Francia: intellettuali ed ecologisti chiedono un referendum sul nucleare

“Se c‘è da imparare una lezione da Fukushima, è che non è più possibile delegare (a qualcuno) decisioni che coinvolgono a tal punto la salute e la sicurezza di tutti, senza un confronto nazionale che sia il più ampio e il più aperto possibile”. Intellettuali ed ecologisti francesi chiedono una consultazione popolare immediata sul destino delle centrali nucleari e sulla costruzione di nuovi impianti sul territorio nazionale.

Francia: intellettuali ed ecologisti chiedono un referendum sul nucleare
A due mesi dal disastro nucleare di Fukushima, gli ecologisti francesi Eva Joly et Nicolas Hulot (rivali nella candidatura alle elezioni presidenziali del 2012 per il partito EELV- Europe Ecologie-Les Verts), insieme agli eurodeputati José Bové et Daniel Cohn-Bendit, hanno sottoscritto un documento nel quale chiedono “un referendum sul nucleare in Francia”. Il documento, che è stato pubblicato da Le Monde venerdì scorso, 13 maggio 2011, è stato redatto dopo che Eva Joly aveva rimproverato pubblicamente Nicolas Hulos di non aver parlato del nucleare durante la presentazione del programma per le presidenziali 2012. In risposta alla Joly, Hulos ha chiarito immediatamente la propria posizione contro il nucleare. Il documento, dal titolo Un referendum sul nucleare in Francia! chiede che, a 25 anni da Chernobyl e a seguito della catastrofe di Fukushima, il popolo francese venga consultato direttamente per sapere se vuole uscire dal nucleare o meno, senza lasciare che una decisione così importante, che riguarda da vicino la salute e la sicurezza di tutti i cittadini, venga presa solo da politici e lobbies. Qui di seguito, la traduzione in italiano del documento originale. Un referendum sul nucleare in Francia! Giovedì 12 maggio 2011 In occasione del 25esimo doloroso anniversario di Chernobyl, un’altra catastrofe ha gettato una luce spettrale sulla nostra incapacità, a livello collettivo, di controllare la reazione nucleare. Nel 1986, il contesto della guerra fredda e le artificiose rassicurazioni consegnate all’opinione pubblica erano riuscite a minimizzare la portata di quel gravissimo incidente: i Sovietici non si preoccupano della sicurezza delle centrali nucleari, i loro impianti sono obsoleti e inaffidabili, la nube si è dispersa prima di arrivare sul territorio francese… Oggi, però, il contesto è cambiato: i Giapponesi hanno la reputazione di essere affidabili e la farsa di Chernobyl non attacca più. Ormai è evidente che la catastrofe di Fukushima, che rimane senza soluzione, crea una frattura - che noi vogliamo sia definitiva - nel rapporto che abbiamo col rischio nucleare. Questa frattura costringe a mettere la democrazia e la cittadinanza faccia a faccia, una volta per tutte, con la tecnologia più pericolosa del mondo. Eppure, da Chernobyl a Fukushima, sembra che non abbiamo imparato nulla, dal momento che la discussione principale - l’unica alla quale i Francesi potrebbero davvero partecipare - viene evitata ed insabbiata dal continuo sproloquio tra esperti più o meno irremovibili. Come ha ammesso, in maniera onesta, il Presidente dell’Autorità Francese per la Sicurezza Nucleare, André-Pierre Lacoste (su Le Monde del 31 marzo 2011) “nessuno può garantire che in Francia non ci saranno mai incidenti gravi”. Pertanto, l’unico confronto che dovrebbe esistere in questo paese, è quello di sapere se i Francesi vogliono assumersi questo rischio a livello collettivo, sì o no. I Francesi vogliono o no, con cognizione di causa, mantenere sul territorio nazionale il rischio di una catastrofe nucleare? E questo confronto non verrà deciso a colpi di esperti, rivali tra loro o vagamente antagonisti, né a colpi di sondaggi più o meno affidabili. Trovare un accordo sul grado di rischio che i membri di una comunità civile sono pronti ad assumersi a livello collettivo, è un (momento di) confronto fondamentale. Noi non ci nascondiamo: difendiamo l’uscita programmata dal nucleare, che - secondo noi - passa attraverso la chiusura immediata delle centrali più obsolete e ubicate nelle zone a rischio, come Fessenheim, l’interruzione del cantiere EPR di Flamanville e l’arresto della ristrutturazione delle centrali sulla base della loro attuale aspettativa di vita. Questa uscita, però, deve’essere il frutto di una scelta democratica. Anche un ministro