Se il Land grabbing non si arresta, dal Wordwatch Institute nuovi dati

Land grabbing: i nuovi dati resi pubblici dal Wordwatch Institute ne svelano dinamiche e protagonisti. Cresce intanto la consapevolezza e la resistenza organizzata dei coltivatori che, in Italia come all’estero, si oppongono all’esproprio silenzioso del suolo fertile.

Se il Land grabbing non si arresta, dal Wordwatch Institute nuovi dati
Le acquisizioni su larga scala di terreni agricoli stanno ancora salendo. L’Africa è il continente più esposto all’accaparramento delle multinazionali (l’80% di tutti i terreni acquistati), seguito da America Latina, Asia Centrale e Sud Est asiatico. In totale, la terra sottratta agli agricoltori locali ha un'estensione più o meno pari alla Repubblica Democratica del Congo. In percentuale, l'1,4% di tutte le terre agricole del mondo. Questi dati sono tratti dal rapporto Foreign Investment in Agricultural Land Down from 2009 Peak, messo a punto dal Wordwatch Institute, secondo cui dal 2000 al 2010 nel mondo sono stati venduti o affittati a investitori privati e pubblici 70,2 milioni di ettari di terreni agricoli. L’intervallo temporale maggiormente interessato da questa corsa speculativa alla terra s’identifica nel periodo 2008-2010, con un picco nel 2009, e un calo nel 2010 che tuttavia non fa scendere gli acquisti sotto i livelli del 2005. Chi acquista e dove? Secondo il rapporto del Wordwatch Institute, per un verso i Paesi emergenti del sud del mondo (Brasile, India, Cina, Indonesia, Malaysia e Corea del sud) rilevano terre nello stesso sud. Ci sono poi i Paesi molto ricchi di petrolio e mezzi finanziari, ma privi di terreni coltivabili, come quelli mediorientali, che cercano terreni nelle nazioni a basso reddito. Gli attori sono pubblici e privati, governi o multinazionali del settore energetico e dell’industria alimentare che finiscono per coltivarci cereali, canna da zucchero, palma da olio, jatropha per biofuel oppure a svolgere un’attività mineraria o petrolifera. I compratori prendono a basso prezzo e per periodi molto lunghi decine di migliaia di ettari in paesi afflitti da siccità e fame, come l'Etiopia, per impiantare colture intensive, con lo scopo di produrre cibo per l'esportazione o per coltivare olio di palma o jatropha poi impiegati per generare agro-combustibili. Per quanto la riservatezza dell’atto della compravendita di terra renda difficile indicare con esattezza l’ammontare della terra sottoposta alla pratica di land grabbing, esiste oggi una grande banca dati sulla materia, creata dal Land Matrix Project, la rete globale di ricerca che riunisce 45 organizzazioni della società civile. Sul sito ufficiale della rete, una mappa dettagliata mostra chi compra, dove e cosa si coltiva o produce. Dalla mappatura si può verificare ad esempio, come l’Italia - che secondo il nuovo rapporto Gli Arraffa Terre dell'associazione Re:Common è seconda solo al Regno Unito tra gli Stati europei più attivi nella pratica del land grab - si muove soprattutto in Africa, tra Mozambico, Etiopia, Congo, Nigeria e Madagascar. Una ventina circa, le compagnie del nostro paese attive in maniera decisa in questo business, con nomi noti, tra cui spicca anche Eni. Oggi la terra coltivabile non solo s’impoverisce, ma si va esaurendo, e il denaro ne sposta la proprietà e la concentra sotto potenti sigle societarie al di là dei confini fisici, esattamente come la delocalizzazione ha fatto con le produzioni industriali, di cui constatiamo gli effetti. A venire leso è il principio della sovranità alimentare, che afferma il diritto dei popoli al cibo, scegliendo dove e cosa coltivare o allevare, con quali tecniche agricole e con quali rapporti sociali di lavoro. Inoltre, il land grabbing mette a repentaglio le comunità povere che svendono le proprie case senza adeguati indennizzi, perdono i mezzi di sostentamento e la possibilità di intentare ricorsi per vedere riconosciuti i propri diritti. Questa consapevolezza, unita alla conoscenza sempre più diffusa dei meccanismi e dei protagonisti del fenomeno, sta producendo voci e azioni di forte opposizione. Dopo il deludente summit di Rio+20, anche le associazioni contadine e ambientaliste dell’America Latina vogliono agire e si stanno organizzando. Alianza Biodiversidad, una coalizione di organizzazioni argentine, brasiliane, cilene, colombiane, ecuadoregne, messicane ed uruguayane, ha lanciato nei giorni scorsi un appello a sostegno delle rivendicazioni dei campesinas e dei popoli indigeni del Paraguay. In Italia, già lo scorso aprile, il manifesto di Via Campesina lanciava una campagna per la libera lavorazione dei prodotti contadini e denunciava che l’Art.66 del decreto-legge n.1 del 24 gennaio 2012 (cosiddetto salva Italia) programma la vendita dei terreni agricoli o a vocazione agricola demaniali. Infine, la voce della società civile. A fine giugno, un’ampia coalizione composta da oltre 60 Ong e associazioni ambientaliste e di sviluppo, tra cui anche l’italiana Re:Common, ha inscenato una vivace protesta presso la sede dell’Agricultural Investment Summit, in corso di svolgimento a Londra, accusando l’incontro di promuovere la diffusione dell’accaparramento di terre a livello globale, che nel Sud del mondo priva i contadini più poveri della possibilità di coltivare appezzamenti di terra vitali per la produzione di cibo. Ai partecipanti al summit, la coalizione ha consegnato una dichiarazione in cui chiede alle istituzioni finanziarie e ai fondi pensione di cessare immediatamente la pratica del land grabbing.

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