Alle radici della cultura della crescita c'è la cultura del dominio

Praticata a colpi d'armi o con la forza dell'economia la cultura del dominio ha assunto diverse sembianze nel corso della storia e fino ai nostri giorni. Secondo l'archeologa Marija Gimbutas per rintracciare le radici di questa ideologia bisogna risalire all'epoca remota in cui la cultura dell’Antica Europa venne contaminata dalla visione kurgan, esaltatrice dell’espansione e della guerra.

Alle radici della cultura della crescita c'è la cultura del dominio
La recente pubblicazione in Italia di una raccolta di saggi di Marija Gimbutas [1], l’archeologa che più d’ogni altro ha contribuito a far luce sulle vicende che determinarono il corso della storia europea ai suoi albori, offre lo spunto per una riflessione sulle radici della cultura della crescita e del dominio con i cui devastanti effetti oggi ci troviamo ad avere a che fare. Siamo nell’anno 4.500 a.C. e l’Europa è popolata da una cultura contadina dedita all’agricoltura, stabile e pacifica, che non conosce classi sociali ed eserciti e che venera la figura della Grande Dea, divinità della terra e della fertilità. È l’insieme delle società che la stessa Gimbutas ha definito 'dell’Antica Europa', chiamate poi da Riane Eisler 'gilaniche', dall’unione dei prefissi usati per indicare il femminile e il maschile, gi e an, tramite l’iniziale del vocabolo inglese linking (connessione) a indicare il ruolo egualitario che vi svolgevano i due sessi. A partire da quell’epoca e, a varie ondate, per tutto il millennio successivo, questa cultura fu progressivamente cancellata dalle invasioni di un popolo proveniente dalle steppe asiatiche e portatore di una cultura del tutto diversa: i kurgan, dediti all’allevamento nomade, guerrieri, con una struttura sociale patriarcale, fortemente clanizzata e gerarchizzata, portatori di una religione basata su dei guerrieri. Marija Gimbutas pone fortemente l’accento sulla natura nettamente antitetica di queste due culture e già questo solo fatto, afferma, "testimonia della collisione, ovvero del carattere invasivo degli indoeuropei rispetto all’Europa". Non è possibile che la cultura successiva sia stata generata per normale evoluzione storica dalla precedente, tanto esse sono diametralmente opposte e intrinsecamente conflittuali. La cultura dell’Antica Europa, ereditata dal paleolitico ed evolutasi lungo i due millenni precedenti l’inizio delle invasioni kurgan, era "centrata sull’interazione armoniosa degli uomini con la natura e sulla complementarietà dei rapporti fra uomini e donne. I simboli antico-europei sono intimamente legati alla terra umida, alle sue acque generative, agli organi procreativi femminili; sono simboli ciclici come la luna e il corpo femminile (…). Il tema principale del simbolismo della dea antico-europea è il mistero della nascita, della morte e del rinnovamento della vita, mistero che riguarda non solo la vita umana ma tutta la vita sulla Terra. (…) Essa traeva forza dalle sorgenti e dai pozzi, dalla luna, dal sole, dalla terra, dagli animali e dalle piante. Le sue funzioni fondamentali erano dare la vita, governare la morte, rigenerare". La cultura kurgan ha elaborato un sistema di credenze completamente diverso, un’autentica mistica della guerra "orientata sul cielo, con i suoi dei guerrieri armati a cavallo, signori del tuono e del fulmine, o le sue divinità degli inferi acquitrinosi, la sua strutturazione polare del mondo (giorno/notte, splendente/buio, maschio/femmina). (…) Il pantheon proto-indoeuropeo era organizzato secondo un’ideologia socialmente ed economicamente orientata: le classi dominanti, quella dei sovrani, dei sacerdoti, dei guerrieri, erano adatte al ruolo predominante della pastorizia in un’economia ad allevamento misto, con particolare enfasi sul cavallo. Le più importanti divinità maschili montavano a cavallo e portavano armi (…) splendenti. D’altro canto il dio della morte era un dio infero oscuro e spaventoso. Gli indoeuropei glorificavano la velocità della freccia e della lancia e l’affilatezza della lama. Il tocco della lama dell’ascia risvegliava le potenze della natura e trasmetteva la fecondità del dio; con il tocco della punta della sua lancia, il dio della morte e degli inferi destinava l’eroe a una morte gloriosa". Anche il senso del tempo delle due culture è nettamente contrapposto. Nella cultura antico-europea si ha la visione di un tempo circolare, statico, derivata dall’equilibrio dei cicli naturali e funzionale a una società e un’economia fondate sull’agricoltura, a sua volta in equilibrio con se stessa e con l’ambiente circostante. Negli indoeuropei "il tempo era concepito come un movimento progressivo inesorabile, come la traccia lasciata da una ruota", funzionale al contrario a una società e un’economia basate sull’allevamento e dunque necessariamente in continuo, aggressivo divenire nella ricerca di territori sempre nuovi per il pascolo delle numerose mandrie. Una cultura esaltatrice della vita, stabile, dedita ad attività pacifiche e una cultura invasiva, esaltatrice dell’espansione e del dominio attraverso lo strumento della