Il lavoro ci rende schiavi! È ora di ripensare il lavoro

Il lavoro oggi ci rende schiavi. Da un lato è la struttura sociale che ci costringe all’incessante guadagno per poter sopravvivere in un’economia che ci stritola. Dall’altro lato, siamo noi stessi che ci siamo costruiti una gabbia mentale che ci lega ad esso in un rapporto perverso e innaturale. L'autore ci guida nei meandri più oscuri del lavoro, lasciando intravedere, infine, uno spiraglio di luce.

Il lavoro ci rende schiavi! È ora di ripensare il lavoro
"Non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano". Con queste parole certamente esplicite, forse radicali, che senza dubbio nella moderna società occidentale farebbero gridare allo scandalo, Aristotele nella 'Politica' esprimeva la sua posizione riguardo a quella che oggi viene considerata l'attività principale dell'esistenza dell'uomo, quella che ormai secondo molti lo investe della dignità e del diritto morale e materiale di stare al mondo. Chi oggi non lavora, non produce, non impiega fruttuosamente il proprio tempo, viene considerato una palla al piede che la parte 'sana' della società – rappresentata da tutti coloro giorno dopo giorno passano otto, spesso dieci o dodici ore della propria vita davanti a un computer o a un nastro trasportatore – deve ingiustamente mantenere. È questo il paradigma che sin dalla scuola ci viene proposto. Scuola che, ironia della sorte, deve la sua etimologia proprio al termine greco skholè, 'tempo libero'. Non voglio però proporre un elogio dell'ozio, un panegirico della siesta, per cui ritengo che sia importante sottolineare una differenza di concetto fondamentale riguardo a ciò che oggi viene considerato utile e produttivo. La società occidentale ci ha abituato a misurare tutto il termini di Prodotto Interno Lordo e fatalmente, se chiederete a qualunque persona cosa pensa che voglia dire 'essere produttivi', essa risponderà che significa generare un utile. Dunque, produce e lavora solamente chi 'genera utili' o, come si dice oggi, 'fa girare l'economia' o 'fa crescere il PIL'. Ecco che automaticamente tutte le occupazioni del fisico, della mente e dello spirito che non siano finalizzate alla capitalizzazione diventano ozio improduttivo: così attività come la ricerca, lo studio, le arti, la musica vengono considerate secondarie, poiché consentono margini di guadagno modesti o addirittura nulli. Mentre sto scrivendo questo articolo io in realtà sto oziando, poiché nessuno mi pagherà per leggerlo. Allo stesso modo, anche nel mondo professionale si creano delle distinzioni fra mestiere e mestiere in base al suo valore monetario atteso: paradossalmente, nell'era dell'economia virtuale, operatori di borsa che rimangono tutto il giorno piantati davanti a un computer sono molto più produttivi – e quindi degni di rispetto – di un falegname che realizza tavoli e sedie o di un coltivatore che cura il suo campo. Inorridirebbe oggi Aristotele nel constatare questa situazione, lui che già secoli fa distingueva l'attività manuale finalizzata alla produzione di beni utili per vivere dal mercanteggiamento finalizzato all'accumulo di denaro, che chiamava con disprezzo crematistica. Ecco che in una società in cui il lavoro viene declinato secondo questi criteri, chi diviene improduttivo perde quasi tutta la sua importanza. Gli anziani, che in tempi antichi erano i pilastri della comunità in quanto depositari di saperi e memorie che costituivano l'anima della comunità stessa, oggi vengono considerati solamente corpi da mantenere in vita, da inserire in una struttura burocratica assistenziale come quella del welfare state, che li priva del loro valore umano e spirituale riducendoli a meri destinatari di servizi. Allo stesso modo vengono visti i bambini e i giovani ancora acerbi per essere inseriti nel mondo professionale. Proprio a questo servono gli istituti tecnici: formare 'soldati del lavoro' che, appena maggiorenni, possano