Unschooling: questo sconosciuto, di cui tutti parlano (a sproposito)

Nel dibattito delle ultime settimane riguardo le vicende della "famiglia nel bosco" una delle dimensioni più bistrattate e meno capite è l'unschooling. Facciamo quindi chiarezza.

Unschooling: questo sconosciuto, di cui tutti parlano (a sproposito)

Nel dibattito delle ultime settimane riguardo le vicende di quella che ormai tutti chiamano la "famiglia nel bosco" una delle dimensioni più bistrattate e meno capite (anche purtroppo da parte di chi avrebbe tutti gli strumenti per farsi una rapida ricerca: le fonti non mancano) è l'unschooling. Legale, illegale, "non come si deve", roba da neorurali isolazionisti... se ne sono lette di ogni. Sento il dovere di cercare di fare chiarezza, con cognizione di causa dato che l'unschooling l'ho studiato e ricercato e lo pratico tuttora (ne ho anche scritto in tempi non sospetti nel mio libro "Io imparo da solo", Terra Nuova edizioni, 2019). 

Cos'è l'unschooling?

L'unschooling è un approccio all'educazione che, anziché adottare programmi predeterminati, asseconda la curiosità innata dei bambini e li supporta nell'esplorare gli ambiti che man mano interessano. Privilegia percorsi interdisciplinari, in cui i bambini imparano per interesse (quello che li appassiona) o per necessità (quello che hanno desunto che "serva" per diventare grandi nell'ambiente in cui vivono), con una motivazione intrinseca. Si fonda sulla capacità dei bambini di imparare, costruisce l'autonomia (l'imparare ad imparare), preserva e continua ad alimentare la curiosità, fa sì che l'apprendimento sia un percorso gratificante e spesso sinceramente gioioso per i bambini/ragazzi (nonostante gli inevitabili sbattimenti del dover anche passare per l'acquisizione di abilità e competenze attraverso tediosi esercizi, che affrontano perché gli servono per arrivare dove vogliono arrivare, che sia musica, sport, coding, la pubblicazione di un libro e chi più ne ha più ne metta).

E' interessante sapere che le origini di questo movimento educativo risalgono agli anni '60 negli Stati Uniti: il suo ispiratore, e chi ne ha scritto per primo, è John Holt, un maestro americano chiamato dal governo a elaborare una strategia di riforma del sistema scolastico. E' uscito da questi due anni di esperienza convinto che il sistema fosse irriformabile e che si dovessero percorrere vie alternative. Il suo primo libro, "Come falliscono i bambini", è frutto di questa esperienza; il secondo "Come imparano i bambini", del 1967, è stato tradotto in italiano solo nel 2019. Come dire: siamo rimasti un po' indietro nel dibattito al riguardo.

1. Unschooling NON COMPORTA ISOLAMENTO.
Il processo di apprendimento spontaneo o naturale, lo sa bene chi lo pratica con consapevolezza, è di assoluta e necessaria apertura alla realtà territoriale, culturale, sociale e intellettuale di riferimento, che vuol dire occasioni di incontro con i coetanei ma anche frequentazione di biblioteche, ludoteche, parchi e spazi pubblici, è attività di volontariato, ricreative, musicali... perché più ampio è l'accesso, più chi sta imparando è esposto all'esperienza di "come funziona" la comunità di riferimento, e più facilmente acquisirà le competenze necessarie a muovercisi nel "diventare grande". Lo conferma un sondaggio LAIF del 2024 che dipinge un quadro di famiglie attive sul territorio, che viaggiano e approfittano delle opportunità che il territorio mette loro a disposizione, con molte ore dedicate al gioco libero, non controllato da un adulto (attività di apprendimento per eccellenza dei bimbi in età di scuola primaria - anche della gestione della relazione con l'altro e dei conflitti).
Poi, voglio dire, fa comodo anche ai genitori sentirsi parte di un'alleanza educativa che coinvolge maestri "altri" (di musica, di recitazione, di pittura, bibliotecari, allenatori ecc), perché conforta: le sinergie alleviano il carico emotivo, mentale e pratico che il farsi responsabili in prima persona dell'educazione dei propri figli comporta.

