Liberi dalla civiltà: un inno al primitivismo

“Liberi dalla civiltà” e “L'ultima era” sono i suoi libri, dal titolo evocativo. Lui, Enrico Manicardi, ha 48 anni, avvocato, appartiene da una vita al movimento libertario, amico del filosofo John Zerzan, di cose da dire ne ha tante, le ha condensate nei suoi lavori. Qui ce ne propone una provocatoria sintesi: l’analisi delle origini della società, degli errori strutturali, delle aspirazioni e della possibile “medicina”.

Liberi dalla civiltà: un inno al primitivismo

Nei tuoi libri parli di Primitivismo, di critica radicale alla civilizzazione e sottolinei che si tratta di una riflessione rivolta all’attualità: puoi spiegarci meglio?

Il Primitivismo è un’analisi delle origini della civiltà, del mondo in cui viviamo. E' un’analisi delle circostanze che hanno portato alla situazione attuale, una riflessione concentrata sull'attualità perché il Primitivismo non guarda al passato meno prossimo della storia umana da una prospettiva puramente accademica o retorica, ma cerca di trarre da questo nostro trascorso primitivo tutti gli spunti e le intuizioni possibili per cercare di rendere vivibile il presente che ci appartiene.

Quali sono questi spunti?

Per più di due milioni di anni abbiamo vissuto come raccoglitori-cacciatori nomadi, senza dominio, senza governi, senza sfruttamento, senza sovrastrutture ideologiche e culturali; e abbiamo vissuto vite libere, sane, serene, egualitarie. Questa non è un’utopia, ma un dato di fatto accertato “sul campo” e ormai riconosciuto anche dall’ortodossia scientifica. Studiando la vita dei raccoglitori-cacciatori nomadi ancora esistenti oggi e confrontando gli studi effettuati in tutte le parti del mondo, si è scoperto che i raccoglitori che hanno potuto preservare uno stile di vita originario vivono molto meglio di noi e godono di un'esistenza sostanzialmente libera, gioiosa e gratificante. Kevin Duffy, antropologo americano che ha vissuto per anni coi Pigmei Mbuti, l’ha riassunta così: «provate a immaginare un’esistenza in cui la terra, la casa e il cibo sono gratuiti, in cui non esistono dirigenti, capi, politica, crimine organizzato, tasse o leggi. Aggiungetevi il vantaggio di far parte di una società in cui tutto è condiviso, in cui non esistono né poveri né ricchi, in cui felicità non significa accumulo di beni materiali».

Cosa ci ha messo, secondo te, sulla strada di una distruttività sempre più ampia e accelerata?

Un cambio di mentalità. Circa diecimila anni fa abbiamo stravolto il nostro modo di vedere le cose: l’avvento dell’agricoltura, considerata l’atto di nascita della civiltà, è l’artefice di questo stravolgimento. Fino a quel tempo, e per centinaia di migliaia di generazioni, gli uomini avevano considerato la Natura un “soggetto”, una Madre (Madre Terra). La coltivazione ha stravolto quel paradigma perché ha fatto della Terra un oggetto. Con l’agricoltura la terra non è più qualcuno, ma qualcosa: qualcosa da manipolare, da sfruttare, da mettere a profitto. Una volta acceso il motore della reificazione (e cioè della trasformazione del vivente in cosa) la macchina civilizzata si è messa in moto e si è diretta verso una sempre maggiore reificazione di tutto e di tutti: dopo le terre sono stati reificati gli animali (nascita dell’allevamento), poi le donne (nascita della società patriarcale), poi i maschi (nascita della schiavitù, della servitù della gleba, del lavoro salariato). Oggi che questa ossessiva riduzione del vivente in cosa ha snaturato ogni elemento della Terra, noi uomini ci concepiamo come oggetti, ci trattiamo come oggetti, ci classifichiamo scientificamente così e come tanti oggetti ci sfruttiamo gli uni con gli altri. Tanto è vero che quel termine agghiacciante col quale definiamo la Natura, e cioè “risorsa” (che vuol dire appunto “capitale”, “cosa da sfruttare”), lo utilizziamo anche per definire noi stessi: i lavoratori sono diventati “risorse umane”, i migranti sono definiti “risorse economiche” e persino i bambini sono diventati “risorse del futuro”.

È questo il significato della crisi di oggi?

Certo, ma non solo. Oggi tutti parlano di crisi, tutti ne sembrano consapevoli, ma quel che sfugge, a mio avviso, è un fatto essenziale: la crisi che ci attanaglia non è una crisi nel mondo moderno, ma una crisi del mondo moderno; il suo naturale epilogo.

Pensi insomma a un problema strutturale del nostro stile di vita?

Dai tempi dell’avvento dell’agricoltura “usare”, “sfruttare”, “esaurire” rappresentano le sintesi concettuali che meglio descrivono il nostro modo di rapportarci agli altri e a noi stessi; oggi siamo arrivati a fine corsa. Non solo perché è rimasto assai poco da sfruttare, ma soprattutto perché questa mentalità ci sta traghettando verso l’autodistruzione. Il riscaldamento globale sta uccidendo la biosfera, le foreste pluviali vengono abbattute, i mari si stanno acidificando, l’aria è resa irrespirabile da ciminiere, inceneritori, nano-polveri, scie chimiche; aumentano le specie in via di estinzione; si fanno guerre ovunque. Allo stesso tempo la vita umana è sempre più passiva, litigiosa e artificiale. Come possiamo credere che questo stato di cose sia solo accidentale e passeggero? Come possiamo pensare che il problema che abbiamo sia nella morsa dello spread, nel PIL, nell’inflazione o nella politica immorale di questo o quell’altro partito? Io penso che si possa dire che abbiamo un problema che riguarda il nostro modo di vedere le cose, la nostra mentalità.

Esiste una "medicina" e quali potrebbero esserne gli ingredienti?

Questo è uno dei punti cruciali dell’analisi Primitivista, un punto che la distingue da ogni movimento alternativo. Prima di chiederci cosa fare, dobbiamo cominciare a porci una domanda ancora più importante: “Perché accade tutto questo?”. Pensare di risolvere un problema senza prima essersi domandati quale sia il problema è assurdo. Significa solo prendersela con i sintomi esteriori e questo fa parte del problema. I sintomi stanno dalla nostra parte: sono il segnale di un corpo sofferente che ci avverte dell’esistenza di un problema a monte. Se sopprimiamo i sintomi senza chiederci cosa li abbia generati – proprio come fanno tutte le medicine – non soltanto non risolveremo mai il problema a monte, ma ci precluderemo ogni possibilità di comprendere quale esso sia. Eppure, se ci pensiamo bene, viviamo in un mondo che ci condiziona tutti i giorni: di fronte al manifestarsi dei sintomi di un mal di testa la nostra preoccupazione è togliere il mal di testa, non capire perché l’abbiamo; di fronte all’alzarsi della temperatura corporea la nostra preoccupazione è abbassare la febbre, non capire perché si è alzata. Uguale facciamo nel campo sociale: di fronte al crescere di rifiuti urbani la nostra preoccupazione è come toglierli via da sotto il naso, non capire perché abbiamo cominciato a produrne così tanti; di fronte al crescere dell’inquinamento ecologico la nostra preoccupazione è come sopprimerlo con trovate geniali, non capire perché lo generiamo. Ecco perché dico che siamo arrivati a fine corsa e che il problema che abbiamo riguarda il nostro modo di vedere le cose. A forza di buttare la spazzatura sotto il tappeto, il tappeto sta ora per esplodere. Vogliamo continuare così? Vogliamo fare come ci suggerisce qualche furbetto quando ci consiglia di cercare un altro tappeto? Io penso che sia venuto il momento di cambiare registro: di cominciare a mettere in discussione la pratica di gettare la spazzatura sotto il tappeto e di provare a capire perché siamo indotti a fare in quel modo. Questo è lo spirito del Primitivismo.

