Petrolio, il rilancio delle trivellazioni in Italia

Circa un quarto del territorio italiano è interessato da trivellazioni petrolifere autorizzate su terra e in mare. Quello a cui stiamo assistendo è decisamente un rilancio delle attività estrattive. Gli addetti ai lavori minimizzano spiegando che si tratta di una normale ripresa dopo lo stop dovuto alla crisi degli ultimi due anni. Eppure le contraddizioni sono numerose e preoccupanti.

Petrolio, il rilancio delle trivellazioni in Italia
Da alcuni mesi si sta assistendo a un deciso rilancio delle attività estrattive nel territorio italiano. Gli addetti ai lavori minimizzano spiegando che si tratta solamente di una normale ripresa dopo lo stop dovuto alla crisi degli ultimi due anni, ma le contraddizioni di questo settore sono numerose e preoccupanti. Senza approfondire questo particolare aspetto, è comunque doveroso sollevare un forte dubbio riguardo all’opportunità di continuare a puntare sulle energie fossili. Pur con la consapevolezza che il passaggio alle rinnovabili sarà necessariamente caratterizzato da un periodo di transizione durante il quale gas e petrolio saranno comunque necessari, questo nuovo entusiasmo riguardante le fonti fossili, che ricorda un po’ l’epopea di Mattei dei primi anni Cinquanta, pare andare in tutt’altra direzione. Oltre a questo aspetto, che potremmo definire un po’ forzatamente 'ideologico', c’è la questione della difficile, per non dire impossibile, convivenza fra le attività estrattive e le popolazioni e l’ambiente locali, con la difficoltosa mediazione dello Stato e della sua legge. Qualche numero per farci un’idea: al 2010 sono un centinaio i permessi per le trivellazioni nel territorio italiano, per l’esattezza 71 a terra e 24 in mare, a cui se ne aggiungono altri 65 già presentati e attualmente al vaglio delle autorità. Complessivamente, contando anche le aree interessate per ora solo potenzialmente, si parla di una superficie di circa 75.000 chilometri quadrati, vale a dire un quarto dell’Italia. Ma cosa dice la legge in proposito? Recentemente, almeno sulla carta, sembra esserci stato un modesto miglioramento della situazione, grazie alla riforma del codice ambientale che prevede una fascia protetta di cinque miglia al di fuori delle coste normali (parliamo ovviamente di trivellazioni off-shore) e di dodici miglia per le coste e aree protette. Oltre questi limiti la richiesta è sottoposta alla valutazione di impatto ambientale. Una grossa falla nella tutela dell’ambiente dalle perforazioni selvagge è però costituita dall’aspetto economico: trivellare in Italia conviene. Le royalties che gli operatori devono corrispondere alle istituzioni sono infatti molto basse, circa il 4%; inoltre, i primi 300.000 barili annui sono coperti da franchigia, cioè non sono soggetti al pagamento di queste royalties. I problemi principali causati da queste condizioni sono due: il primo è che con prezzi così convenienti l’Italia rischia di diventare una specie di paradiso estrattivo in cui le compagnie di tutto il mondo si precipitano per svolgere la loro attività in modo economico ed è proprio ciò che sta avvenendo. Il secondo è che a condizioni così abbordabili possono partecipare al gioco anche piccole compagnie, che spesso non hanno le risorse per realizzare strutture sicure ed efficienti, né tanto meno per affrontare situazioni di emergenza (il disastro del Golfo del Messico a questo proposito è emblematico). Un altro grosso problema è la compatibilità con il contesto. Spesso infatti le attività estrattive sono dannose per il territorio, non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello economico. I terreni e le acque su cui insistono sono coinvolti spesso da altri tipi di attività, dal turismo all’enogastronomia - che costituiscono la spina dorsale dell’economia di molte zone - e la convivenza con strutture invasive come pozzi e piattaforme è impossibile. Nonostante il presidente di Nomisma Energia parlando della riviera