2. Unschooling NON VUOL DIRE SENZA CONTROLLO.
L'istruzione parentale è legale e normata in Italia, e sotto questo ombrello lo è anche l'unschooling. Anche i bimbi e ragazzi unschooler sono chiamati ogni anno a presentarsi a un momento di accertamento dell'adempimento del dovere di istruzione da parte dei genitori presso una istituzione scolastica statale o paritaria.
Non serve autorizzazione preventiva perché la Costituzione Italiana pone in capo alla famiglia il diritto-dovere di educare i figli. Non sono richiesti (anche se sono possibili) accertamenti sulla capacità tecnica o economica dei genitori di provvedere: si tratta di una autodichiarazione che i genitori devono firmare. Del resto, in base a quali parametri dovrebbe essere misurata non è mai stato chiarito e insistere sulla "fondatezza" non farebbe altro che introdurre elementi di discrezionalità.

D'altra parte, che la valutazione della crescita della persona nella sue dimensioni non solo intellettuali ma anche relazionali, affettive, psicologiche e sociali, che è alla base dell'unschooling, venga appiattita su parametri e contenuti meramente scolastici (spesso anche rigidamente scolastici, nell'esperienza di molti) non rende giustizia né alla ricchezza di esperienze vissute da chi ne è al centro, né al valore di un percorso diverso che quindi può contribuire con la sua diversità a una società plurale.

3. Unschooling NON vuol dire "oppressione genitoriale", "privatizzazione dell'infanzia", campane di vetro o simili.
Nell'unschooling il ruolo della famiglia è quello di offrire un ambiente di supporto e sostegno, un "accudimento orientante" che, alla luce di tutti gli studi sulla psicologia dell'attaccamento (da Bowlby in poi) arrivando alla neurobiologia relazionale di Neufeld e Siegel, è alla base e a fondamento dello sviluppo di una reale autonomia relazionale, psicologica e sociale in età adulta. Infatti la relazione educativa in unschooling è improntata alla costruzione dell'autonomia, all'indipendenza, all'autodeterminazione da parte dei figli della propria traiettoria di crescita.

E non ha senso parlare di una "scelta imposta" ai figli, perché ogni scelta dei genitori, anche quelle dettate da necessità economiche o lavorative, è per forza di cose una scelta imposta ai figli (lo è mandare i figli a scuola, vivere in montagna o in città, che uso fare dei soldi, del tempo libero, che dieta proporre eccetera). Piuttosto, l'unschooling invita a una riflessione su quanto le proprie scelte di vita si allineano ai propri valori. Perché il punto dell'unschooling non è lavorare sui bambini per trasformarli negli adulti che vorremmo, ma lavorare su se stessi per diventare gli adulti a cui i bambini vorremmo si ispirassero.

4. l'Unschooling NON equivale a neorurali o terrapiattisti.
Molte famiglie che abbracciano questo approccio vivono in contesti urbani (la città offre moltissime opportunità culturali!), altre hanno scelto soluzioni più vicine alla natura, è trasversale.
Dato che l'obiettivo dei genitori è fare da mèntori garantendo ai figli accesso alle risorse educative (tra cui ovviamente biblioteche piene di libri, musei ecc), difficilmente i ragazzi saranno indottrinati perché esposti a una pletora e pluralità di informazioni. Impareranno anzi a confrontare e rapportarsi criticamente con le fonti.
Poi, che ci sia qualcuno che lo pratica male ci sta (anche nella scuola pubblica ci sono insegnanti che forse avrebbero valorizzato meglio i loro talenti in altre professioni, magari pure più gratificanti), ma non si può squalificare un approccio per questo.

5. L'Unschooling non è una negazione della scuola, ma il rifiuto che l'istruzione e l'educazione debba essere limitata alla scuola.

Quando si parla di scuola come servizio pubblico, spesso si dimentica che il bene pubblico che dovrebbe essere al centro del dibattito è rappresentato dalla cultura e dall'educazione in senso ampio, di cui la scuola è solo una delle agenzie di promozione. Chi pratica unschooling in genere è uno strenuo difensore del valore pubblico della cultura, e della necessità di rendere accessibili a tutti biblioteche, ludoteche, centri culturali, sportivi, aggregativi, teatri, concerti, parchi e spazi pubblici a misura di bambino, di ragazzo e anche di anziano in modo da facilitare gli scambi e la circolazione di idee, di esperienze e la fruizione di canali di espressione.

Finalmente di unschooling (un pochino) se ne è parlato: bisognerebbe che se ne parlasse di più, e con consapevolezza: è una scelta legale e legittima nel sistema di istruzione italiano ma in molti non lo sanno. Anche chi sceglie di iscrivere i figli a scuola compie una scelta, ma se non si conoscono le alternative non è una scelta informata; discutiamone, dibattiamone, confrontiamoci, dissentiamo, ma in modo costruttivo, rispettoso, con cognizione di causa e senza paura. Io resto a disposizione.

Per contatti: ele.piffero@gmail.com 

Foto: Karola G su Pexels

 

 

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