Quali dunque le cause?

Per guardare alle cause di un problema c’è un solo modo: andare indietro fino alle sue fonti. In passato vi abbiamo provato, solo che, ogni volta che ci siamo imbarcati in questo viaggio a ritroso nel tempo, ci siamo sempre fermati troppo presto. Siamo talmente condizionati dalla nostra mentalità civilizzata che ci è sempre parso impossibile pensare a questa come alla causa di tutto. E allora abbiamo pensato che il problema fosse nei sintomi di questa mentalità: nella nascita della società dei consumi del secondo dopoguerra, per esempio, o nel sorgere dell’organizzazione di massa di inizio Novecento, o nel successo dell’industrializzazione del secolo precedente. Naturalmente, tutti questi fenomeni hanno contribuito a rendere il quadro attuale ancora più degradato, ma è sufficiente fermarsi agli inizi dell’Ottocento e alla nascita del capitalismo industriale per individuare le fonti della crisi di oggi? Io penso di no, anche perché l’autoritarismo e l’ingiustizia sociale c’erano anche prima del sorgere della società industriale, esattamente come c’era il sessismo (con le sue discriminazioni di genere), la politica (coi suoi imbonimenti e le sue illusioni), l’economia (con le sue logiche produttivistiche e la sua cultura della scambio). Prima dell’Ottocento c’era lo sfruttamento ambientale e l’inquinamento ecologico. Per non parlare poi della guerra o della schiavitù, che non sono certo delle invenzioni della società industriale. Se vogliamo guardare alle fonti della crisi di oggi dobbiamo andare ancora più indietro. E andando ancora più indietro si giunge necessariamente all’avvento della civiltà, e a quel cambio di paradigma di cui si parlava prima.

La tendenza alla distruzione del mondo è forse insito nella natura umana?

Questo è quello che si sente sempre affermare da tutti, compresi i leader dei movimenti alternativi. Ma è un modo di vedere le cose un po’ troppo riduttivo: serve solo a consolarci e ad assolverci, facendoci credere che il mondo triste, autoritario e tossico in cui viviamo sia inevitabile. Non è così. Se per più di due milioni di anni gli umani hanno vissuto vite libere, serene, gratificanti, e in soli diecimila anni sono arrivati fin sull’orlo del precipizio, mettendo a repentaglio la loro esistenza sul Pianeta e la vita stessa del Pianeta, il problema non è l’umanità. Non erano forse umani gli individui che vivevano nel Paleolitico? Non lo sono forse quei raccoglitori-cacciatori che ancora oggi vivono in perfetta armonia con la Natura? Non è l’uomo il problema del mondo, ma l’uomo civilizzato; ossia l’essere umano irreggimentato dalla civiltà: dalle sue categorie, dai suoi valori, dai suoi processi pervasivi che invadono la vita di tutti. Il problema, insomma, non è l’umanità ma la civiltà!

In questa visione delle cose non si rischia di idealizzare troppo la vita primitiva?

Idealizzare il nostro passato umano fino a trasformarlo in un mito è qualcosa di stupido, esattamente quanto credere a qualsiasi altro mito. Quando dico che per milioni di anni i nostri avi primitivi hanno condotto esistenze serene, stimolanti, sane, egualitarie, nel perfetto equilibrio armonico con la Terra e nella condivisione, non intendo dire che quelle vite fossero prive di vicissitudini e di problemi. Difficoltà e traversie c’erano senz’altro ed è facile supporre che fossero anche tante. Ma erano avversità rapportate alla capacità che gli umani hanno di affrontarle e di provare a risolverle: questo è ciò che fa la differenza. Un infortunio, un periodo di siccità, l’incontro ravvicinato con una belva possono essere fatali, ma restano pur sempre inconvenienti potenzialmente risolvibili se si può far affidamento sulle proprie preservate forze e capacità. Oggi, invece, i problemi che ci sono gettati addosso dal  mondo artificiale in cui viviamo non sono più risolvibili da nessuno di noi. Cosa possiamo fare contro lo scoppio di un reattore nucleare? Cosa possiamo fare di fronte alla colata a picco di una petroliera e all'ecatombe rappresentata da una marea di petrolio riversata in mare? Cosa possiamo fare contro il fatto che l’economia contempli l’esistenza di cicliche depressioni monetarie? Nulla. Abbiamo trasformato un mondo a “misura di natura” in un mondo alieno a noi stessi e alla Natura, e quello che possiamo fare ora è solo subirne le conseguenze: impotenti e rassegnati. Il nostro stato di costante infelicità, la nostra frustrazione quotidiana, lo smarrimento nel quale siamo confinati derivano anche dalla perduta capacità di saper far fronte ai problemi che ci coinvolgono e dall’umiliante necessità di dover dipendere sempre più passivamente dai ritrovati che ci vengono venduti come risolutivi.

La nostra vita, dunque, non è più nelle nostre mani?