già essere irreggimentati e resi produttivi, dopo essere stati indottrinati per cinque anni con studi che limitano al minimo indispensabile l'insegnamento di materie futili come storia, arte e lingue antiche e predispongono il ragazzo inculcandogli, ancora quattordicenne, la forma mentis del ragioniere o del geometra. Dice bene il filosofo Alain De Benoist quando fa notare la schiavitù nella quale ci costringe oggi il paradigma produttivistico. Anticamente il lavoro veniva associato a una vocazione, a uno stile di vita e di conseguenza entrava a fare parte in maniera sana e genuina della quotidianità di chi lo svolgeva, che fosse il contadino che passava la sua giornata immerso nei frutteti o il pescatore che partiva all'alba e rimaneva in mare fino a sera. Non si può dire neanche che non esistesse la contrapposizione fra piacere e dovere, poiché il 'dovere' non era neanche concepito. Oggi la situazione si è rovesciata: la maggior parte delle persone detesta il proprio impiego, vorrebbe passare altrove le otto ore che impegnano la sua giornata lavorativa, ma paradossalmente viene totalmente assorbita dalla professione, viene quasi ipnotizzata da essa e in fondo sembra che, pur odiandola, non ne possa fare a meno. Di certo non può farne a meno dal punto di vista economico, stritolata nella morsa di un'economia canaglia studiata per creare bisogni superflui, per soddisfare i quali il produttore-consumatore si indebita, si spacca la schiena, fa le ore piccole a suon di straordinari. Una perversa spirale studiata alla perfezione per imprigionare lo sventurato uomo moderno. Oggi si sciopera per rivendicare dei diritti e una politica economica più equa. Perdonatemi ma in questi tempi di banalizzazione del discorso politico mi sembra semplicemente una manovra elettorale per spostare qualche voto e convincere qualche indeciso. Tuttavia, è giusto cogliere l’occasione per una riflessione. Ma lo scopo non deve essere quello di partorire qualche decreto legge più rispettoso dello status dei lavoratori italiani, bensì quello – ben più ambizioso, dal mio punto di vista – di ripensare integralmente il concetto di lavoro che abbiamo oggi. Da un lato liberiamoci della schiavitù mentale che ci lega al mondo professionale in modo perverso, attraverso una relazione di odio-dipendenza che ci aliena, ci corrode e ci riduce a meri numeri, che si dibattono nella loro disperata condizione senza vedere una reale via d’uscita, regolando la propria vita in funzione del lavoro, "rimandando tutto al ventisette", come cantava De Andrè. Liberati da questa gabbia mentale, accendiamo la lotta politica, sociale e culturale. Studiamo delle alternative all’opprimente sistema del produci-consuma-crepa, liberiamoci del meccanismo del debito che ci rende schiavi, ricostruiamo una società dove il lavoro corrisponda alla vocazione, dove gli scopi dell’esperienza quotidiana e di vita delle persone siano più alti, più nobili, tesi all’elevazione dello spirito, dei valori, dell’essenza della comunità. Questa deve essere la vera rivoluzione e finché rimarremo vittime dell’ipnosi e dello stordimento collettivo che ci tengono prigionieri oggi, a prescindere da leggi, manifestazioni e scioperi generali non saremo mai veramente liberi.

Commenti

Bell'articolo. Grazie Riguardo ai sindacati, mi sembra anche di notare che, ormai, non riescano più a lottare per ottenere condizioni migliori per i lavoratori, ma solo a limitare minimamente i danni che i lavoratori subiscono dalla continua distruzione dei loro diritti e della loro libertà. È indicativo che le condizioni di lavoro siano sempre peggiori e stiano ancora peggiorando. Agendo così, sembra quasi che i sindacati abbiano un ruolo simile a quello del cane da pastore, che riporta all'ovile le pecore che fuggono. O una specie di valvola di sfogo. Quasi più utile a mantenere in piedi il sistema di sfruttamento, che non a portare maggior benessere alle persone.