guerra, che cancella la prima e ne prende il posto. Questo è l’atto di nascita della cultura europea quale nei cinque millenni successivi è stata, espandendosi fino a divenire la cultura dell’intero Occidente, e quale noi la conosciamo oggi. Perché il dilagare verso occidente di quella che Rifkin chiamò "la cultura della bistecca" [2] non è un episodio temporalmente confinato agli albori della storia; impadronitisi dell’Europa e divenuti essi i nuovi europei, i kurgan continuarono la loro espansione nei millenni successivi dando vita nel tempo ai regni micenei, all’effimero impero di Alessandro il Macedone, al più duraturo impero romano e poi, dopo la stasi del medio evo, all’epoca delle cosiddette 'grandi esplorazioni', che aprirono la porta a due secoli di colonialismo, militare prima ed economico poi, giunto a compimento oggi con la 'mistica' della crescita illimitata e della globalizzazione. Seimila anni vissuti sotto la cappa di piombo di una pressante cultura del dominio praticata di volta in volta con la forza delle armi o dell’economia. Seimila anni che sono stati, e sono, un’unica guerra. Per capire quanto dell’antico pastore nomade che si vestiva di pelli e consumava riti di sangue attorno al fuoco degli accampamenti ci sia nell’attuale uomo occidentale in giacca, cravatta e ventiquattrore, basterà soffermarsi sul costante ricorrere di esaltazioni del valore della guerra come strumento di affermazione di una società cui oggi ci troviamo di fronte. In un recente articolo apparso sul Corriere della Sera [3] Paolo Mieli, sulla scia dello storico Conor Kostick, esalta il ruolo positivo che le crociate ebbero per la società europea. Dopo aver tracciato un riassunto del susseguirsi di atrocità e beghe per miserabili interessi personali da cui il Kostick ritiene di poter dedurre la "forza ideologica di quell’esercito", Mieli conclude che fu quel susseguirsi di guerre a portare "l’Europa cristiana a proiettarsi fuori dai propri confini" o, per dirla meglio, ad avventarsi su gran parte del mondo esterno per farne razzia. Pochi giorni dopo, sullo stesso quotidiano, Giovanni Berardelli trae spunto da un’azione propagandistica di un politico italiano in Afghanistan per imbastire un elogio delle "inimitabili" azioni militari del 'poeta guerriero' Gabriele D’Annunzio in veste di aviatore, "quasi la reincarnazione, in veste tecnologicamente moderna, degli antichi cavalieri" e per ricordarci che egli, dopo il noto lancio di volantini su Vienna, "confessava di temere la fine della guerra e di voler tentare a ogni costo qualche altra grande impresa" e poiché era davvero bravo "nemmeno un anno dopo avrebbe occupato Fiume" [4]. L’ideologia del dominio sviluppatasi in quella lontana fase della storia pervade ancora oggi così fortemente la cultura contemporanea che ritroviamo i suoi paradigmi perfino in alcune espressioni di apparente critica radicale. Ad esempio nell’antiprogressista Massimo Fini, che nel suo libro Elogio della guerra ne fa una esaltata (e non esaltante) agiografia: "La guerra ha avuto un ruolo determinante nella storia dell'uomo. (...) consente di liberare, legittimamente, l'aggressività naturale, e vitale, che è in ciascuno di noi. È evasione dal frustrante tran tran quotidiano, dalla noia, dal senso di inutilità e di vuoto che, soprattutto nelle società opulente, ci prende alla gola. È avventura." [5] Tuttavia, più che di cancellazione della cultura antico-europea Marija Gimbutas preferisce parlare di ibridazione. "Gli Indoeuropei prevalsero - scrive - ma gli Antichi Europei sopravvissero come un fiume carsico". Di questo fiume fece parte, in epoca storica, la civiltà minoica e possiamo con buona dose di verosimiglianza affermare che ne siano espressioni, nel mondo contemporaneo, quelle componenti sociali che non si riconoscono nella cultura dominante e che si manifestano nei movimenti per la nonviolenza, l’ambientalismo, la decrescita e (laddove esistono) l’antispecismo. Se da qualche parte possiamo aspettarci che giunga una nuova, significativa svolta nella storia, è a essi che dobbiamo guardare. Note [1] Marija Gimbutas, Kurgan. Le origini della cultura europea, Medusa, 2010 [2] Ho trattato le invasioni indoeuropee sotto questo aspetto nell’articolo Il nucleare dell’alimentazione [3] Paolo Mieli, Crociati prima delle crociate. La lunga epopea trascurata, Corriere della Sera, 16 novembre 2010 [4] Giovanni Berardelli, Il gesto “inimitabile” del poeta soldato, Corriere della Sera, 25 novembre 2010. [5] Massimo Fini, Elogio della guerra, Marsilio, 1999

Commenti

Grazie, grazie mille per avermi fatto conoscere questa teoria, vado immediatamente a procurarmi il libro di Gimbutas! Da anni lavoro/iamo proprio su questo. Pazzi sociologi che sono contro la società! Paradossi della scienza, o forse è la vita che ti spinge a cercare sempre in nuove direzioni, quando ciò che ti circonda lo trovi profondamente ingiusto. Vi suggerisco perciò anche questo libro: Paolo de Lalla Millul, "Evoluzione 2", Salerno Editore, Roma, 2001. A disposizione per una recensione se lo ritenete utile, felice di contribuire a questo nuovo giornale on-line che mi sta dando tantissimi spunti importanti. Grazie ancora, Aurora