Esattamente! È questa la grande differenza che fa della nostra vita moderna una triste e penosa pratica da sbrigare e della vita primitiva invece un'esistenza invidiabile, non l’assenza di drammi o problemi. I primitivi avevano (e hanno ancora) la loro sorte in mano, noi non più. Siamo in balìa degli effetti di quel costrutto artificiale che abbiamo sovrapposto alla Natura e che chiamiamo civiltà. Quando agli etnografi che vissero coi membri di comunità di raccolta e caccia fu chiesto quale fosse il carattere distintivo di uno stile di vita primitivo rispetto a uno civilizzato, la risposta fu unanime: l’autonomia. Ogni essere vivente, dalla felce all’elefante, è autonomo e autosufficiente: noi esseri umani civilizzati non lo siamo più. E non lo siamo più perché la civiltà è appunto un processo che tende ad espropriarci di tutte le nostre capacità di specie per metterci alla mercé dei suoi rimedi. L’economia ci ha tolto la capacità di saperci sostentare da soli e ci ha reso tutti dipendenti da essa; la tecnologia ci sta rendendo incapaci di compiere qualsiasi attività, anche la più fisiologica, senza la mediazione dei suoi strumenti; la politica ci ha insegnato a delegare ogni aspetto della nostra vita a qualcun'altro e ora sappiamo soltanto votare, incaricare, nominare qualcuno al posto nostro. La nostra esistenza non è più nelle nostre mani: dipende dal denaro e dalla schiavitù del lavoro; dipende dall’arrivo di una certa fornitura alimentare in un ipermercato; dipende dal fatto che un filtro antiparticolato funzioni, dipende da una connessione ad internet, da una presa elettrica. Non siamo più in grado di fare nulla con le nostre mani perché ci sono le macchine che lo fanno per noi; non siamo più in grado di fare nulla con le nostre gambe perché ci sono le auto che provvedono; non siamo più in grado di fare nulla nemmeno con la nostra testa perché ci sono i computer. Nel mondo civilizzato stiamo diventando disabili! O, com’è stato scritto: “siamo diventati polli in batteria: se s’interrompe il flusso del mangime, siamo tutti morti”. Se vogliamo provare a uscire da questo cerchio chiuso, allora, la prima cosa che possiamo fare subito è diventarne consapevoli. Ci raccontano che la civiltà ci ha reso più forti dei primitivi, mentre invece ciò che essa provoca è l’effetto diametralmente opposto: più ci civilizziamo, più dipendiamo dai servizi del Sistema e dunque siamo sempre più deboli, insicuri, bisognosi di affidarci a qualcuno o a qualcosa. La civiltà non ci ha liberato la vita, ce l’ha messa in gabbia: questa è la vera crisi!

Come uscirne?

Innanzitutto riconoscendo che siamo prigionieri, primo passo doloroso. Siamo stati educati a credere alla civiltà come a un processo d’emancipazione, irrinunciabile e nobilitante. Sentiamo fisicamente il bisogno di tutto quello che il mondo moderno ci offre: beni, servizi, denaro, potere. Ma abbiamo bisogno di tutto ciò solo perché siamo stati espropriati della capacità di vivere senza. Come potremmo fare oggi senza elettricità? Eppure solo due secoli or sono tutti ne facevano a meno. Come potremmo vivere senza cellulari e computer? Eppure solo vent’anni fa vivevamo lo stesso; e le nostre esistenze di allora, quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni non erano meno intense solo perché non esisteva Facebook, Twitter o simili. Noi crediamo di aver bisogno di tutte queste cose solo perché ne siamo stati resi dipendenti. In pratica, come aveva intuito perfettamente l’anarchico Errico Malatesta già nell’Ottocento, la questione della nostra prigionia è sempre la stessa: e cioè quella dell’essere umano legato che, essendo riuscito a vivere malgrado i ceppi, crede di vivere grazie ai ceppi. Noi non viviamo grazie ai rimedi della civiltà ma nonostante quelli e la capacità di rendercene conto è determinante.

Come definiresti questa condizione di dipendenza?

Domesticazione. La vita civilizzata non è un'esistenza libera a contatto con il mondo naturale: è una vita in cattività. Siamo diventati degli animali addomesticati: animali che sono stati appunto prosciugati di tutte le loro capacità di autosufficienza, resi dipendenti dai rimedi venduti dal Sistema e chiusi in gabbia. In questa gabbia dalle sbarre invisibili viviamo come derelitti: supplicando l’arrivo del guardiano di turno che ci venda la dose quotidiana di cibo industriale che ci distruggerà la salute; mendicando le prestazioni prezzolate del veterinario di turno che ci darà il colpo di grazia con le sue medicine, rendendoci sempre più dipendenti dalla loro somministrazione; agognando, come degli ebeti, l’arrivo di qualcuno che ci distragga con i suoi spettacoli da baraccone, con la sua pornografia, col suo gioco d’azzardo, o che ci faccia ridere con le sue sit-com. Si chiama appunto domesticazione ed è la fase successiva al dominio: finché costringo qualcuno a stare in prigione con la forza, lo comando; ma quando l’avrò convinto a starci volontariamente, l’avrò addomesticato. Non scapperà più, nemmeno se aprirò la gabbia in cui è recluso. Perché si crede fortunato, si crede libero.

Pensi sia possibile affrancarsi da questo stato?

Non è facile mettere in discussione radicalmente il proprio stile di vita, il proprio modo di pensare, di sentire, di agire, le proprie finte certezze di carta. Non è facile provare a uscire dalla gabbia nella quale siamo nati e nella quale sono nati i nostri genitori e i nostri avi da diecimila anni. Ma non abbiamo altra possibilità. Anche perché qui non si tratta soltanto di esser stati ingabbiati e resi inerti. Qui si tratta si essere stati ingabbiati sul vagone di un treno che procede impazzito verso il dirupo: se non ci affretteremo a provare a fermare questo treno, o quanto meno a scendere per provare a vivere senza i suoi servizi, finiremo anche noi nel baratro.

Insomma, occorre stravolgere l'attuale mentalità. Ipotizzi dei tempi perchè ciò possa accadere?

Il treno diretto verso il precipizio non corre a una velocità tale da rendere impossibile il salto. E poi si ferma spesso alla stazione, per raccogliere nuovi passeggeri. È di questo che possiamo approfittare: staccarci progressivamente dalla sua dipendenza per riabilitarci passo passo. La messa in discussione della nostra mentalità dovrà essere radicale, ma siccome sono diecimila anni che viviamo in cattività, prima di divellere le inferriate invisibili della gabbia in cui siamo costretti dobbiamo riabituarci alla vita libera e selvatica. E questo è un altro dei capisaldi del pensiero Primitivista. Come tutti i percorsi che mettono seriamente in discussione le vecchie basi d’appoggio, abbiamo bisogno di un periodo di transizione, che ci consenta appunto di riacquisire quelle abilità che ci sono state strappate; ma deve essere una transizione consapevole: occorre cioè sapere dove vogliamo andare e perché. Finché continueremo a credere che si possa fermare il treno stando seduti davanti a un computer, o aderendo a una campagna informativa, o seguendo il leader di qualche partito o movimento alternativo, tutto continuerà a procedere come sempre. Per liberarsi dal giogo della civiltà ci vuole ben altro di quanto la stessa mette a disposizione a coloro che ancora vi confidano. Dobbiamo avere la forza di opporre un rifiuto generale a un’esistenza determinata dal tecno-capitale: ritrovare la forza e il coraggio di rompere progressivamente i legami della nostra dipendenza da questo universo al collasso ritrovando man mano quell’autonomia che ci è stata sottratta. Più dipenderemo dai servizi della civiltà, più saremo costretti a difendere quella invece della nostra vita; al contrario, più riusciremo a fare a meno di tecnologia, economia, scienza, energia, potere, simbologia, più ci ritroveremo liberi e indifferenti ai suoi diktat.