di destra lo capisce. Ed è un tedesco. Il Ministro dell’Ambiente, Norbert Roettgen, sul periodico Der Spiegel del 23 aprile 2011 dichiarava: “Se, a breve termine, il prezzo dell’energia nucleare sembra a buon mercato, in caso di catastrofe diventa troppo alto” e concludeva dicendo che “la (nostra) responsabilità verso il futuro” (ci) obbliga a “rivedere completamente la sicurezza” alla luce degli errori umani e delle forze ingovernabili della natura. In Francia un dibattito del genere non c’è mai stato. L’atomo è il più duraturo dei compromessi politici verificatisi nella storia della Francia dopo la seconda guerra mondiale - ancor più dei successi del Consiglio Nazionale della Resistenza, della costruzione dell’Europa o del ruolo della scuola pubblica. Questa ostinazione di sottrarsi al confronto ha ragioni storiche, tecnocratiche e politiche: nel contesto della guerra fredda tra due blocchi antagonisti, l’indipendenza e il prestigio nazionale sono passati attraverso l’acquisizione dell’arma nucleare, la modernizzazione tecnocratica del paese e l’impatto in termini occupazionali, che ha assicurato il sostegno dei sindacati e della sinistra. Fino all’irruzione dell’ecologia sulla scena politica, questo “consenso gaullo-comunista” (l’aggettivo “gaullo” viene da “Charles De Gaulle”, Presidente della Repubblica francese dal 1959 al 1969 - n.d.t.) non è mai stato messo in discussione da nessun movimento politico strutturato. Adesso è arrivato il momento, per la società civile francese, di appropriarsi di questo tema. Se c‘è da imparare una lezione da Fukushima, è che non è più possibile delegare (a qualcuno) decisioni che coinvolgono a tal punto la salute e la sicurezza di tutti, senza un confronto nazionale che sia il più ampio e il più aperto possibile. Per questo motivo, riteniamo che sia necessario porre ufficialmente ai Francesi la seguente domanda: “Volete rinnovare il parco nucleare nazionale attraverso l’estensione o la costruzione di nuove centrali?”. Se la maggioranza dirà di “no”, l’uscita programmata dal nucleare sarà obbligatoria e sprigionerà la creatività verso un nuovo mix di energie “a rischio zero”, permettendoci, al tempo stesso, di uscire dal rischio nucleare e di contrastare il rischio climatico. Un referendum rappresenta l’equità di un confronto civile che consente di far scendere la discussione fino alle famiglie, ai bar, alla strada - invece di lasciare che siano gli esperti ministeriali e le lobbies a dialogare in modo più o meno condiviso. Un referendum, inoltre, rappresenta la garanzia di una certa continuità, evitando così il rischio di una maggioranza versatile nei confronti di politiche che vanno gestite a lungo termine. Infine, rappresenta l’unico modo per rimettere in discussione il “consenso nucleare”, che ci ha fatto accumulare troppo ritardo nello sviluppo delle energie rinnovabili, nelle attività economiche e nell’efficienza energetica, dal momento che una delle maggiori poste in gioco è quella di non lasciare i Francesi a fronteggiare da soli l’aumento delle bollette e l’incertezza energetica. Inoltre, sarebbe stupido sacrificare le centinaia di migliaia di posti di lavoro che può generare una rivoluzione energetica basata sulla durata (illimitata), sulla rigenerazione e sul risparmio. E, dal momento che all’orizzonte si profilano scadenze politiche a livello nazionale, lo diciamo in modo chiaro: un accordo di programma con il PS (il Partito Socialista francese - n.d.t.) non potrebbe ridursi ad un (semplice) compromesso semantico sull’uscita da “tutto” il nucleare o dalla “dipendenza” dal nucleare. Questo referendum dev’essere la priorità all’interno di qualsiasi accordo finale. La nostra responsabilità politica comune è proporre ai Francesi scenari credibili di alternativa e di uscita dal nucleare. Renan (Ernest Renan, 1823-1892, scrittore, filosofo e storico francese - n.d.t.) diceva che “la nazione è un plebiscito quotidiano nel quale i cittadini esprimono il loro desiderio di vivere insieme”. Su temi molto più seri e molto più pericolosi dell’identità nazionale, sarebbe bene che, per una volta, si lasciasse la parola all’espressione sovrana e diretta degli elettori. Sottoscritto  da José Bové, Daniel Cohn-Bendit, Eva Joly e Nicolas Hulot. Pubblicato da Le Monde il 13 maggio 2011

Lascia un commento


Per lasciare un commento, registrati o effettua il login.