70 Giorni in sciopero della fame: il grido dei Mapuche contro il governo cileno

Da circa 70 giorni alcuni prigionieri politici Mapuche, rinchiusi in varie carceri del paese con l’accusa di terrorismo, portano avanti ad oltranza uno sciopero della fame che sta mettendo seriamente a rischio le loro vite. Il Governo di Santiago, intanto, fa orecchie da mercante piuttosto preoccupato che la protesta possa oscurare i festeggiamenti per il bicentenario della Repubblica.

70 Giorni in sciopero della fame: il grido dei Mapuche contro il governo cileno
Il 15 settembre a Santiago de Chile sono iniziati i festeggiamenti per il bicentenario della Repubblica, ma La Moneda (sede della Presidenza della Repubblica e del Governo, ndr.) è preoccupata per un evento, non del tutto sporadico negli ultimi tempi, che rischia di mettere in ombra il programma delle celebrazioni. Sono infatti circa 70 giorni che alcuni prigionieri Mapuche – trattenuti in attesa di giudizio nel carcere di Angol con l’accusa di aver partecipato ad un attentato incendiario il 26 aprile 2008 presso Pidima Ercilla – proseguono ininterrottamente un drastico sciopero della fame. La protesta dei prigionieri, condivisa in altre carceri come Temuco, Valdivia e Concesión, ha innescato una reazione a catena per la quale altre forme di protesta si sono sviluppate all’esterno. Al Governo sono state mosse feroci critiche legate a tre questioni fondamentali: la revisione della legge antiterrorismo; il giudizio dei prigionieri comuni da tribunali civili e non militari con l’implicita modifica della giustizia militare; l’apertura di un tavolo di trattative tra il Governo ed i Mapuche. Se da un lato le prime due questioni sono già state prese in analisi dall’Esecutivo, dall’altro il Governo, sostenuto dai rappresentati di destra riuniti nella coalizione UDI(Unione democratica indipendente, ndr.), non ha alcuna intenzione di accettare l’apertura di un tavolo di confronto con i Mapuche ribadendo il concetto secondo il quale "in democrazia il dialogo si compie in Parlamento attraverso le leggi". La possibilità di un confronto è invece caldeggiata tanto dai Mapuche quanto da buona parte del Congresso che dalla Chiesa. Lo sciopero della fame dei prigionieri politici mapuche delle comunità Nehuen Mapu José Millacheo Levio, Autónoma Temucuicui e della Comunità Mapuche de Ranquilko assieme al sostenitore della loro causa, Eduardo Oses Moreno, è iniziato il 12 luglio. La loro denuncia è quella di essere trattenuti ingiustamente, accusati anche di altri attentati - oltre quello del 26 aprile - attraverso deposizioni di testimoni protetti, quindi non identificabili, che secondo i prigionieri potrebbero essere elementi della polizia o civili che ricevono denaro per prestare falsa testimonianza. Due dei prigionieri politici sono stati recentemente liberati su cauzione (si parla di circa duemila dollari a detenuto) sulla base del giudizio emesso da un Giudice della regione dell’Araucania, ma non hanno alcuna intenzione di recedere dalla protesta. Secondo Jose Millacheo Marin e Fernando Millacheo Marin, entrambi portavoce della protesta, il governo cileno ha agito violentemente nei loro confronti solo per il fatto di appartenere ad una comunità Mapuche fortemente schierata nella lotta per la terra e il territorio. Del resto, la legge antiterrorismo prevede la detenzione preventiva di un sospettato per circa due anni ed impedisce agli avvocati della difesa di accedere all’inchiesta o interrogare testimoni protetti. Criminalizzare la causa Mapuche ha portato il Cile a trasformare la soluzione istituzionale e democratica del conflitto in questione strettamente giuridica la cui conseguenza più ovvia è stata stigmatizzare i Mapuche come popolo violento. La radice del problema vive nella lotta costante che i Mapuche, affiancati da organizzazioni ambientaliste e sostenitrici delle cause indigene, conducono contro le imprese forestali ed energetiche che usurpano quotidianamente le loro terre, spalleggiate dall’esercito regolare e da gruppi di mercenari che esse stesse assoldano per essere tutelate. Se da un lato è vero che gli indigeni Mapuche hanno fatto ricorso ad atti dimostrativi violenti per contrapporsi alle imprese, è altrettanto vero che essi non sono stati mai consultati relativamente alle installazioni che sarebbero state fatte sui loro territori. Queste comunità sono dunque state escluse da qualsiasi confronto, con il pretesto che "per natura" esse sono contro il progresso economico. Il Cile, tuttavia, cammina davvero sul proverbiale filo del rasoio. Secondo una recente informativa del relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti e le libertà fondamentali dei popoli indigeni, James Anaya, il paese dovrebbe interrompere il reiterato ricorso alla violenza per passare invece a costruire un clima di fiducia e concedere maggiori spazi di partecipazione durante i negoziati per rispondere alle domande diversificate che provengono dalla popolazione Mapuche, a partire dalla restituzione delle terre ancestrali, per finire ad aspetti di scambio interculturale. Un’esortazione che il Cile, a quanto pare, non intende assecondare, tutto preso ad evitare il rischio che la protesta dei prigionieri infanghi la festa per i duecento anni della Repubblica. A qualsiasi costo.

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