ravennate, affermi che secondo lui si tratta di un esempio perfetto di coabitazione di impianti estrattivi e bellissime spiagge (per chi non fosse pratico della zona, immergersi nel mare dei lidi ravennati equivale a fare un bagno nell’olio motore di un’automobile). Qualche dubbio ce l’ha anche il sindaco di un paese della Val D’Agri, in Basilicata, il quale ammette che il Centro Oli dell’Eni che si trova lì frutta circa due milioni di euro all’anno in royalties, ma rileva anche che la struttura è una cattedrale nel deserto, un’area industriale di 130 ettari che emette solo rumori ed esalazioni senza creare un vero indotto economico e occupazionale per la gente del posto. A questo proposito, una delle leve a cui ricorrono più frequentemente i sostenitori della corsa alla trivellazione è proprio la serie di vantaggi per l’economia del territorio. I sindacati dei lavoratori della chimica sono ovviamente contenti di questa ripresa, ma il loro settore è di nicchia. Legambiente ha invece provato a quantificare le prospettive dei prossimi venticinque anni e ha rilevato che i 100 miliardi di euro che permetterebbe di risparmiare e i 34.000 posti di lavoro che creerebbe l’attività estrattiva sono inferiori all’indotto che genererebbe un’implementazione del settore della green economy. Attualmente poi, l’attività petrolifera italiana ha un’incidenza minima sulla bilancia energetica del nostro paese, appena il 4%, potendo contare sull’estrazione di circa 5 milioni all’anno di greggio. I petrolieri sostengono che la potenzialità del sottosuolo italiano sarebbe fra i 100 e i 130 milioni di tonnellate, una quantità che non sarebbe in grado di garantirci l’autosufficienza energetica se non per pochi mesi. Non converrebbe allora puntare in altre direzioni, mantenendo l’attuale quantitativo di estrazioni made in Italy solo per affrontare il periodo di transizione verso un sistema energetico definitivo, pulito, rinnovabile e sostenibile? Inoltre, nella bilancia complessiva bisogna contare le perdite che l’attività estrattiva provoca nei settori con cui entra inevitabilmente in conflitto, come turismo, agricoltura, pastorizia, pesca e così via. In tutta Italia, sono molte le 'battaglie' che si stanno combattendo: da una parte sono schierate le compagnie petrolifere, dall’altra le comunità locali; le istituzioni, a seconda dei casi, prendono le parti degli uni o degli altri. Per esempio, lo scontro fra il comitato per la tutela del mare del Gargano e la Petroceltic Elsa, che verte sull’ipotesi di avviare un campagna di sondaggio alla ricerca di petrolio vicino alle isole Tremiti, si è conclusa con la temporanea vittoria dei cittadini (visto che il ministro dell’ambiente Prestigiacomo non ha firmato l’autorizzazione) rimandando la richiesta alla commissione per ulteriori approfondimenti. Più preoccupante è invece la situazione della Maremma, una zona considerata ad 'alta potenzialità'. Tre quarti del territorio provinciale di Grosseto sono interessati da decine di richieste di permessi di ricerca avanzati da numerose compagnie italiane ed estere. La Regione ha disinvoltamente concesso le autorizzazioni con la giustificazione che le attività non sono di estrazione vera e propria ma solo di esplorazione. Viene però da chiedersi come si comporterà se le ricerche dovessero dare esito positivo, considerato anche che buona parte dei permessi sono stati concessi all’interno di parchi naturali. Altre situazioni critiche si trovano un po’ in tutta Italia: in Brianza, nella bassa padana, all’isola d’Elba, in Abruzzo, a Pantelleria e lungo buona parte delle coste siciliane. È importante tenere alta la guardia in questa fase, poiché dopo un periodo di riflusso causato dalla crisi economica è il momento di ripartire, ma le modalità e gli obiettivi rispetto ai quali verrà pianificata questa ripresa saranno sicuramente decisivi per il futuro energetico, ma non solo, dell’Italia, e per molti anni.

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