Masque, 06-05-2011 01:06
Sull'importante tematica del lavoro, occorre seguire i saggi consigli del venerabile imprenditore ingegnere Nicolò Giuseppe Bellìa, benemerito promotore dell'ANTROPOCRAZIA, dove il capitale non serva più a rendere schiavi i lavoratori ma a nobilitarli. Secondo Bellìa e secondo me, il lavoro dovrebbe svolgersi unicamente per vocazione, assicurando a chi non voglia o non possa lavorare un naturale, civile "Reddito di cittadinanza" appena sufficiente ad assicurare il "Livello Essenziale di Esistenza" (LEE), che oggi potrebbe determinarsi in %u20AC 500/mensili. Soltanto cosi si passerebbe da un sistema sociale profondamente ingiusto, con infinite tragedie e sciagure umane (per il solo vantaggio economico di pochi privati individui carnefici, che si sono auto-eletti a "padroni del mondo", con poteri super-statali, primi a privarsi scelleratamente della beata libertà, perché operano nelle tenebre - Bilderberg docet!), ad un sistema virtuoso di reciproca comprensione tra gli uomini del lavoro e quelli del capitale, come da oltre un secolo insegna la insuperabile "Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica". Tutti vivrebbero la breve vita terrena armoniosamente, con la scomparsa della disoccupazione e guerre, da quelle militari a quelle condominiali. Scomparirebbe il 99% delle sciagure umane (omicidi, suicidi, rapine, furti, separazioni e divorzi per motivi economici). :-D
Inenascio Padidio, 06-05-2011 10:06
Articolo molto bello, ma, a mio parere, non tiene conto del fatto che un insieme di vocazioni personali non può essere gestito in una generalità se non attraverso una predeterminazione di priorità di necessità. Il cambio di sistema è necessario e, per farlo, quelle priorità devono essere il più democraticamente ma fermamente decise. Solo predeterminando le priorità nella produzione il lavoro potrà svincolarsi dal consumo fine a se stesso. Solo mettendo quei valori di vocazione fin dall'inizio nelle scelte prioritarie della produzione per un consumo utile il lavoro potrà loberarsi in tutte le sue potenzialità umane e di progresso. o
Franco, 03-06-2011 10:03
«CHI SIAMO Viviamo in un mondo che non funziona. Tutti si lamentano, ben pochi fanno qualcosa di concreto. O almeno così sembra. Ne siamo davvero sicuri? Il fallimento di tutti i vertici internazionali, le crisi economiche, finanziarie e bancarie, la deforestazione, il crescente inquinamento, la mercificazione dilagante, la diffusione dei brevetti nel campo agroalimentare, l'uso di pesticidi, ormoni, antibiotici nel nostro cibo, la medicalizzazione della società, la tele-dipendenza e la videocrazia... Questo elenco, che potrebbe riempire intere pagine, ci ha spinti a dire BASTA. Noi vogliamo cambiare le cose. E crediamo che come noi anche molte altre migliaia (milioni?) di persone lo vogliano. E che come noi anche molte centinaia (migliaia?) di persone ci stiano già provando (...)» _______________________________________ ATTENZIONE! Per ottenere l'autentico CAMBIAMENTO, capace di apportare autentico "bene comune" all'intero consesso umano, occorre l'intervento diretto di DIO, il quale, opera attraverso la mia umilissima persona sin dal 25/10/1993. A partire dal 01/01/2001, l'ho DIMOSTRATO, in maniera logica e solare, a tutti gli amati connazionali. I dettagli sono su EASCIOBLOG, iniziato il 01/01/2008. Nessuno lo vuole VERIFICARE. Rappresento una non-notizia giornalistica o un non-senso filosofico! Assurdo! A Voi tutti di "il Cambiamento" è da poco che mi sono presentato con Gmail Google inviate anche a Voi in Ccn. Attraverso di me potrete concretizzare tutte le Vs. buone intenzioni dichiarate come innanzi citate, a quale condizione? Alla condizione di non rimanere INDIFFERENTI alla realtà che io (ridotto da oltre 15 anni a "Morto civile" agli occhi delle mie 2 dilette figlie superstiti) venga trattato come un PAZZO bisognoso di Trattamento Psichiatrico Obbligatorio da trattare a base massiccia di HALDOL, in quanto potrei essere "pericoloso per sé e per gli altri", come emerge dal mio 17° Video/Inenascio su YouTube. Gradirei che il responsabile di questo magnifico sito mi degnasse, comunque, di un riscontro. Grazie! Cordiali saluti I.P.
Inenascio Padidio, 05-06-2011 12:05