Aurora, 03-12-2010 10:03
Non concordo con alcune considerazioni contenute nell'articolo. Marija Gimbutas, indubbiamente studiosa di grande valore, rappresenta solo una delle correnti di pensiero riguardanti il periodo delle grandi migrazioni indo-europee e caucasiche verso l'Europa centro-occidentale; per un'analisi completa bisognerebbe considerare tutte le teorie in merito. Inoltre c'è qualche inesattezza nella descrizione della società indoeuropea, che così rappresentata sembra caratterizzata da un classismo ante litteram. In realtà le tre caste fondamentali della società erano quella sacrale, il sacerdote, quella guerriera, il guerriero, e quella produttiva, il contadino. Fra le tre c'era un'assoluta parità e tutte erano considerate fondamentali nel mantenimento dell'equilibrio comunitario (a tal proposito si veda "L'ideologia tripartita" di Georges Dumezil). Indubbiamente poi l'indole indoeuropea era votata alla conquista, ma in un'ottica storica e antropologica non credo che questa sia necessariamente una caratteristica negativa. Personalmente distinguo fra il progresso di cui è portatore l'ideologia della crescita, ispirato a una concezione lineare (che NON apparteneva affatto ai popoli indoeuropei) e visto come obiettivo fine a sé stesso, e il progredire, la spinta prometeica al miglioramento e alla crescita non materiale ma spirituale e culturale a cui l'uomo deve legittimamente ambire. È questo tipo di crescita, piuttosto che quella di stampo iper-liberista, che io vedo nell'animo indoeuropeo. Infine mi trovo d'accordo con le tesi di Massimo Fini sulla guerra: si tratta di un istinto ancestrale che risiede naturalmente non solo nell'uomo ma in qualsiasi specie animale. La visione negativa della guerra che abbiamo oggi è stata comprensibilmente influenzata dalle numerose implicazioni negative che essa comporta (guerra strumento di dominio, mancanza di un codice etico, sfogo per le pulsioni più inumane e così via), ma non dobbiamo dimenticare che, con caratteristiche radicalmente opposte, il conflitto e lo scontro è sempre stato una parte importante delle grandi civiltà del passato, anche di quelle che vengono assunte a modello a cui ispirarsi (penso ad esempio ai nativi americani). La guerra in senso lato, ovvero il conflitto per la sopravvivenza, è d'altronde parte integrante della vita animale. Addirittura in molti contesti la guerra fu vista come reazione all'affermazione di quei disvalori borghesi tipici della cultura della crescita (penso ad esempio alla Rivoluzione Conservatrice del primo novecento), disvalori che a ben vedere collimano con quelli della tranquillità, dell'assenza di ambizioni e della staticità che secondo i sostenitori dell'ideologia della crescita caratterizzano l'idea di decrescita. Sappiamo bene che non è così: la decrescita non è staticità, non è involuzione, non è assenza di ambizioni, non è rifiuto della tecnologia, non è mancanza della voglia di migliorarsi. Eppure credo che un obiettore della decrescita leggendo questo articolo troverebbe terreno fertile per assestare proprio questo tipo di critiche, per dire che i decrescitisti sono persone che non hanno aspirazioni né ambizioni. Ovviamene non è così.
Francesco, 03-12-2010 11:03
Concordo pienamente con Filippo, bellissimo articolo. Francesco, Marija Gimbutas ha documentato le sue teorie molto bene, cosa che non hanno fatto con altrettanta ricchezza di approfondimenti gli altri storici che scrivono di quel periodo..perlomeno, nessuno aveva prodotto una tesi così fondata e documentata e nessuno è riuscito finora a confutarla con basi solide. Come si fa ad accomunare ambizione e desiderio di migliorarsi all'istinto violento di guerra e sopprafazione? non vedo alcun collegamento tra queste due cose..i nostri pensieri sono a tal punto colonizzati da una visione del mondo antropocentrica e gli unici valori esaltati da questa cosiddetta "civiltà" sono quelli mascolini, così ci ritroviamo a pensare che la guerra sia necessaria e che sia eredità inevitabile della razza umana e di tutto il regno vegetale. Non è così, non siamo sempre stati così, anzi la Gimbutas ci insegna che lo siamo da così poco..è la dimostrazione che non è la nostra vera natura,e possiamo ritornare ad essere pacifici come siamo stati un tempo.
Annalisa, 03-12-2010 03:03
Articolo interessante che finalmente ci riporta alle nostre radici e a cui affiancherei anche gli studi della storica e archeologa Riane Eisler che ha indicato con il neologismo gilania - dalle parole greche gynè, "donna" e andros, "uomo" (la lettera l tra i due ha il duplice significato di unione, dal verbo inglese to link, "unire" e dal verbo greco lyein o lyo che significa "sciogliere" o "liberare") - quella fase storica plurimillenaria (8.000-2500 a.c in rapporto soltanto al neolitico) fondata sull'eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di gerarchia e autorità, di cui si conservano tracce tanto nelle comunità umane del Paleolitico superiore quanto in quelle agricole del Neolitico. Il tutto con buona pace delle "presunte" radici cristiane dell'Europa.