Quanto c’è di utopico in questa idea Primitivista e quanto invece c’è di immediatamente realizzabile?

Non c’è nulla di utopico nel Primitivismo. È solo una questione di consapevolezza e di volontà. Se le persone si renderanno conto di essere in pericolo, alloggiate su questo treno ipertecnologico che corre verso il dirupo, potranno provare a far qualcosa per fermarlo o per saltarci giù prima che sia troppo tardi; se vorranno invece continuare a far finta di niente, se continueranno a oscurare i finestrini per non vedere fuori, a reclamare sedili più comodi e nuovi servizi in cuccetta, si troveranno sul treno quando questo si schianterà. Perché ci sono almeno due cose che mi paiono sicure: che questo treno non si fermerà da solo; che prima o poi accadrà qualcosa che sarà l’equivalente di uno schianto. A questo proposito, basti pensare alla questione della sovrappopolazione. Già oggi siamo oltre sette miliardi di persone sul Pianeta: una pressione ecologica abnorme che la Terra non è in grado di sopportare. Cosa facciamo? Invece di guardare alle cause del problema continuiamo a credere nel progresso e cioè a credere che una nuova tecnologia ci libererà dai danni provocati dalla tecnologia, che una nuova economia ci libererà dai danni provocati dall’economia, che un nuovo messia politico ci libererà dai danni causati dalla Politica e che una nuova energia pulita ci consentirà di continuare a consumare Madre Terra, ma in modo sostenibile. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: stiamo continuando a crescere per numero di abitanti e presto saremo otto miliardi, poi nove, dieci, quindici, venti… È ovvio dunque che presto o tardi qualcosa si verificherà: qualcosa di profondamente tragico e che ridurrà in modo drastico la popolazione mondiale. La domanda allora è semplice: quali saranno le persone che a quel punto si salveranno? Quelle che, nel frattempo, avranno imparato a vivere senza dipendere dai servizi del Sistema, magari ritrovando la capacità di dormire all’aria aperta, di non usare il riscaldamento durante l’inverno, di mangiare frutta e verdura cruda che sapranno riconoscere negli spazi aperti della natura, o quelli invece che senza la loro termocoperta elettrica proprio non riescono a prendere sonno? Non c’è nulla di utopico nell’idea Primitivista. Se sapremo farla nostra, quand’anche non dovessimo riuscire a fermare la locomotiva, ci saremo sicuramente dati le migliori possibilità per non farci trovare sul treno quando questo finirà nel vuoto. Tutto qui.

Dunque, dal Primitivismo non solo riflessione teorica, ma anche soluzioni pratiche?

Sicuramente, ma non bisogna confondere la praticità del pensiero Primitivista con l’idea che questo sia una sorta di programma predefinito pronto solo per essere seguito passivamente. La libertà non è un “modello” che qualche “illuminato” possa consentirci di raggiungere seguendo un certo schema pianificato. I santoni e i capipopolo fanno parte di questo Circo Massimo. Non esistono dunque ricette pronte né decaloghi da seguire; e il Primitivismo non vende rimedi, non propone manuali d’istruzione per l’uso e non ha nemmeno finalità generalizzate come quelle della liberazione dell’umanità dalle catene della servitù. Ogni individuo risponde di se stesso e per se stesso. È con le persone singolarmente infatti che ci si confronta, che ci si conosce, che si creano percorsi di affinità e momenti di complicità. Il Primitivismo non è un nuovo credo in cerca di fedeli. Le mie personali scelte di vita, il mio percorso umano di progressiva emancipazione dalla civiltà e d’indipendenza dai suoi rimedi (e dalle sue esche) non dipende dalle decisioni altrui. Naturalmente, se ci fosse qualcuno seriamente interessato al progetto di una progressiva decivilizzazione che io stesso sto conducendo, può sempre contattarmi: sono a disposizione per confrontare esperienze, per incontri e momenti di condivisione. E parlo della necessità di incontrarsi di persona perché anche questo è un modo di fare che dobbiamo recuperare: riabilitare l’universo caldo delle relazioni in carne ed ossa, dei sorrisi, delle chiacchierate faccia a faccia, dei contatti reali contro quello meccanico e freddo dei rapporti virtuali. L’erosione delle nostre capacità relazionali, infatti, è un altro passo fondamentale del processo di domesticazione che stiamo subendo. Quell’enorme “blob” tecnologico che avanza desertificando tutto ciò che tocca sta fagocitando anche la nostra attitudine ai contatti umani, e se non ce ne accorgeremo in fretta, iniziando a resistervi con determinazione, perderemmo presto anche quell’attitudine. Nel mondo della cybersocialità siamo sempre più isolati e separati da tutto e da tutti: non ci parliamo più guardandoci negli occhi; non ci incontriamo più personalmente; non viviamo più momenti improduttivi e di pura convivialità. Ormai abbiamo persino smesso di toccarci sensualmente: non ci stringiamo più, non ci abbracciamo più, non ci massaggiamo più. Nel mondo moderno non ci si tiene più per mano, nemmeno metaforicamente. Persino le madri hanno smesso di tenere in braccio i loro bambini: oggi ci sono i più pratici girellini, le carrozzine, gli ovetti e i baby parking.  Praticamente le nostre funzioni tattili sono ridotte oggi all’attivazione del sistema touch-screen dei nostri IPhone. Vogliamo fare finta che anche questo problema non esista?

Un dramma umano, dunque, oltre che sociale ed ecologico?

Io osservo la realtà, e quello che vedo lo possono notare tutti. L’insensibilità che stiamo maturando verso il contatto diretto è drammatica: e non è solo nel dilagante menefreghismo e nel cinismo che questo universo competitivo e conformante impone a tutti. L’insensibilità la si misura anche nelle piccole cose: nell’incapacità crescente d’immedesimarci negli altri, nella freddezza con la quale conduciamo tutti i nostri rapporti e, soprattutto, nel rifiuto di riconoscere questa nostra emergente insensibilità. Una mail va benissimo per scriversi o mandarsi informazioni, ma non per costruire relazioni umane solide e durature; allo stesso modo un sito web può essere utile per venire in contatto con certe idee, ma poi, se si vuole far nascere qualcosa assieme ci si deve mettere in gioco di persona. Siamo fatti di testa, non vi è dubbio, ma siamo anche fatti di corpo e di cuore e se non riabiliteremo pure quelli ogni altro passo sarà perduto. Come possiamo pensare di tornare a vivere in un contesto ecologico e sociale di nuovo caldo e accogliente se poi le nostre relazioni resteranno anonime, sfuggenti e distaccate come quelle che c’impongono le macchine? Dico sempre: decivilizzare noi stessi per decivilizzare il mondo. Partire da noi stessi è essenziale.

Gli errori che reputi più macroscopici degli ultimi 50 anni?