@ I. P. Lei non può pretendere di essere capito. Di sicuro non è gridando in faccia ad un interlocutore già di per sè pieno di sicurezze artificiose e pregiudizi che la propria mente è guidata da Dio (qualunque cosa per lei voglia dire) che lo convincerà. L'interlocutore in questione è una brutta bestia, dispone di una concezione spesso autoreferenziale ed autogiustificatoria della vita, vede i propri difetti e persino le disgrazie che causa a sè e al prossimo come inevitabili e si fa forte di una maggioranza che cresce da sè, forte dello spirito di pragmatismo ed emulazione. Aggiunga che tale maggioranza di persone ha costruito l'intera propria esistenza attorno all'appartenenza, almeno inizialmente acritica, al gruppo più numeroso in nome della mera sopravvivenza o come antidoto disperato ad un'illuminata (?) solitudine come la sua. Cambiare idea su questo equivarrebbe per costoro a rinnegarsi: non può aspettarsi conversioni, tanto più che il suo modo eclatante e profetico di presentare critiche di per sè più che legittime è involontariamente funzionale alla sua emarginazione, poichè per il pensiero oggi diffuso, in una sorta di parodia della democrazia autentica, anche la verità o l'accettabilità (sociale, scientifica, ecc.) di idee e comportamenti è decisa per voto. La maggioranza, in parole povere, non si limita ad affermarsi ma pretende, solo in forza del numero, di *avere ragione*. E la massa crea massa, in un processo circolare che nasce senza ragione e finisce per essere la ragione di sè stesso. Per non sembrare una qualche specie di mago sulla torre d'avorio amante delle astazioni, presenterò un paio di esempi sotto gli occhi di tutti; sono sciocchezze; sono indicatori minimi ma proprio per questo alla portata del mitico uomo della strada, quello al cui contronto San Tommaso sarebbe stato lungimirante. Il primo sono le fascette dei best-seller. Cosa dicono? Argomentano la bontà del libro? Raramente. Argomentare è fuori moda, è umanistico, è opinabile (come ogni onesta persona, d'altronde, che dica la sua idea, ma questa umiltà dell'umanesimo, questo suo sano dubbio sembra non essere più compreso,perchè è poco funzionale ad una struttura gerarchica). Meglio procedere con carrettate di "ineccepibili" fatti (o presunti tali: nessuna ideologia è più pericolosa di quella che si proclama oggettiva e persino "neutrale" a dispetto della sua vera natura). E allora via di numeri, sondaggi,evidenze, manco fossimo alla Royal Society a parlare con qualche utilitarista inglese, uno di quegli scienziati che a forza di senso di superiorità si sono dimenticati che la vera scienza non è dogmatica nè esente da perplessità anche radicali, uno di quei ragionieri che recentemente (negli anni '70 dello Strutturalismo) ha provato a rendere scientifica persino la critica d'arte(cioè esente da punti di vista alternativi ma ugualmente rispettabili, poichè questo per lui è la scienza, una sorta di fede, di garanzia di incontestabilità, un bollo preziosissimo per ogni prepotente). E ora anche la psicologia (o almeno sue parti) si considera scienza solo perchè considera (giustamente) i dati sperimentali/statistici, rinnegando le sue radici relativistiche ed umanistiche (inevitabili quando si parla di una mente umana, a meno che non si resti a livello neurologico). Il risultato, tornando al nostro bestseller in cerca d'acquirente, è una sorta di "prova ostensiva" della qualità del prodotto in questione (altro non è) che segue essenzialmente due vie: lo stimolo all'omologazione e il peso delle cifre da un lato, l'accumulo di patroni, presentatori, referenti dall'altro. Non si tratta solo di una vergognosa parodia degli studi scientifici applicata alla letteratura, ma anche di due strategie che basano il loro successo su algoritmi che incrementano la loro efficacia ad ogni successiva iterazione, in parole povere di su volgare, ciarlatanesco, pensiero circolare, perchè, a differenza che in matematica o in altri campi razionali, qui manca proprio la prova, il teorema, anche se abbondano i teorici. Alla fine di tutto ciò ci ritroviamo con le fascette che, prima, esultano "il libro che è stato letto da più di 100.000 italiani" e, sei mesi dopo, trionfano "il capolavoro che ha venduto 400.000 copie" non contando che la loro qualità rimarrebbe un'interpretazione discutibile, soggettiva, della loro enorme diffusione oggettiva e soprattutto tacendo che molti di quei 300.000 lettori in più sono stati attirati dai centomila di sei mesi prima, pur non sapendo nulla o quasi del contenuto del volume. Non bastasse questo, ci sono i critici letterari,gli altri scrittori, le altre riviste,categorie sopravvissute a sè stesse e rifunzionalizzate dall'editoria dopo essere state private di un ruolo di autentica autorevolezza. Questi fornitori di referenze culturali oggi spesso procedono per analogia e sono anch'essi impelagati in una logica ricorsiva all'infinito: sono infatti considerati validi perchè qualcun altro li ha referenziati e loro volta referenziano terzi. E poi ci sono gli altri libri dello stesso autore, o dello stesso microcircolo, o dello stesso genere ipercodificato. E allora, andiamo, promuoviamo la nostra paludosa omogeneità nel constatare estasiati che "se vi è piaciuto Pinco, Pallino è la novità del panorama italiano che fa per voi", "XY è stato acclamato dal Times e da Repubblica", "Dallo stesso autore di XY, Sempronio Gracco", "L'ultimo capitolo della tri-quadri-penta-n-logia di...". Mobbasta! La seconda pistola fumante di una pedagogia delle masse che "se la canta