Renato, 04-12-2010 05:04
FINALMENTE! Sono anni che ho compreso che dietro la crescita infinta c'è il modello di dominazione contrapposto al modello mutuale, ed è spiegato benissimo da Riane Eisler, sempre basandosi sul lavoro di Gimbutas, nel "Il calice e la spada". Ecco una sintesi del suo lavoro: http://germanuscaput.blogspot.com/2009/01/modello-mutuale-e-modello-dominatore.html Spero che questo legame sia compreso da tutti i decrescentisti, come la questione della gilania, in quelle società non c'era contrapposione tra generi (maschile/femminile) che invece è radicata nella nostra società dominatice.
Germano Caputo, 04-12-2010 11:04
Sto leggendo un interessante articolo di Eisler e ho una domanda: quindi, secondo Eisler, la cultura agricola è portatrice di gilania e quella nomade-pastorizia di andocrazia? Grazie a chi vorrà rispondere, Aurora
Aurora, 05-12-2010 01:05
Aurora: parlando di quelle popolazioni si, ma non si deve farne un dogma. Alcuni anarchici considerano l'agricoltura organizzata il primo passo verso la dominazione della natura che ha consentito un eccesso di beni, il furto, la proprietà privata, l'allargamento all'idea di dominazione degli animali e degli altri simili. Meglio evitare di considerare il male attività o strumenti perchè ciò che conta è l'impronta culturale che c'è dietro, una lama può servire a costruire attrezzi utili o ad uccidere, una vaso può portare acqua o veleno, ecc In questi anni in cui ho ricercato le cause di quanto avviene intorno a noi ho elaborato uno schema, se ne volete discutere in pvt scrivetemi pure: nodo.decrescita.modena@gmail.com Prende spunto da letture come Il Calice e la Spada di Riane Eisler, i libri di Michel Odent, Osho, La civiltà dell'empatia di Rifkin, Risvegliare il cuore bambino di Carla Hannaford. In sintesi: 1. senso di separazione dall'ambiente sociale-naturale = 2. modello dominante = 3. sviluppo infinito. 1. In ognuno di noi sono presenti materia (corredo genetico di padre e madre), energie (yin e yang), e polarità opposte (maschile e femminile), aggressività e ricettività, ecc Chi viene educato a riconoscerle ed usare in maniera equilibrata, e allo stesso tempo si sente individuo amato di quanto esiste (famiglia, comunità, natura, clan, società, ecc) che soddisfa i suoi bisogni, accetta la sua diversità/individualità e viene educato ad amare, difficilmente diventerà persona dominatrice, sarà una persona che ama se stesso, la vita, gli altri, portato a cooperare, essere solidale, empatico. Diversamente quando un individuo viene cresciuto in ambienti competitivi, viene costretto a reprimere suoi bisogni e personalità, riceve ed impara ad usare violenza, si sente in lotta con se stesso, con gli altri, con la Natura, elabora un sentimento di separazione da tutto, è costretto a rinchiudersi e ad espandere il suo ego che viene prima e sopra di tutto, ecc... 2-3. Questo modello dominante poi produce alienazione, emarginazione, competitività, ecc aumentando quindi la sua espansione all'infinito. Entrambi i modelli sono come virus, la violenza genera violenza e l'amore genera amore, quindi in ogni società pur essendo presenti entrambi uno dei due prevale, nel nostro caso il dominante, da qualche millennio a questa parte, individuato da Eisler nell'arrivo dei Kurgan, ma è relativo, in ogni luogo del pianeta per diverse condizioni, anche climatiche e eventi climatici si sono via via andati affermando entrambi i modelli. Che ne dite? Ho scritto di fretta, ma potrei spiegarlo meglio e mi piacerebbe discuterne. Vi prego scrivetemi in pvt... qualcuno ha mail di Schillaci?
germanus.caput, 05-12-2010 06:05
Finalmente un articolo decente su una tematica così vasta e ricca di implicazioni a 360°. Gimbutas merita di essere capita e divulgata ed a ciò ha già proveduto da tempo la sua massima divulgatrice e sviluppatrice delle sue tesi: Riane Eisler in Il calice e la spada e in Il piacere è sacro. L'esistenza di culture libertarie, e cioè prive di stratificazioni sociali a funzione dominate, cioè classi sociali sfruttatrici e sfruttate, Stato, guerre e quindi eserciti, violenza nei rapporti interumani, e caratterizzate perciò da rispetto assoluto per la vita in ogni sua forma, vanno evidenziate e studiate in modo ancor più approfondito. Consiglio delal Gimbutas anche e soprattutto Il Linguaggio della dea. La storia come ci è narrata è un cumulo di cazzate e interpretazioni capziose cioè funzionali allo status quo. Per finire un altro grande studio è quello di Martin Bernal: Atena nera.