Tutti quelli che alimentano il problema fingendo di risolverlo. Ho appena parlato del rifiuto di riconoscere la nostra crescente insensibilità: mettere la testa sotto la sabbia è l’equivalente psicologico del buttare la spazzatura sotto al tappeto. Quando Paul Goodman parlava dei mali della nostro modo di vedere le cose ne citava uno che definiva “il male del non c’è più niente da fare”; io vi aggiungerei “il male del va tutto bene così” e, ancor peggio, “il male del mettiamo una pezza qua e tutto tornerà perfetto”. Le trovate della cosiddetta ideologia verde sono forse il caso più eclatante di quest’ultimo “male”. Come possiamo credere che per risolvere il disastro ecologico e sociale nel quale siamo tutti calati basti sostituire il PIL con il BIL, aggiungere il prefisso “green” all’economia o consolarsi con altri ossimori del tipo tecnologia a basso impatto ambientale, politica democratica, scienza etica, energia pulita? Come dice il mio amico Guido Dalla Casa, “l’energia pulita non esiste!”. E questo è un fatto che dobbiamo ficcarci bene nella testa. Per produrre quella che chiamano “energia pulita” ci vuole sempre tanta energia sporca e naturalmente nessuno ce lo fa notare. Per produrre biocarburanti, ad esempio, bisogna radere al suolo foreste millenarie e sostituirle con colture “dedicate” alla produzione di olio di colza, di cocco, di girasole. Per ottenere energia geotermica bisogna sventrare la crosta terrestre con trivelle potenti (che non sono certo fatte di carta riciclata) e rubare questa energia alla Terra, con tutte le conseguenze di tipo idrogeologico che ne derivano. Lo stesso vale per le pale eoliche, che devastano e consumano il territorio esattamente quanto i pannelli solari. Oggi tutti ci spingono verso queste fonti di energia “sostenibile”. Ma sostenibile per chi? Non certo per le migliaia di persone del terzo mondo che vengono costrette a lavorare 16/18 ore al giorno nelle miniere di silicio, coltan, bauxite, terre rare, ecc. La questione è molto semplice: per far funzionare un pannello solare, ad esempio, ci vuole (tra l’altro) il silicio, e per fare incetta di questo metalloide occorre estrarlo a forza dalla Terra; migliaia di uomini, donne, bambini ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia vengono ancora oggi schiavizzati a questo scopo e la Terra viene martoriata da questi scavi e da queste estrazioni. Allora, mi chiedo: che tipo di mondo vogliamo con le nostre rivendicazioni ecologiste? Vogliamo un mondo in cui poche centinaia di migliaia di Occidentali possano far mostra del loro finto ambientalismo da réclame basato sulla presenza di innovazioni costruite sulla pelle di migliaia di poveri lavoratori e bambini schiavizzati? Se è questo il “nuovo” mondo che vogliamo, io non ci sto! Questo mondo “verde” è assolutamente identico a quello grigio in cui già vivo: un mondo che sfrutta, consuma, addomestica e che porta conseguentemente a stare male.

È quello che nel tuo ultimo libro hai definito “il bluff della sostenibilità”?

Certamente! Pensiamo solo alla presa in giro del mondo “verde”, sono ormai cinquant’anni che dura. Negli anni Sessanta del secolo scorso, cominciarono col parlarci della Rivoluzione Verde, che avrebbe risolto il problema della fame nel mondo: era solo la scusa per far entrare i concimi chimici nell’agricoltura e arricchire le multinazionali che commerciavano in quel traffico. Negli anni Ottanta è stata la volta della Benzina Verde, che avrebbe risolto tutti i problemi di inquinamento ambientale: era solo la scusa per farci cambiare l'auto e farcene comprare una/due/cinque con la marmitta catalitica. Oggi parlano di economia verde, di tecnologia verde; e noi che facciamo? Ci crediamo ancora? Dobbiamo smettere di farci prendere in giro, smettere di fare la parte dei passivi creduloni e cominciare a guardare alle cause di ciò che ci sta portando alla deriva. Il problema non è questa o quella energia, è l’energia; non è questa o quella economia, è l’economia; non è questa o quella tecnologia, è la tecnologia; è la politica, è il potere. In una parola sola: il problema che abbiamo è la civiltà. Finché opereremo per cercare di sanare la civiltà, di renderla più verde e più sostenibile, non faremo altro che perpetuare la malattia fino a renderla terminale.

Quale messaggio vorresti che arrivasse ai tuoi figli e ai figli di tutti?

Un messaggio di resistenza per tutti. Non credo che sia stato superato il punto di non-ritorno. Sono convinto che si possa fare ancora moltissimo per fermare questa macchina mostruosa che chiamiamo civiltà, e per cominciare a vivere senza dipenderne. Ma occorre mettersi in discussione davvero e non soltanto per proclamazione di facciata: smettere di credere agli illusionisti della politica (e dell’antipolitica condotta in Parlamento) e cominciare ad agire dentro e fuori di noi per ristabilire quelle competenze d’autonomia e quelle relazioni sensibili che ci sono state rubate, e nelle quali risiede tutta la nostra possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. Un mondo libero e dignitoso, infatti, non è il mondo della schiavitù sostenibile, ma quello dell’indipendenza individuale, dell’autodeterminazione, dell’autogestione, dell’autosussistenza, della condivisione.D’altra parte, c’è una metafora molto chiara che descrive la condizione di grave pericolo in cui viviamo oggi: l’ha elaborata Bertolt Brecht quando ha scritto che stiamo segando il ramo sul quale siamo seduti. Quella che i media oggi chiamano “crisi” non è altro che la risonanza dei primi scricchiolii del ramo che sta cedendo. Se vogliamo evitare di finire di sotto non servirà segare più lentamente e nemmeno usare una motosega a energia solare. Bisogna smettere di segare subito e prendere la direzione opposta. Perché la civiltà, in ultima analisi, è proprio una follia. In un paragrafo de L’ultima era ho tracciato un profilo di questa follia, un excursus sulla vita delle principali civiltà antiche della storia: dalla Mezzaluna fertile all’Europa mediterranea, all’America precolombiana, all’Asia arcaica, all’Africa. Ebbene, tutte le antiche civiltà della storia sono finite male: sono scomparse, si sono estinte. E tutte secondo un iter che assomiglia in maniera impressionante a quello che stiamo conducendo oggi. Tutte di fronte al dramma ecologico e sociale portato dallo stile di vita agricolo (stratificazione sociale, sovrappopolazione, guerre intestine e di espansione, contaminazione ambientale, degradazione relazionale, ecc.), hanno reagito inventando trovate sostenibili. Naturalmente sono tutte fallite perché, come si è detto, sopprimere gli effetti di un problema non significa risolverlo ma soltanto perpetuarlo. Proviamo a smettere di guardare avanti, di correre in avanti, di credere a quel mito del futuro migliore che ci ha incatenato a un presente degradato e autodistruttivo, e incominciamo a tornare indietro. Oltre a scoprire che in quel modo si migliora notevolmente la qualità della vita, imparare a tornare indietro potrebbe presto esserci anche molto utile.