e se la suona" sono, inevitabilmente, le mode: la loro regola era, fino a poco tempo fa, la trasgressione di un'altra regola dichiarata (e spesso in relativo disuso). Ma riferire la bontà di un comportamento col parametro del suo essere contrario ad un assunto originario crea un doppio speculare di tale assunto, spesso confermandolo e affermandosi come sua eccezione, oppure sostituendovisi senza aumentare di un millimetro il grado di libertà dell'individuo. Il primo di questi sviluppi è utile quando un sistema richiede, per mero calcolo di convenienza, due o più comportamenti contraddittori e complementari in modo da funzionare come ciclo chiuso. Accade così che il bravo impiegato razionale e previdente sia perfetto per accumulare denaro e produrre beni, ma che sia necessario lo spendaccione impulsivo e disordinato perchè il denaro non resti nelle casse di chi l'ha sudato e venga speso, spesso a sproposito, per i beni di discutibile necessità appena citati. Spesso (orrore!) i due lati sono talmente correlati da presentarsi come due atteggiamenti estrinseci, due maschere, dello stesso individuo, tendente al vuoto interiore. Il secondo sviluppo, che si potrebbe, riprendendo articoli di questo sito, sinteticamente chiamare "obsolescenza" è lo strumento ideale per superare la saturazione e la stagnazione di un pool di acquirenti. Poniamo che tutte le ragazze un minimo adatte a tale indumento si sono comprate la loro bella minigonna e ora, soddisfatte (orrore, dirà il venditore) non vedono il perchè di una seconda? Nel caso non intervenga la c.d. "obsolescenza programmata", ovvero la distruzione fisica del capo dovuta alla qualità estemporanea di materiali e lavorazione, niente paura! Torna fashion la gonna lunga! L'abominio, in ogni caso, è mutato ancora: a forza di sfruttare la trasgressione, essa si è come logorata e "questo e quello per me pari sono" è diventato il pensiero di fondo dell'acquirente superficiale. Lungi da declinarlo come rivalutazione alla pari di ogni forma di libera espressione e tendenza, i nostri venditori dell'inutile preferiscono vedere questa filosofia come una comoda esenzione dalla necessità, onerosa, di fornire motivazioni per un cambio, rendendo la vita di un capo di moda ancora più breve ed arbitraria. Sarà dunque ancora una volta la gretta forza dei numeri, che loro stessi possono imporre grazie a dei canali di distribuzione spesso oligopolistici ed uniformi, a contare. In altre parole si arriva al moderno concetto secondo cui l'appetibilità di un prodotto di tendenza è un parametro stabilito a priori dalla stessa persona che lo propone, un criterio a cui il cliente è chiamato ad adeguarsi pena l'ostracismo, rinunciando così al suo ruolo che è essenzialmente la scelta. Che dire? Quasi nessuno leggerà il mio lungo, analitico intervento, ma mi piaceva fornire, in armonia con uno spirito dei tempi che detesto, una descrizione il più possibile "scientifica" della cosa
Marco B., 18-07-2011 04:18
Sarebbe stato un articolo perfetto se solo si fosse proposto un modo PRATICO per sovvertire a questo sistema del lavoro. Modo che io credo ci sia.
Liberarchia.net, 23-09-2011 08:23
@MarcoB. Io invece l'ho letto il tuo ( troppo lungo) commento e l'ho trovato interessante e molto condivisibile soprattutto nella descrizione delle deviazioni consumistiche e markettare della cosiddetta produzione culturale, troppo spesso ormai ostaggio di logiche e finalità mercantili. Tutto tende a omologarsi, in una difficile opera di interpretazione critica delle proposte e in un'assenza di capacità argomentative, per cui non è la qualità del messaggio o la validità culturale dell'opera ad emergere, ma la sua forza di Comunicazione, la possibilità di avere alle spalle abili strumenti di "mercato" e a vendere. Il numero di copie e di ristampe segnano il successo fino ad arrivare al libro totalmente vuoto (non lo sono già tanti di contenuti?), acquistato soltanto per il nome dell'autore e la promozione mediatica. Che differenza c'è tra questo e la minigonna? A mio avviso nessuna. E che differenza esiste tra il lavoro schiavizzato e la mercificazione del proprio ozio? Se la logica guida rimane comunque la stessa, ossia "vendere sè stessi", fare "prodotto di massa e di moda" della propria opera manuale o intellettiva, utilizzando a questi scopi gli strumenti classici del Marketing, si è soltanto trasformata la propria schiavitù da collettiva a individuale. Atteggiamento molto trendy, come direbbero i comunicatori, ma terribilmente ipocrita, come se un pesce resosi fuori dal suo banco percorra comunque lo stesso fiume, ,la stessa corrente, si faccia agganciare dalle stesse "esche", ma si illude della sua diversità e ne fa motivo di orgoglio, quasi classista. Purtroppo di questi "pesci" sui banchi delle librerie se ne trovano molti.
Mario, 24-09-2011 11:24

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