Massimo, 07-02-2011 11:07
Scusatemi. Non ce l'ho fatta a leggere fino alla fine: -una civiltà pacifica ed inerme -degli invasori crudeli e aggressivi con un nome ricco di gruppi consonantici -la sostituzione della cultura pacifica con quella guerriera che diventa ovvietà -la storia dei vincitori che cancella il mondo di prima, facendolo dimenticare per migliaia di anni. Un inganno che si dipana lungo tutta la storia, due forze che si confrontano sotterranee dall'alba dei tempi. Ma una schiaccia l'altra nell'ombra. -Arriva il tempo della crisi,il complotto è smontato in un un futuro prossimo e l'antica serenità riscoperta per liberare finalmente la Storia e permettere la felicità dell' Umanità. Leggo la storia e penso: Asimov? Final Fantasy VII? Assassin's Creed? L' Era di Saturno? Atlantide? L' Età dell' Oro? Beh, è un mito. La nostalgia per un mondo migliore prima del nostro è praticamente ovunque, ma in racconti, saghe fantasy,videogame, film, immaginario collettivo. Ho le mie perplessità che sia andata realmente così, anche se l'esistenza storica di un periodo simile spiegherebbe perchè le culture di tutto il mondo provano questo desiderio di nuova purezza. Ma ho una spiegazione più semplice: da molta autostima pensare che un tempo era stata raggiunto un equilibrio ideale ed è stata solo un'interferenza esterna a far crollare un'utopia, solo posta all'indietro anzichè in avanti. Fa pensare che la nostra natura è buona e siamo stati corrotti. Da molta meno buona volontà rassegnarsi all'idea che l'aggressività è parte d'ogni cultura. Sorry: eravamo brutti e cattivi anche prima (ed eravamo belli e gentili anche prima, ma le due cose coesistevano). Mi sembra una raffigurazione idealizzata di un passato relativo, che è semplicemente abbastanza lontano ed ignoto da poter diventare contenitore di sogni egualitari, ambientalisti, femministi. Notiamo come nel corso della breve storia nota tutte le culture abbiano fatto questa operazione servendosi di immagini idilliache dei tempi trascorsi, immagini che crollano ad un esame storico degli stessi. Nel periodo ellenico il periodo eroico, meraviglioso, di indiscutibile perfezione era quello iliadico, nonostante oggi sappiamo che fu un'era di povertà, guerre, frammentazione, il c.d. medioevo ellenico. Per i Romani dell' Impero nel suo fulgore, per Augusto quell'età dell'oro era sì la sua ma doveva ispirarsi ai tempi della fondazione, settecento anni prima, età di villaggi sparsi, di pecorai che gli evoluti Etruschie i Greci (a torto ^_^) guardavano dall'alto in basso: eravamo noi i barbari. Quando l'impero si rese conto dei suoi mali e dei suoi limiti (IIo e IIIo secolo) ci si rivolse a Catone, agli arcaici, anche ad Augusto come autorità sancite dal tempo in grado di ripristinare le virtù e lo stile. Ma a ben vedere già ai tempi di Nerone si guardava al passato anche recente (quarant'anni prima più o meno) come ad un tempo benedetto e alla cultura antica come preziosa eredità ridotta ad oggetto museale o storpiata (vedasi Petronio). Poi venne il crollo, il melting pot delle invasioni, l'incertezza del potere pubblico senza forza, l'isolamento delle comunità e nell' Alto medioevo ci si rammaricava di non essere nati sotto il Grande Impero Romano, magari proprio quello tardo e un poco precario (ma cristiano e più facile da immaginare perchè relativamente vicino). Nel 1300, al tempo della Peste, si scrivevano lodi della bella società cavalleresca di un secolo-un secolo e mezzo prima, basandosi in parte sulle opere dei cicli cavallereschi, a loro volta ambientate in una versione mitica e declinata al passato della loro epoca d'origine, il dodicesimo secolo (che, ci ricorda Chretien, soprattutto nel suo Parsifal, è arrivata al canto del cigno di questa cultura e che necessita di una palingenesi). Poi il Quattrocento e il cinquecento che, pur essendo fulgidi in Italia, non mancano di riservare un pensiero fantastico ai "cavalieri antiqui" (magari del 1200-1300!) che avevano l'onore al posto della forza bruta e codarda delle armi da fuoco (in realtà, ancora una volta, si tratta di un'alternativa al presente cercata in un passato a proprio uso e consumo). Nel seicento, sotto la dominazione straniera, si rimpiange il tardo quattrocento quando gli Italiani erano ancora italiani (o forse questa visione è contaminata con la strumentalizzazione dei patrioti ottocenteschi di cui il Manzoni si fa voce. Il Settecento salta il seicento e idealizza di nuovo il Cinquecento. Nell' Ottocento inglese si fanno strada la disumanizzazione e i danni socio-ambientali della Rivoluzione Industriale. I poeti romantici prima e i romanzieri vittoriani poi cantano la natura e la Merry England dei gentiluomini di campagna, del lavoro agricolo, degli insediamenti sparsi, la stessa che il razionalismo settecentesco cercava bene o male di riformare. Dopo la prima guerra mondiale però, insieme agli