Chi volesse mettersi in contatto con Enrico Manicardi può scrivere, via posta a:
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Ciao Enrico Interessante la tua analisi con molti spunti condivisibili ma la critica alle rinnovabili è grossolana e inesatta e indebolisce un po' tutto il tuo discorso che invece avrebbe una sua coerenza. Solo per farti due esempi: il geotermico non è solo centrali ma anche impianti piccoli e domestici che non devastano la terra, così come l'eolico non sono solo impianti enormi ma anche micro generatori che aumentano l'autosufficienza e la decentralizzazione proprio dai grandi impianti. In questo senso puoi leggere un mio articolo di qualche giorno fa. In merito ai materiali che servono per fabbricare energie rinnovabili, in una drastica riduzione complessiva dello sfruttamento delle risorse in ottica di decrescita ne serviranno sempre meno e soprattutto non sarebbe il bieco sfruttamento che continuerebbe ad essere alimentato. Poi una ultima perplessità sul fatto che chi come te è convinto che solo ritornando allo stato primitivo sia la soluzione, non viva con chi è ancora allo stato primitivo. Giustamente noti le mille contraddizioni e non senso della civiltà ma anche tu la usi completamente, con la sua tecnologia, etc. Questo non lo scrivo per dire che quello che affermi è totalmente sbagliato o per dire che sei incoerente (chi nella nostra civiltà non lo è?) ma semplicemente perché se tutta questa civiltà provoca così tanta infelicità (ed è così) saresti più felice se abitassi e vivessi sempre assieme a chi ancora vive lo stato primitivo e quindi di felicità che descrivi. Di popolazioni che vivono in questo modo ce ne sono ancora, mi meraviglio che tu non sia fra loro abbandonando tutto, compresa quella tecnologia che usi per diffondere le tue idee. So bene che anche una persona civilizzata impara presto a vivere come un primitivo, quindi non dovrebbero esserci problemi per te. Grazie comunque per il tuo intervento sul giornale. Ciao Paolo Ermani
Paolo, 04-03-2014 04:04
paolo, scusami se mi intrometto ma il geotermico per quanto casalingo che sia ha sempre bisogno di un'industria che ne costruisca i componenti, e di specialisti che ne sistemino i pezzi quando questi si rompono etcetc. e poi, quest'energia verde a che cosa serve? ad alimentare altri macchinari (creati con il medesimo procedimento-sfruttamento) della natura.
carl, 05-03-2014 09:05
Sono perfettamente d'accordo con Carl. E' per questo, credo, che Manicardi parla di uno stravolgimento di mentalità.Fintanto che continueremo a considerare la natura come una risorsa da sfruttare, continueremo a sfruttarla: anche con il microeolico, con la geotermia a bassa entalpia, ecc... Anche l'invito che Paolo E. ha fatto di andare a vivere con i primitivi mi pare fuori luogo. Intanto perchè non è vero che si possa scegliere con chi vivere (primitivi o civilizzati) visto che i primitivi li abbiamo quasi tutti sterminati e messi nelle riserve; e poi perchè se tutte le persone critiche della civilizzazione andassero a vivere con i primitivi, chi la potrebbe fermare questa megamacchina che sta distruggendo il mondo?
Paolo, 06-03-2014 11:06
Ciao Carl, ciao Paolo In un ottica di transizione e decrescita non subita ma pilotata, si avrebbe una minore industrializzazione e tesa a sviluppare quelle tecnologie che riducano al minimo l'impatto ambientale cercando di imitare il più possibile i cicli naturali. Ci sono poi metodologie come la permacultura che lavorano con la natura e non contro la natura. In merito alla tecnologia, fra una centrale nucleare e un impianto solare o geotermico domestico c'è una bella differenza e non si possono certo equiparare o mettere nello stesso calderone. Nell'analisi di Enrico non mi pare ci siano alternative al ritorno ad essere primitivi cioè a vivere da raccoglitori e cacciatori, se, come afferma, la civiltà che ha creato la tecnologia attuale è tutta da rifiutare. Non è poi vero che non ci sia possibilità di scelta, popoli primitivi ce ne sono ancora e in ogni caso l'Italia ha molti luoghi naturali, boschi e varia dove è possibile vivere dei frutti della natura e di selvaggina. Non mi torna il discorso che si deve rimanere in questo sistema e usarlo, a maggior ragione se lo si contesta in toto e in più se ne si usa la tecnologia come quella informatica che è assai complessa ed è uno dei maggiori aspetti della odierna civiltà. Se è vero quello che sostenete, mi sembra coerente e giusto che più persone ritornano alla natura, in Italia o assieme ai popoli primitivi e più la "civiltà" si indebolirà. Per quanto io questa non la veda né una soluzione alla situazione attuale, né qualcosa di praticabile e realistico a livello ampio. Paolo Ermani
Paolo Ermani, 07-03-2014 12:07
Bellissima intervista. Sono sostanzialmente d'accordo con Enrico. Per quanto riguarda le energie cosiddette "rinnovabili", mi sembra che si possano prendere in considerazione solo in un'ottica di "transitorio di passaggio" e limitatamente ai pannelli solari termici (NON fotovoltaici) che, tra l'altro, possono fornire proprio l'energia di cui abbiamo bisogno, almeno alle nostre latitudini: il calore. Del resto, si potrebbe farne a meno. Per quanto riguarda la "libera scelta individuale" ci credo piuttosto poco, non siamo "individui autonomi e sceglienti" ma inseriti in complessi ben più grandi, anche mentali. In sostanza siamo ancora vittime del "Cogito. Ergo sum". Non possiamo "vivere come vogliamo". In pratica, il primo, vero, grande, insolubile problema è la mostruosa sovrappopolazione umana che affligge la Terra. In condizioni vitali e a tempo indefinito, il Pianeta non può sostenere più di due-tre miliardi di un Primate di 80 Kg (probabilmente molti di meno: quando abbiamo cominciato ad estrarre combustibili fossili -che giorno infausto! - eravamo circa un miliardo).
Guido, 07-03-2014 11:07
Buongiorno a tuti, trovo la disamina di Manicardi tanto dolorosa e straziante quanto aderente alla realtà, ma così rispondente al mondo reale da non esserci alcuna possibilità di smentire o contrastare. Sono anch'io dell'avviso che il primo passo da compiere sia quello della consapevolezza dello stato delle cose per poi chiedere a sè stessi che contributo si può dare di fronte ad ogni scelta nella quotidianità.
marina, 07-03-2014 11:07
