Petrolio, i grandi gruppi fanno fronte comune

La partita degli idrocarburi si gioca, nel grande scacchiere mondiale, sul piano delle alleanze tra i colossi del settore. Nell’arco di dieci giorni sono stati stretti due importanti accordi tra la britannica BP e la russa Rosneft e tra la nostra Eni e il gigante cinese Cnpc-Petrochina. Ricerca di nuovi giacimenti e sfruttamento di idrocarburi non convenzionali sono operazioni al centro dei patti stabiliti.

Petrolio, i grandi gruppi fanno fronte comune
Le azioni economico-tattiche compiute negli ultimi tempi dai grandi colossi petroliferi mondiali dimostrano come le compagnie degli idrocarburi si stiano orientando verso una strategia generale di alleanze tra gruppi, che permettano loro di mettere piede in tutti i Paesi chiave, dal punto di vista delle risorse come dei consumi (ossia della richiesta). A metà gennaio BP, il gigante britannico coinvolto nel grande disastro ambientale nel Golfo del Messico, ha stretto un accordo con la russa Rosneft che prevede uno scambio di titoli: BP deterrà il 9,5% delle azioni della compagnia russa, mentre Rosneft otterrà il 5% del capitale ordinario con diritto di voto della collega britannica. Inoltre il patto prevede una collaborazione tra i due gruppi per lo sviluppo di tre blocchi petroliferi (appartenenti a Rosneft) siti nella Russia artica. Le stime dicono che, in una regione di 125.000 km quadrati, siano presenti circa 5 miliardi di tonnellate di petrolio e 3.000 miliardi di metri cubi di gas: una riserva interessante. In tutta risposta, a pochi giorni di distanza, l’italiana Eni ha firmato un memorandum of understanding con Cnpc-Petrochina, la più grande compagnia petrolifera quotata al mondo, sulla base del quale i due gruppi potranno espandere la loro presenza in Cina come a livello internazionale. Tre i punti cardine dell’accordo siglato. In primo luogo le due compagnie uniranno gli sforzi e le tecnologie di cui sono in possesso per aumentare le estrazioni in Africa. Sotto il mirino non solo gli idrocarburi convenzionali, bensì anche e sempre di più quelli non convenzionali (quali accumuli di greggi extra pesanti e bitumi, nonché gas naturale, intrappolati in giacimenti a bassa permeabilità). “In Africa Eni è storicamente protagonista in tutti i Paesi petroliferi - ha affermato Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni - in Egitto, Algeria, Libia e Tunisia siamo leader, ma operiamo massicciamente anche in Nigeria, Congo, Angola, Mozambico e siamo alla fase esplorativa in Ghana, Togo e Mali. Considerato il boom della presenza cinese nel continente, abbiamo ritenuto opportuno guardare a nuove risorse insieme, piuttosto che da soli”. Il secondo punto del memorandum prevede la possibilità che Petrochina acquisisca una partecipazione in alcuni asset di Eni. Quest’ultima, invece – e qui veniamo al terzo nodo dell’accordo - metterà a disposizione il proprio know-how, ossia le conoscenze acquisite (soprattutto in Nord America), nell’ambito del gas shale al fine di un futuro sfruttamento di alcune risorse scoperte in Cina, già sotto il controllo di Petrochina. Il gas shale è un idrocarburo non convenzionale, ossia gas ricavato da rocce sedimentarie argillose (si parla infatti di 'argillite petrolifera'), formatesi centinaia di milioni di anni fa; frantumando le rocce è possibile estrarre gli idrocarburi ivi intrappolati. Esso nell’ultima decade è diventato una risorsa di importanza crescente per gli Stati Uniti, che posseggono il più grande giacimento finora scoperto (tra gli stati di New York e della Virginia). L'EIA, l'agenzia americana dell'energia, stima che nel 2035 il 45% del fabbisogno nazionale di gas verrà soddisfatto tramite estrazione da rocce argillose. L’interesse per tale idrocarburo non convenzionale è cresciuto di recente anche in Canada, Europa, Asia ed Australia. In Oriente è la Cina, per l’appunto, ad essere in possesso di giacimenti potenziali di dimensioni non trascurabili, mentre in Europa si guarda alla Polonia, che ha iniziato gli scavi. Tornando all’accordo tra Eni e Petrochina, fondamentale sarà dunque, nella politica comune dei due gruppi, la ricerca tecnologica avanzata, al fine dell’estrazione e trattamento delle risorse non convenzionali, in Cina e non solo. Nel complesso si tratta di un’alleanza che determinerà una maggiore penetrazione dell’Italia in Estremo Oriente (e in Africa). Tanto l’amministratore delegato quanto il presidente di Eni, Roberto Poli, si dichiarano molto soddisfatti e ottimisti. “Fornire gas alla Cina assieme ai suoi big dell'energia nazionale è l'affare a cui punta Eni, forte dell'esperienza nello shale gas avviata nel 2008 negli Usa, attraverso la controllata Quicksilver”, ha dichiarato Scaroni. La Repubblica cinese è interessata a garantirsi in ogni modo la disponibilità della maggior quantità possibile di carburante a livello interno, in modo da non dover dipendere dall’acquisto di materia prima da altri Paesi. È opportuno ricordare però che essa, pur essendo il maggiore consumatore mondiale di energia, basa praticamente tutto il suo approvvigionamento sul carbone. La richiesta, che non accenna a diminuire, unita alle eccessive emissioni date dalle centrali a carbone obbliga il Paese a rivolgersi ad altre fonti. “Dovendo alimentare la crescita globale più sostenuta, ed essendosi impegnata a tagliare le emissioni inquinanti del 40% entro il 2020, è chiaro che la Cina sta per aprire un mercato del gas molto interessante, anche a livello upstream”, ha aggiunto Scaroni. In realtà, uno studio condotto nel 2010 alla Cornell University (sotto la guida del professor Robert W. Howarth) ha dimostrato che le emissioni di gas serra legate allo sfruttamento del gas shale sono tali che il passaggio dal carbone ad esso non risulti vantaggioso. La frantumazione della roccia determina liberazione nell’atmosfera di parte dell’idrocarburo ed è ben noto che il metano, maggior componente del gas naturale, è uno dei più potenti gas serra. Niente di nuovo, dunque, sul fronte ecologico.

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