sguardi lucidi che dipinsero quel periodo come tetro e pieno di guasti e ipocrisie, ci saranno molti che rimpiangeranno la bella stabilità dei tempi di Vittoria e della belle epoque, in cui gli imperialismi reciproci stavano in realtà preparando la strada per la carneficina. Dopo la Seconda, di guerra, la nostalgia sarà degli anni '30 o '20,quelli della crisi feroce, ora ribattezzati i "ruggenti", ma anche quelli che non avevano ancora visto del tutto la società di massa. E se gli anni '60 e '70 hanno visto trionfare chi il passato lo schifava, negli anni '80, specie le sinistre e chi si opponeva al capitalismo e al culto della concorrenza facevano delle rivolte sessantottine e persino dei primi Anni di Piombo un'era felice di fiori, musica, coscienza civile. Oggi c'è chi rimpiange la stabilità del ventennio '80-'90 e dimentica che la cultura che oggi ci mette in difficoltà si è evoluta proprio allora nella sua forma. Un giorno forse diranno che si stava bene nel 2011, colla tecnica trionfante e le abbondanti risorse energetiche, le iniziative civili, le istanze di democrazia,. E la nostra quota di bruttura sarà dimenticata. La mia conoscenza storica è scarsa e stereotipata, da scuole medie e mi si perdoni per inesattezze e semplificazioni estreme, ma volevo più che altro dare l'idea di stati d'animo, dell'immagine di sè che l'umanità s'è data, non essere preciso e accurato, saltando contraddizioni e compresenze di diverse mentalità. Bisogna valutar bene se le due archeologhe non sovrainterpretino, ansiose di trovare qualcosa di conforme ai loro ideali e non a quelli dei primitivi. Pensiamo a quei contadini arcadici di prima. Sono stanziali, disboscano, hanno problemi di confine col vicino o, se i campi sono comunitari, spingono colla diplomazia perchè essi vengano gestiti in un modo o nell'altro dal consiglio di villaggio. E così ecco sorgere o la proprietà privata o la ricerca del consenso e del potere politico. Ancora così arcadici questi contadini? E i nomadi, brutti e sporchi che sanno di sudore di cavallo, invece, saranno gerarchici ma la proprietà della terra proprio non ce l'hanno: la preda va a chi l'ha cacciata e si divide, ognuno ha la sua tenda e si va dove si vuole. Ma da qualche tempo i proprietari dei campi li cacciano via, li spingono dove c'è poca selvaggina e pretendono l'esclusiva nientemeno che su pezzi di mondo. Dicono che sono sotto la loro giurisdizione e i nomadi non riescono nemmeno a concepire la cosa. Ancora così orribili, questi kurgan? Scusate la lunghezza, ma dobbiamo esercitare un distacco "filologico", va bene imparare dalla storia ma non va bene vedere il passato solo alla luce dei problemi del nostro presente.
Marco B., 12-08-2011 01:12
Più che ad Asimov e alla fantasy, che non mi sembrano riferimenti pertinenti, preferisco appoggiarmi a Claude Lévy-Strauss, a Ruth Benedict e all'antropologia. Che l'aggressività faccia parte di tutte le culture umane può anche essere vero ma è falsa l'implicazione che questa affermazione sottintende, ovvero che in tutte le culture umane sia identico l'atteggiamento verso essa. Lévy-Strauss divide le società in "calde" e "fredde": le prime sono per loro natura espansioniste, sviluppiste, le seconde sono stazionarie, rifiutano il divenire della storia. La Benedict (e dopo di lei Eric Fromm) fa una distinzione in tre tipi: società di tipo A (collaborative, pacifiche ed esaltatrici della vita), B (competitive in forma non distruttiva) e C (competitive in maniera distruttiva). Ciascuno di tali autori porta numerosi esempi di società, non ipotetiche ma realmenti esistenti al presente, di ciascuno di tali tipi. Cito qui i pueblos Zuni (di tipo A) e i Dobu (di tipo C) descritti dalla Benedict nel classico "Modelli di Cultura", il confronto fra i quali basta già a convincerci come ogni tentativo di omologazione di tutte le culture semplicemente non stia in piedi sul piano storico. Non ci vuol molto neanche a dimostrare che i Paesi dell'occidente industrializzato (cioè i discendenti dei Kurgan) sono società calde e di tipo C. Potrei immergermi in lunghe analisi sociologiche, ma preferisco citare un fatto di alcuni anni fa, quando in occasione di una tentata evasione del pluriomicida Vallanzasca tutta la stampa italiana ne fece una sorta di apologia descrivendolo quasi come un impavido eroe. Un fatto simile fra gli Zuni o gli Hopi sarebbe stato impensabile. Il confronto in altre parole non è fra passato e presente ma fra diverse e compresenti culture umane. E che questa diversità ci sia è un fatto. Oggi come nel neolitico. Circa infine il rapporto conflittuale agricoltori-allevatori, è una piaga sociale che attraversa i millenni fino a epoche vicinissime a noi e trae la sua origine, più che dalle pretese di uso esclusivo della terra dei primi dalle enormi estensioni di territorio necessarie ai secondi, che li hanno sempre resi necessariamente invasivi.