Ho letto l'articolo. Quindi, il critico di Enrico Manicardi, rispondente al nome di Paolo Ermani (ma anche gli altri), non ha individuato, come elementi da contemplare nelle proprie riflessioni, neppure una di queste due domande: «Quanti di numero dovrebbero essere quelli dei più di 7 miliardi di esseri viventi a dover andare assieme ai popoli primitivi, per poter avere un "indebolimento" della civiltà?» (Una manciata di soli italiani farebbe il solletico all'Italia stessa e a tutta la "civiltà"!) Inoltre: «Dove dovrebbero andare, tutti quelli che aderissero al pensiero di Paolo Ermani con il suo illusorio pensare ad un "indebolimento della civiltà", se tutto il mondo è un'unico sistema suddiviso in "proprietà private" e non esiste più, %u2013 neanche a cercarlo %u2013, un solo cm² di territorio senza una sovranità nazionale e da potersi definire "libero"?» Tanto per citare due soli punti ... e tralasciando persino il problema di nutrirsi!
Francesco Presenti, 07-03-2014 01:07
L'interrogativo che suscita lo sferzante grido di verità di Manicardi è questo: Se la Civiltà è una terribile tragedia avviata verso la catastrofe, come è possibile uscirne ? Come si può pensare di riportare miliardi di persone dentro gli ecosistemi che ne ospitavano pochi milioni ? Tanti si chiedono qual è la Soluzione, la magica ricetta per superare la crisi ambientale e dare vita a un'era di armonia e rinnovata intimità con la Natura: la Decrescita? La Transizione? La Civiltà, fin dal modesto, ma già arrogante villaggio di agricoltori del Neolitico, è una macchina fatta per espandersi divorando risorse esterne: non è sostenibile come sistema chiuso. Una volta che la prima comunità umana è caduta nella trappola vegetale della cerealicoltura, i meccanismi estrattivi insiti nei cereali si sono moltiplicati su sé stessi in modo esponenziale, fino ad arrivare all'attuale Megamacchina globale e al turbo-capitalismo. E' un missile lanciato diecimila anni fa verso la colonizzazione dello spazio infinito, che si è rivelato irraggiungibile. Esaurita la sua spinta demografica ed estrattiva, il missile è entrato in una parabola discendente e ora sta in effetti precipitando verso il duro suolo terrestre. L'illusione di chi crede che la Civiltà possa essere riformata e salvata è che si tratti di un aereo dotato di comandi e che stia ancora volando, anche se il livello del carburante si avvicina pericolosamente al rosso. Essi in sostanza ci dicono: ok, stabilizziamo la quota, riduciamo la velocità e mettiamo pannelli solari sulle ali. Così salveremo le nostre belle città e il nostro comodo tenore di vita, che ci rende civili e quindi veramente umani. Ma un missile non è fatto per volare, non ha nemmeno dei veri comandi per regolare la traiettoria: siamo tutti prigionieri al suo interno e stiamo già precipitando verso un collasso inevitabile. Possiamo solo prepararci all'impatto, vedendolo come un'opportunità unica di uscire dalla trappola urbana e riconquistare la nostra perduta dignità e autonomia, l'integrazione nelle comunità e nella Natura che ci rende veramente umani. Queste dimensioni fondamentali, che ci sono stati amputate fino a ridurci ad avidi bambocci petulanti, sono molto più importanti della durata dell'esistenza e della sua comodità, da cui siamo ossessionati proprio perché siamo avidi bambocci inetti, oppressi dalle fobie, isolati e spauriti. I pannelli solari non mi entusiasmano, perché io non abbocco più alle esche miracolose che mi hanno portato fin qui, rendendomi schiavo della mia paura. La corsa alle tecnologie "verdi" è il patetico tentativo di lanciare l'estrema orgia estrattiva-consumistica contro un pianeta esaurito, in un mercato strabordante e sazio. L'impronta ecologica di questa corsa a sostituire auto, elettrodomestici, edifici, impianti è nell'immediato ovviamente negativa: solo dopo anni di impiego diventerà un vantaggio, quando ci imporranno di sostituirli un'altra volta col ricatto del collasso economico. Economico o ecologico, il collasso sarà a quel punto comunque inevitabile. Moriremo di fame, di freddo? E allora? Non c'è nulla di indegno nel morire, tutti dobbiamo farlo, ma qualcuno sopravvivrà e potrà reincarnare la saggezza dei suoi remoti antenati, rendendosi così nuovamente e completamente umano. Fiero della sua nuda intimità con la Terra e della sua ritrovata autonomia. E' questo che conta.
michele vignodelli, 07-03-2014 10:07
Questo articolo è molto interessante perché solleva una critica diretta e ahimé spietata nei confronti della civiltà moderna, critica che è ineccepibile e quindi non risparmia nessuno di no, dato come vanno le cose e dato che i Nativi dell'America del Nord (non i Maya e non gli Anasazi però) o gli Aborigeni o i Boscimani non hanno mai alterato in modo evidente l'ambiente in cui vivevano. E' innegabile che la civiltà abbia anche portato a dei notevoli progressi dal punti di vista umano, ai Michelangelo o ai Shakespeare, è però vero che data la sua struttura punta verso una maggiore specializzazione e quindi, a livello di massa, a un impoverimento umano (il "selvaggio" sa badare a sè stesso, è un ottimo artigiano e padroneggia anche la parte più creativa di sé, raccontando storie e personalizzando ogni fase della propria vita, il moderno cittadino è invece un automa, imprigionato nel sistema e che ha visto scomparire la propria creatività, la propria essenza nel momento in cui è entrato in una scuola - che ha il compito di formare un lavoratore/consumatore). La Civiltà andrebbe rimodulata per raggiungere quella sostenibilità che è sempre più necessaria (certo non sarà facile dato che stiamo andando verso gli 8 miliardi e soprattutto la difficoltà con cui la cultura dominante ascolta queste considerazioni). Per quanto riguarda il primitivismo, bè occorre tutelare subito chi vive ancora in quel modo, salvaguardando il loro territorio dal contatto con la "civiltà" (dai turisti alle compagnie minerarie). Più difficile, ma anche più affascinante la possibilità di creare zone d transizione, ovvero territori in cui dare la possibilità a chi lo volesse, di tornare a vivere una vita semi-primitiva.
Manuel Castelletti, 09-03-2014 03:09
ciao Paolo E., legittimare una tecnologia meno-peggiore di un'altra non porta alla soluzione del problema, lo spiega bene Manicardi (segare il ramo sul quale siamo seduti con una "sega solare" non ci risparmia dalla caduta). non difendere chi ti opprime è il primo passo (o forse è accorgersi dell'oppressione?)..perchè sennò mi sembra di leggere: "vabbè mi punzecchia soltanto, mica mi mena!"... riguardo l'"andare a vivere nei boschi" sarebbe molto bello, ma mi fa capire che non c hai mai davvero pensato perchè ti saresti accorto che farlo non è più possibile (grazie proprio alla civiltà). uno dei tantissimi motivi è che TUTTO è proprietà privata. tu dici: prenditi un pezzo di terra. io dico 1)potrei non volerla la proprietà privata, ma non posso non volerla se volessi fare una vita del genere. 2)anche lo facessi quella terra non sarebbe comunque mia dato che devo pagarci le tasse di proprietà per il resto dei miei giorni (anche se non avessi elettricità, anche se non avessi acqua corrente...) insomma: la proprietà privata è un'illusione. anche con la permacultura bisogna stare attenti dato che anche lei contempla lo sfruttamento delle risorse energetiche, degli animali, la manipolazione del suolo, delle acque. quello che, a mio parere, è il più vicino alla natura è quella detta del non-fare (di fukuoka ad esempio, o del food-forest, anche se, pure lì non m è capitato raramente di vedere la brama del dominio in molti insegnanti di tali metodi). ciao!
