Marlane-Marzotto: slitta ancora il processo della 'fabbrica dei veleni'

Dopo quindici anni di indagini e tre archiviazioni, sembrava potesse giungere ad una svolta la vicenda della Marlane di Praia a Mare, la fabbrica tessile di cui si teme la connessione con i decessi e le malattie di oltre 100 operai affetti da tumori. Il processo, avviato il 19 aprile scorso e poi rimandato al 24 giugno, ha subìto però un ulteriore rinvio.

Marlane-Marzotto: slitta ancora il processo della 'fabbrica dei veleni'
Primo, lo stabilimento. Nasce negli anni '50, fondato dal conte Rivetti, passa nel ‘69 all’Eni–Lanerossi, che abbatte i muri che separavano gli ambienti di lavoro creando uno spazio comune in cui finiscono per raccogliersi e diffondersi tutte le sostanze connesse ai processi di lavorazione, dall'amianto dei freni dei telai alle ammine aromatiche sprigionate dai coloranti durante l’ebollizione in vasche aperte. Queste condizioni vengono mantenute anche quando nell'87 la fabbrica passa alla Marzotto, che nel '90 introduce per la prima volta le vasche a chiusura. Secondo, gli operai. I lavoratori raccontano che nello stabilimento non venivano adoperate misure di protezione della loro salute, ad eccezione delle buste di latte utilizzate per disintossicarsi. Di fronte ai vapori connessi all'applicazione dei coloranti nelle vasche, gli operai erano soliti osservare - come racconta nel suo libro Marlane: la fabbrica dei veleni il giornalista ambientalista Francesco Cirillo - “oggi c'è nebbia in Val Padana”. Nel corso degli anni in decine si ammalano di tumore, in tanti ne muoiono, alimentando il sospetto di un legame tra il lavoro in fabbrica e quel male, diffuso all'interno della Marlane – dirà una perizia tecnica nel 2008 – con un'incidenza del 4% contro un dato regionale pari allo 0,003%. Terzo, il contesto. Un paese di circa 5mila abitanti, dove la continuità di lavoro offerta dalla fabbrica - ora chiusa - rappresentava una clamorosa eccezione ad una normalità di lavori intermittenti e mal pagati, tanto da convincere non solo tanti operai, ma anche i dirigenti dello stabilimento, i sindacati, i medici delle ASL e gli amministratori locali che i dubbi e le paure dovessero rimanere tali, per non compromettere quella preziosa, forse irripetibile, opportunità. Il resto è la storia della determinazione di alcuni ex lavoratori della fabbrica, del giornalista Cirillo, dello Slai Cobas, a conoscere la verità e ad individuare le eventuali responsabilità. Una storia che si complica quando, a seguito della testimonianza di un operaio, un'unità del NOE (Nucleo operativo ecologico) rinviene nell'area circostante lo stabilimento materiali tossici e residui di lavorazione interrati e le conseguenze dei presunti illeciti rischiano di allargarsi all'intera popolazione di Praia a Mare e del paese confinante, Tortora. Per questo motivo la Procura di Paola emana un'ordinanza diretta ad effettuare uno screening generalizzato sul territorio. Per ben tre volte l'inchiesta parte e poi viene archiviata, fino a che il procuratore Giordano Bruno e il magistrato Antonella Lauri non ottengono il rinvio al giudizio di 13 imputati per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale. La prima udienza, il 19 aprile scorso, si è conclusa con il rinvio per incompleta trasmissione degli atti di convocazione. La seconda, il 24 giugno, ha stabilito solo di rimandare tutto al 7 ottobre, senza che gli avvocati di parte civile potessero chiedere, come era loro intenzione, di trasformare l'accusa di omicidio colposo in omicidio volontario con dolo eventuale, analogamente a quanto avvenuto nel caso della Thyssen. Per trarre conclusioni bisognerà attendere il processo che stabilirà le eventuali responsabilità - ammesso che i continui rinvii non portino a prescrivere l'accusa, lasciando gli operai e le loro famiglie senza risposte. Al di là degli esiti giudiziari della specifica vicenda, tuttavia, a colpire è la ripetitività di alcuni elementi, che ricorrono in tante altre storie del passato e del presente. Il rischio a cui si è costretti ad esporre la propria vita per paura di perdere il lavoro. L'incoscienza di chi mette in pericolo le persone e i territori - perché se anche i decessi non fossero legati al lavoro in fabbrica, sappiamo che sarebbero potuti esserlo, per la nota cancerogenicità delle sostanze maneggiate e respirate dagli operai. La compattezza delle istituzioni nel difendere gli interessi industriali, in una trasversalità che ben si riflette nei nomi illustri degli avvocati schierati negli anni dagli imputati: dal parlamentare del Pdl Niccolò Ghedini al neosindacato di Milano Giuliano Pisapia al parlamentare Pd Guido Calvi. E infine – come osservato da Francesco Cirillo in una recente intervista – il modello esemplare “dell'intervento capitalista a sostegno statale nel Sud, che dietro il miraggio di portare posti di lavoro ha visto progettualità dirette al puro interesse personale e ad approfittare delle opportunità aperte dalle Casse del Mezzogiorno, per poi delocalizzare in paesi con un costo del lavoro più basso”.

Commenti

Bell'intervento. Senza perifrasi. Senza accuse generiche o infondate. Così deve essere un articolo che si interessa dell'ambiente. Così deve essere un articolo vero di un giornale vero. Il Cambiamento continuando così apre una strada nuova.
carlo carlucci, 27-06-2011 04:27

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