Filippo Schillaci, 01-09-2011 08:01
Il punto è che dire: ci sono i pacifici, quelli che sono in armonia e ci siamo noi, brutti e cattivi, sia una facile nostalgia consolatoria, un amore per l'altro a prescindere, senza riconoscere che "il mondo è paese". So bene che ci sono alternative e che noi siamo lontanissimi da essere il meglio, dallo stare bene e sono convintissimo che, decenni fa, avevamo più equilibrio e benessere sul piano di una vita ricca di significato e soddisfacente, meno distruttiva. Ma il mio invito è quello di uno sguardo dall'alto che riconosca l'istinto distruttivo come parte dell'uomo e non si abbandoni ad un "voglio andare a vivere tra gli aborigeni" molto esotico e molto tipico di una fruizione "turistica", compensativa, quindi ancora pesantemente centrata sul nostro angolo di mondo nonostante le apparenze. Mi sembra una sorta di mito dell'età dell'oro, tipico delle culture avanzate, insoddisfatte e senza più fiducia in sè, ecco. PS Comodo ridurre il mio modo di ragionare in un tuffo nella fantasia evasiva. Lo sai che stai facendo, senza volerlo, del realismo primo-novecentesco, una delle prospettive più statiche e meno aperte alla plasmabilità del reale che ci sia mai stata? La fantasia è possibilità, è immaginario, è percezione, fa cultura e la mia era una carrellata nella storia di tale immaginario, un immaginario reale, che ha condizionato gli occhi delle persone, che è risposta a bisogni, problemi realli, che aiuta a vedere oltre e a cambiare ma che spesso vede solo un pezzo della verità. Tentare di oggettivare una mentalità è sbagliato: essa è frutto delle sfide del presente e della voglia del futuro. La nostalgia del passato c'è, ma è nell'ottica del recupero, nell'ottica dell'andare avanti. Nessuno rivuole *tutto* il passato. Ne vuole solo ciò che gli manca, il resto l'ha rimosso, perchè l'uomo vuole essere felice. Ripeschiamo il meglio del nostro passato ma non rinneghiamoci e soprattutto non dividiamo le culture in buone e cattive, ma solo gli atteggiamenti singoli. Le culture non sono monolitiche, essendo campo di forze contrastanti esse stesse. Il pensiero dominante in esse è solo una semplificazione ideologica che conviene a chi ha il culo sul trono. Invece mi piace l'approccio critico, possibilista, sfaccettato di germanus.caput che evita elegantemente il contrasto polarizzato, l'idealizzazione assoluta di un modello sociale. Il punto non è cosa fai, ma con che consapevolezza lo fai, con che cura, attenzione, saggezza. Ogni modo di fare, sparato a cento all'ora, produce guai. Ci vuole una guida salda e una forte capacità di introspezione da parte di una cultura e noi, estrovertiti come siamo, con la nostra concezione centrale di esibizione all'esterno, non l'abbiamo, se non sotto forma dei nostri atristi e voci critiche, costitutivamente non maggioritarie. Siamo squilibrati, tutto qua, pensiamo di dover ignorare il nostro dolore invece di fermare la corsa per vedere dove fa male Giudicare il padre dal figlio, in Storia, è assenza di filologia: dire che i Kurgan erano per forza come noi perchè noi ci siamo evoluti da loro è un'imprecisione clamorosa, un'illusione ottica legata al fatto che si guarda ai Kurgan ma il bersaglio è invece la nostra cultura sviluppista relativamente recente, che solo oggi (ultimi due secoli) s'è affermata senza controparte, ma per lunghi periodi ha mostrato anche tratti di forte tradizionalismo e staticità.
Marco B., 02-09-2011 09:02
A Marco B.: Carissimo hai preso una craniata: rassegnati. Ne prenderai molte altre nella vita visto che come la maggior parte degli italioti di cui fai parte ti limiti a sentenziare sulla base della tua sterminata ignoranza su materie su cui è unicamente opportuno informaìrsi leggendo tanto di volumoni di storia. A nessuno frega del tuo parere a priori: tintelo per te. Se proprio vuoi dire qualcosa di sensato informati. Nell'era di internet è ancora più facile di un tempo, basta cliccare qua e là. La cosa migliore naturalmente è che ti dessi anche allo studio, un buon modo, dai retta a me che me ne intendo, di passare il resto della propria vita, anzi la sua totalità: La cultura umanizza e fa soprattutto indignare chi avendone un po', è costretto a sentirte delle nullità sparare cazzate basandosi sul puro nulla. Se ti piace vivere così allora la politica è ciò che fa per te. Lì la retorica ed il blateralismo pullulano all'infinito. Non a caso "parlamento" è il nome che si dà alla stalle in cui si radunano questi preziosi esemplari umani. Scendi dall'alto della colonna VERITA' e fatti il mazzo con lo studio. Procurati i testi della Gimbutas e della Eisler per cominciare e poi vedrai che il mondo per te non sarà poi così oscuro come sino ad oggi ti è sembrato. A presto se ci tieni.
