libro rappresenta un percorso che ci porta a riscoprire quell'inscindibile legame che ci unisce alla terra e, con essa, al destino del mondo.
Il viaggio è raccontato attraverso gli occhi del vecchio Tyemoro, il protagonista, che, insieme al piccolo Ninù, racconta a un antropologo che è ritornato in Africa per completare gli studi cosa è successo nel villaggio dopo l’introduzione delle sementi e dei metodi dell’agricoltura industrializzata. Viene espressa la sofferenza e l’abbandono dei quali sono vittime i popoli nativi del sud del Mondo, sottomessi a una logica disastrosa fondata sullo sfruttamento intensivo della terra.
Si parla di una ‘iniziazione africana’ ma il messaggio è di valore universale, apre gli occhi e risveglia le coscienze.
«Rabhi – osserva Yehudi Munuhin (autore della prefazione) in una nota in margine al libro - ci chiama a un atto di riconciliazione urgente, sia reale sia simbolica, tanto essenziale nella sostanza pratica quanto profondamente religiosa. La riconciliazione con la nostra madre terra è persino più urgente della riconciliazione tra gli uomini, poiché la nostra vita dipende dalla nostra terra. Nessuna vita sopravvive su di una terra morta. Sotto la forma del racconto, Rabhi presenta la triste storia dell’arroganza umana che, volendo dominare la vita, la distrugge; volendo dominare le specie, le annienta; volendo dominare la terra, la mutila, la tortura, la dissacra.»
Pierre Rabhi, contadino, scrittore e filosofo francese, è un pioniere dell’agricoltura ecologica in Francia, della decrescita ed è un esperto contro la desertificazione di prestigio internazionale. Professa e pratica da decenni un nuovo modello di sviluppo che deve portare l'uomo ad amare ogni forma di vita invece che a distruggerla come sta facendo. Tutto ciò si rispecchia in questa sua opera che, in modo semplice e saggio, parla di umanità e della nostra società occidentale invitandoci poeticamente a comprendere i cicli della natura proponendo soluzioni semplici agli attuali problemi ambientali. Egli è inoltre il fondatore del Mouvement Colibris – Coopérer pour changer (http://www.colibris-lemouvement.org/) che, chiamato prima Mouvement pour la Terre et l’Humanisme, opera per la trasmissione dei suoi valori, dell’etica, della pratica agroecologica e del coinvolgimento di sempre più persone nella realizzazione di un mondo migliore, più rispettoso della natura. Infatti attraverso lo scardinamento delle fondamenta del nostro modello di sviluppo viene proposto di ritrovare la forza di agire e la libertà di pensare e creare.
Questo libro rappresenta quindi un insegnamento urgente nei tempi attuali quando ormai ci siamo dimenticati chi siamo e che cosa dobbiamo alla terra.

Proponiamo quindi direttamente le parole del filosofo-contadino. Per quest'intervista a Rabhi si ringrazia La Repubblica
Cosa pensi del futuro dell'agricoltura, soprattutto rispetto all'urbanizzazione crescente e con il numero degli abitanti delle città che nel mondo ha già superato quello delle zone rurali?
"Il processo di urbanizzazione mi preoccupa tantissimo, da molto tempo. Noi, nel 1961 abbiamo deciso di tornare a vivere in campagna come scelta politica, perché non volevamo sottostare all'evidente alienazione di chi baratta la propria vita con un salario. È un'esistenza che sa di carcere, nel nome del mito di un progresso che rinuncia alla natura. Questa in realtà è una contraddizione del progresso. Ciò che in teoria dovrebbe liberarci, non fa altro che imprigionarci".

Mentre negli anni '60 tutti pensavano che la vera liberazione fosse quella dalla storica fatica contadina, tu sostenevi il contrario...
"L'Europa ci proponeva un modello glorioso, grandioso. Qualcosa che prometteva di cambiare in meglio le nostre vite. Il problema è che era tutto fondato sull'uso del petrolio e, in realtà, il bilancio tra lo sfruttamento delle risorse e ciò che si è prodotto è stato negativo. Su questo paradigma illusorio si è costruito poi un grande malinteso, perché ora tutti i popoli del Paesi emergenti vogliono fare come noi, ma non ce la potranno fare".

