Che cosa c’è da vedere

“La visione di Ghirri non si impone sul mondo, non lo stravolge e non lo manipola, non pretende di crearlo: lo inventa”. Fino al 17 ottobre prossimo è in esposizione al Museo Maxxi di Roma la mostra 'Pensare per immagini' del fotografo Luigi Ghirri.

Che cosa c’è da vedere
Nella mostra ‘Pensare per immagini’ del fotografo Luigi Ghirri (Scandiano, Reggio Emilia 1943 – Roncocesi, Reggio Emilia 1992), in esposizione al Museo Maxxi di Roma fino al 17 ottobre 2013, c’è una domanda per ogni scatto: decine e decine di domande. Ogni immagine è una richiesta di senso al mondo, la ricerca di un punto di vista ‘frontale’ capace di raccontarlo. Il metodo di Ghirri, la sua forma di relazione con la realtà, è stato interrogare ciò che vedeva. Così, inaspettatamente, ci sono piccoli frammenti di paesaggi prossimi e abituali, come la provincia in cui egli stesso ha vissuto, che appaiono mitici e stranianti, e senza l’aiuto di una didascalia non sapremmo bene dove collocarli; ma ci sono anche luoghi lontani ed esotici, città, regge e monumenti che di solito si costituiscono come mete straordinarie, che risultano vicini e familiari. Sosteneva Ghirri di non amare i viaggi di evasione, quelli che si fanno per incontrare l’altrove che mai ci potrà riflettere e a cui mai potremo appartenere; di preferire invece le gite fuori porta e anche quelle entro le mura, possibilmente nel raggio di tre chilometri intorno casa. È lì che Ghirri sperimentava l’irriducibile strazio della distanza e cercava di contraddire quella incapacità o impossibilità di narrare e narrarsi che le periferie della natura e dell’anima hanno come caratteristica: l’indolente consuetudine che ammutolisce sguardi ed esistenze in cambio di un’illusoria intimità. Il suo obiettivo si apriva e chiudeva come l’occhio di un bambino, che osserva le cose non solo per la prima volta ma in modo inopportuno, che non le conosce e non può quindi ri-conoscerle né saperle fino a smettere di esserne impressionato. Arrivando davanti a una vetrina o a una spiaggia, senza l’aspettativa del loro certo e condiviso significato, riusciva a cogliere l’imprevisto e il suo segreto linguaggio. Non si tratta di semplici paradossi, nonsensi e associazioni ironiche (davanti allo stabilimento le gambe di una donna dipinta in costume da bagno con su il cartello ‘apertura ore 14.30’), ma di un eloquente ‘montaggio’ che la realtà produce da sé, costruendosi giorno dopo giorno, strato dopo strato, impercettibilmente. La visione di Ghirri non si impone sul mondo, non lo stravolge e non lo manipola, non pretende di crearlo: lo inventa. Di quella banalità che nasconde infinite e miracolose storie, Ghirri prova a diventare spia, interprete, traduttore. Le sue immagini lasciano orme delicate nella memoria di eventi apparentemente impensabili e mai accaduti. Forse la nostalgia che lo portava fuori casa per andare verso altre case e silenziose serrande circondate da piastrelle e rampicanti è la stessa che ci spinge a ogni trasloco, a spostarci di isolato in isolato, a chiudere e riaprire scatoloni polverosi, sistemando vecchi cd in nuove rastrelliere. È nostalgia di un’attenzione diversa alle solite cose, desiderio eternamente reiterato di vedere tutto daccapo, che il silenzio del pregiudizio venga infranto da un’esclamazione di meraviglia, che l’assuefazione smetta di accecarci. Un tentativo per ogni scatto, una domanda come risposta.

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