Massimo, 05-09-2011 12:05
Invitiamo i nostri lettori a cercare di moderare i toni della discussione evitando attacchi personali o insulti più o meno velati. Grazie
La redazione, 05-09-2011 12:05
Purtroppo il libro di Riane Eisler non è più in stampa, ma se trovate copie usate o materiale in rete vi assicur che è un lavoro tutt'altro che superficiale a cui non viene riconosciut il giusto valore e importanza. L'essenza che mi ha colpito è che l'autrice ha esaminato diverse culture, guardando oltre gli aspetti esteriori o superficiali, di forma, riuscendo così a trovarne l'essenza che accomuna culture apparentemente distani anni luce o ritenute uguali pur non essendole. Dietro quest'apparenza si delineano tratti comuni, appunto quelli che rendono possibile l'essenza che anima individui e comunità (che altro non è che la somma di individui): Modello Dominante vs Modello Mutuale. In ogni persona agiscono questi due schemi e forze. Io ho seguito la Decrescita fin dalla sua nascita, ma ero insoddisfatto dal suo additare nella crescita la causa di ogni male, in alcuni casi al crescita è postiva, come fu in Italia sia durante Mussolini che dopo. Ma mi chidedevo: Quale forza spinge l'uomo a cercare sempre di più? Perciò il problema non è la crescita, ma la spinta all'avere, al potere, al sempre di più. Questa avviene si dall'alto, come Sistema, ma prima di ciò nasce in ogni individuo da una errata percezione della realtà, da senso di essere separato dagli altri, senso che gli indiani d'America, come ogni popolazione indigena, non ha; da questa separazinoe nasce emarginazione, paura, per cui si rifugia nell'odio del diverso, nell'attaccamento al materiale, nella forza come metodo per ottenere tutto e avere sottocontrollo l'ambiente umano e non che lo circonda, lo sconosciuto e ciò che muta o è diverso; da ciò ricava rassicurazione. Ho detto cose sensate??? :P
germanus.caput, 05-09-2011 05:05
Solo all'inizio, le prime righe, poi ti sei perso nel chiacchiericcio a vuoto. L'uomo è il prodotto delle circostanze sociali. Una società egualitaria che promuove i valori egualitari genererà con un alto grado di probabilità un uomo (personalità) le cui pulsioni profonde saranno appunto egualitarie. Una società che dà valore al dominio e sostiene con tutti i mezzi a sua disposizione le ingiustizie sarà l'esatto contrario.
Massimo, 05-09-2011 07:05
Io penso che si sia voluto proiettare su di un ipotetico passato remotissimo molto del presente, cercandovi delle radici per movimenti attuali, leggendo il passato cogli occhi del presente, non senza trovarvi possibili quarti di nobiltà. Le descrizioni delle due fazioni sono quanto di più rigido ci sia e si finisce per attribuire agli Antichi Europei quanto di meglio si spera per il futuro secondo una visione del mondo pacifista-ambientalista. Insomma, il sospetto spontaneo è che con questa visione storica il movimento tipicamente conosciuto (e impropriamente insultato) col nome "No Global" abbia voluto trovarsi un "padre", come accadde nel Rinascimento o nell' Illuminismo dove ogni bene era fatto risalire ad un'Antichità modellata secondo le speranze innovatrici mentre ogni problema era datato ad un Medioevo che l'aveva soppiantata, ridotto a calderone di orrori. La storiografia più recente ha molto ridimensionato quei ritratti più funzionali al bisogno di segnare confini e trovare bandiere in cui riconoscersi e nemici da combattere che non veritieri e problematici. Se poi aggiungiamo che quanto di più cattivo e discutibile c'è oggi è sbrigativamente indicato come eredità dei Kurgan, mentre ogni spunto promettente ed alternativo è qualificato come segno della resistenza degli Antichi sconfitti abbiamo una visione clamorosamente bipartita, dove c'è una sorta di differenza incolmabile originaria e possibilmente ab aeterno. Niente di meglio per chi cerca un'identità monolitica e vuole schierare le cose del mondo in "con noi" e "contro di noi". E' una critica a priori? Certo che sì. Il mio bersaglio non sono i libri in questione o le ipotesi specifiche in esso contenute, che ignoro, ma la proposizione di uno schema elementare decisamente noto, a prescindere dalle sue incarnazioni specifiche, il Manicheismo: non esattamente il più spassionato e articolato modo di indagare la realtà. Mi rifiuto ideologicamente a priori che possa mai essere esistita una fazione o una cultura millenaria che nella sua evoluzione abbia prodotto una civiltà così omogenea e senza nulla di degno di essere recuperato, mentre la sua controparte sconfitta possa essere l'esclusiva responsabile del poco di valido che essa ha dato alla Storia. Si tratta di salutare dubbio preliminare, più che altro. Per essere una teoria storica è tremendamente a tesi dunque è bene predisporsi ad un sano distacco prima ancora di andare oltre la copertina. Il fatto che tutta l'impostazione sia identica, nella struttura e nei rapporti delle forze in gioco, alla rappresentazione netta del rapporto tra i sessi nella "storiografia" femminista non mi aiuta certo ad aderire senza riserve a tale narrazione. E meno male che io sarei uno colla Verità ben chiara mentre mi sembra che l'articolo e alcuni commentatori amino dividere a metà e stare dal lato giusto! L'unica verità dall'alto della quale davvero parlo è quella della relatività e della ambivalenza. Ho un atteggiamento da illuminato? Probabile, salvo che posso considerare ugualmente messianico il pensiero di chi ha tutto ben chiaro
Marco B., 07-09-2011 01:07

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