Il paradigma illusorio nel 1961 si iniziava però anche ad applicare all'agricoltura. Il modello industriale e produttivista invadeva anche le campagne. L'economia di sussistenza dei contadini era considerata miserabile, vecchia, legata a una terra che non può dare orgoglio e gratificazione.
"Il modello funziona in maniera molto potente anche a livello psicologico. Abbiamo sempre sostenuto che i contadini sono l'ultima ruota del carro, e che se l'urbanizzazione era il progresso, nelle campagne non poteva esserci. Ma poi, quando c'è una crisi grave, tutti si ricordano della campagna. È il contadino che tiene in vita gli elementi, che detiene la vita e ciò che è fondamentale per essa".

Questa è anche una visione spirituale, l'ultimo degli ultimi che sarà primo, e appartiene alla visione cristiana. È questa la tua formazione?
"All'epoca sì. Ora resto dell'idea che l'amore sia la forza più grande in grado di cambiare il mondo, ma non ho appartenenze formali. Ora credo in quello che faccio: il contadino. Posso spiegarvi come fare affinché la terra riesca a creare energia per la vita, ma non il perché ci riesce. Coltivo una parte molto razionale ma c'è momento in cui la razionalità non può più darci delle risposte. Sono molto affascinato dal mistero della vita, ma se mi chiedono, l'unica cosa a cui non potrei mai rinunciare è il mio orto".

La razionalità ha un limite, l'orto è un universo illimitato.
"L'urbanizzazione ha creato un universo limitato e tutti si sono dovuti adattare, ma in quell'universo non c'è più il fondamento della vita. Abbiamo creato un mondo parallelo senza natura e ora la gente non la comprende più".

Se giochiamo una partita contro un gigante non abbiamo nessuna possibilità, allora dobbiamo cambiare il campo di gioco e le regole del gioco.
"È quello che si chiama l'uscita dal paradigma. Nel 2002 mi hanno chiesto di presentarmi alle presidenziali. Mi sono detto che sarebbe stato interessante donare uno spazio di espressione della gente e allora ho dato vita a un luogo per raggrupparsi e riflettere, per ricercare la creatività della società civile. Da lì è uscito un programma che apparentemente non aveva nulla a che fare con la politica, tutto basato sull'amore, sulle utopie, sull'agricoltura ecologica, sul ruolo della donna e sull'educazione. Tenemmo 40 conferenze in giro per la Francia ed erano sempre piene: significa che si può avere fiducia nel futuro".

Che pensi della situazione in Africa?
"Disastrosa, gli asiatici depredano le risorse, i capi di Stato sono corrotti. Guarda l'Algeria, non produce ma esporta, si è addormentata sullo sfruttamento petrolifero. Non si produce cibo, i settori vitali sono morti. Se l'Algeria smette di esportare petrolio muore. Ci sono caste che si prendono tutta questa ricchezza, come in altri Paesi, e lasciano il popolo nella povertà".

Noi abbiamo scelto di fare 10.000 orti in Africa, e credo che sia il momento per costruire qualcosa nel continente. Una dimensione umana e di organizzazione, per ricreare una classe dirigente che abbia a cuore la comunità e non il commercio, la salvaguardia della biodiversità, la lotta alla fame e alla malnutrizione.
"È una cosa straordinaria. Quando mi hanno domandato di intervenire in Burkina Faso, io non conoscevo quella parte dell'Africa. Ma ho analizzato la situazione. L'agricoltura chimica non si poteva fare, le persone dicevano "io sono talmente povero che non posso acquistare fertilizzanti e diserbanti". È un sistema insostenibile per loro, perché è un sistema fatto per vendere e non per nutrirsi. È il sistema che produce la fame. Ora questo meccanismo sta rovinando anche i contadini europei, perché per fare agricoltura industriale gli strumenti sono troppo cari e la crisi peggiora la situazione. Si impoveriscono e sono diventati, almeno in Francia, la categoria di lavoratori che subisce più suicidi. Se c'è gente che fa piccoli orti, io dico "bene!" Un orto è un atto politico, di resistenza".

 

La Parte del Colibrì
Manifesto per la Terra e per l'uomo

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