carl, 09-03-2014 04:09
Ciao Francesco Credo che le cose vadano lette con attenzione prima di scrivere inesattezze e grossolanità. Io non sono "il critico" di Manicardi perché ho apprezzato molti suoi spunti e ho espresso un paio di dubbi che non mi tornano circa il suo discorso. Poi forse non accorgendotene hai esattamente confermato quanto da me scritto e se leggi bene il mio precedente commento vedrai che scrivo che ritornare allo stato primitivo a livello di massa non è realistico e fattibile anche per i motivi che tu stesso indichi. In ogni caso finora nessuno ha risposto, tantomeno Enrico, a due questione a mio avviso fondamentali e cioè, cosa faccio concretamente una volta che ho cambiato mentalità e come faccio a dire che la civiltà e tutto quello che ha prodotto compresa la sua tecnologia, che sfrutta, distrugge è assassina, etc e poi mi servo della stessa quotidianamente in moltissime forme tra cui quella assai complessa come l'informatica. In questo modo oltre che fare una vita di sicuro lontana dalle proprie aspirazioni primitive, si rischia di essere poco credibili. Un cambiamento per essere tale deve essere appunto credibile, realistico e praticabile anche su larga scala altrimenti rimane pura teoria.
Paolo Ermani, 08-03-2014 11:08
si, ho incasinato qualche verbo ma credo che il succo del discorso sia chiaro. (per la cronaca: ero un pò scocciata perchè ho dovuto riscrivere in toto il concetto, dato che quello precedente era stato cancellato da un semplice click sbagliato...sarà l'avversione alla tecnologia che mi si ritorce contro.) ciao Paolo E. mi chiedo: li hai già letti i libri di Enrico M.?
carl, 10-03-2014 10:10
paolo ermani, una volta riconquistata la coscienza (liberandoti da tutta la finzione in cui si vive di solito) basta che segui quello che hai voglia di fare.
rdrgstgrtx, 12-03-2014 08:12
Amici miei, sono 12.000 anni che dalla pancia della mamma alla tomba i padroni del gregge umano ci usano come bestie da macello. Finché accetteremo le loro logiche, i loro sistemi, la loro economia e le loro scellerate ideologie continueremo ad esserne schiavi e contribuiremo a distruggere il nostro pianeta. L'animale-uomo non ha bisogno di civiltà né di tecnologia, come ogni altro animale necessita solo di buon cibo per essere sano, un riparo per la notte, la sua famiglia naturale, una società piccola e coesa che una volta si chiamava tribù in un ambiente intatto e incontaminato dal quale prendere ogni giorno lo stretto necessario per sopravvivere e nient'altro. Se tuttavia vi sta bene lo stato di addomesticamento nel quale siamo confinati dovete accettare il pacchetto completo: malattie, miseria, sofferenza, falsità, droga e disperazione esistenziale. Se non siete capaci da soli di aprire gli occhi e vedere la realtà è sacrosanto che vi fottano e sbagliate a lamentarvi. http://www.slideshare.net/giovannicianti
Giovanni Angelo Cianti, 12-03-2014 10:12
"L'ultima era" è un libro che si legge e si rilegge con la necessità di non sentirsi sbagliati nella nostra critica al mondo civilizzato di cui, purtroppo, facciamo parte anche noi con i nostri limiti di autonomia e le nostre contraddizioni. E' infatti uno di quei testi che si leggono lentamente sottolineando i punti che riteniamo essenziali. Farci sentire sbagliati è del resto il messaggio continuo e costante che ogni moderno sistema di dominio ci trasmette energicamente. Come se la puzza dei gas di scarico, il cibo alterato, la chimica e il nucleare nella nostra quotidianità, la televisone spazzatura, la mancanza di rapporti senceri e diretti, l'inquinamento capillare e diffuso fossero questioni puramente teoriche, estranee alla nostra vita. La crititca radicale primitivista ci da invece la percezione di quanto abbiamo perso nei piaceri vitali in piena sintonia con il respiro della natura, ora costretti ad una esistenza fondata sul sacrificio e la sofferenza nel nostro ruolo di animali addomesticati dalla civiltà tecno industriale. Solo l'individuo critico e capace di sviluppare una sensibilità antiautoritaria e antitecnologica può incamminarsi nella direzione opposta a quella imposta dalla'attuale tecno-mondo imperante. E' un sentiero difficile da percorrere, abbandonando una vita condizionata dalle comodità e sicurezze con cui ci hanno circondato. Una vita narcotizzata estranei ad ogni processo decisionale e con la stupida illusione di poter scegliere più o meno liberamente. Diventa esigenza primaria ritrovare altri individui che vanno nella nostra stessa direzione e con cui condividere situazioni, convivialità, azioni dirette, resistenze, alla ricerca di immediate e concrete forme di autonomia contro e al di fuori delle perverse ideologie della megamacchina globale. E' il conflitto tra la massiccia guerra psicologica della civiltà e del suo assolutismo contro azioni creative e piccoli esempi concreti di cui possiamo essere capaci nel riprenderci frammenti di vita naturale nel corretto rapporto, in simbiosi, con l'ecosistema del Pianeta. A volte basta veramente poco per de-condizionare la mente delle persone tecno-dipendenti che abbiamo intorno. Resta la scarsità di humus indispensabile per fertilizzare e diffondere le nostre idee da proporre alla moltitudine di individui che vivono, sì in nostri stessi malesseri, senza però aver sviluppato gli anticorpi della critica radicale. Spesso, nel nostro militantismo, pur mosso dalle migliori intenzioni, ci si ghettizza nel ruolo di "addetti ai lavori". Cerchiamo di stimolare tutti coloro che in buona fede sono ecocompatibili con la civiltà e che potrebbero invece muovere i primi passi nella direzione del selvatico, o almeno vederne le ragioni. Nessuno sconto agli eco-furbi di turno, agli ecostenibili di comodo e ai soliti marpioni della politica riverniciatisi di verde. Creare situazioni, momenti di confronto, contaminazioni, stimoli, dovrebbero essere le priorità nel nostro futuro immediato. Un futuro forte di un passato come cacciatori-raccoglitori.
piero euge, 24-03-2014 06:24

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