Civiltà della vita, civiltà della morte

Fin dalle epoche più lontane è ben radicata nella percezione dell’umana cultura, la co-presenza di due tendenze che albergano all’interno dell’essere umano: una incline ad affermare con forza il valore della vita; l’altra, volta a negare e a respingere con pari intensità questo principio.

Civiltà della vita, civiltà della morte
Dissidio cosmico e dualismo psichico Risale agli anni Venti del secolo trascorso la delineazione da parte di Freud della presenza di due tendenze - pulsioni, per la precisione - presenti nell’animo umano: eros e thanatos. La prima, il cui nome deriva da quello della divinità greca dell'amore, mira a creare - secondo il fondatore della psicoanalisi - organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate. La seconda, invece, esprime una tendenza regressiva, tendente a far tornare ciò che è vivente a una forma di esistenza inorganica. Analoghi concetti (ma non identici) saranno poi quelli di destrudo, vale a dire l'energia della distruzione, e di libido, la pulsione sessuale; quest’ultima nell’interpretazione che fornirà successivamente C.G. Jung perderà il primitivo significato di pulsione sessuale, per acquisire quello assai più ampio di "energia psichica" e di "trasformazione spirituale". Ma ben prima degli esiti raggiunti dalla psicologia contemporanea, altri avevano notato la presenza di una sorta di dualismo psichico nell’essere umano. Lo stesso Freud riconobbe il suo debito nei confronti del filosofo presocratico Empedocle. Quest’ultimo parlava dell’esistenza di un dissidio cosmico fra i principi di philìa (amore o amicizia) e di neikos (odio o discordia). Non solo: Eros, nelle religioni dell'antica Grecia, è il nome del dio dell'amore, anche se originariamente non era una divinità ma una pura forza di attrazione. In seguito, nell’opera di Esiodo ad esempio, prende le sembianze di una divinità primordiale, antica come Gea stessa (la terra). Il potere di Eros diventerà illimitato, rappresentando un elemento attivo fin dai tempi primordiali. Eros, in quel capolavoro che è il Simposio di Platone, viene descritto come figlio di Penia (la mancanza) e di Poros (l’ingegno). In questo modo egli incarna la ricerca di completezza che connota l'amore, con le mille astuzie a cui sono pronti coloro che amano per raggiungere i loro scopi; in chiave filosofica, la sua natura ingegnosa, porta Eros ad essere la via calda verso la conoscenza. Viceversa, Thanatos, nella mitologia greca era una divinità che personificava la morte. Veniva descritto come figlio di Erebo (l’oscurità) e della Notte, nonché fratello gemello di Hypnos, il sonno. Era rappresentato come un uomo barbuto ed alato, insensibile alle preghiere perché dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo. E fermiamoci qui, per quanto riguarda i rimandi ai miti e agli dei della Grecia antica. Ci sarebbe da perdersi in quei labirinti di genealogie, di saghe, di avventure (un buon viatico per chi volesse inoltrarsi in quel mondo è costituito dai manuali di Károly Kerényi e di Robert Graves). Ora, questo ampio preambolo intende semplicemente illustrare come sia ben radicata nella percezione dell’umana cultura, fin dalle epoche più lontane, la co-presenza di due tendenze che albergano all’interno dell’essere umano: una, aggregante, incline ad affermare - con forza, con esuberanza e passione - il valore della vita; l’altra, volta a negare e a respingere con pari intensità questo principio. Siamo tutti abitati dalla luce e dalle ombre, in noi esistono le potenzialità che hanno animato i personaggi più sublimi che la storia abbia mai conosciuto, così come quelle oscure e inquietanti che non vorremmo mai conoscere. Il dentro è fuori Questo dualismo non resta confinato nel foro interiore della vita psichica individuale, ma attraverso di essa si esprime nel sociale, in ogni momento e in ogni frangente. È lì, nelle decisioni che prendiamo, negli atti comunicativi, nei comportamenti individuali e nelle interazioni collettive. E ancora: è nelle città e nelle case che edifichiamo, nell’organizzazione sociale che siamo in grado di costruire. Ecco, proviamo a questo punto a declinare un simile discorso con quello che sta accadendo in Giappone. In breve: tutto ciò è l’espressione di una cultura della vita o di una cultura della morte? I dati ignorati o sottaciuti dai vertici della Tepco e del governo giapponese - precedenti al terremoto e allo tsunami - che hanno condotto a mantenere in essere la centrale (mentre altri Paesi decidevano di adottare un nuovo approccio del risk management) come li collochiamo? Quali saranno state le ragioni per cui le autorità di Tokyo hanno deliberatamente ignorato i pericoli denunciati, due anni prima, da un funzionario dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica? Per difendere e tutelare la vita dei cittadini o per il suo contrario? Le domande andrebbero ulteriormente estese. Ad esempio: che senso ha ricorrere ad una forma di energia che si è rivelata estremamente pericolosa per l’impatto sull’ambiente e la sicurezza delle persone (dal rischio di contaminazione, ai problemi irrisolti circa lo smaltimento delle scorie radioattive)? E ancora: associamo spontaneamente l’energia nucleare al pericolo di morte o alla pulsione di vita? Ma non basta, non è solo la questione nucleare ad essere investita. Lo è innanzitutto l’economia che ad essa vuole con folle ostinazione ricorrere e il sistema sociale da essa prodotto. Cosa si propone e di chi è al servizio l’attuale dominio economico? Non si possono non ricordare a tale proposito le allarmanti parole di Serge Latouche, che compaiono nuovamente nel volume L’invenzione dell’economia (tradotto l’anno passato per Bollati-Boringhieri), sull’odierna affermazione del mito totalitario dell’economia e del lavoro. Il dominio del discorso dell’economia comporta una scelta che rischia di portare a morte l’umanità stessa, volendo monetizzare ogni cosa, creando e modellando un mondo in cui l’economia è tutto - al contempo è il mezzo e il fine -, e la vita, la nuda vita degli uomini, delle donne, degli animali e delle piante è un nulla da manipolare al servizio dei pianificatori di turno. È invece possibile pensare a una prospettiva in cui si possa affermare una civiltà in cui la vita sia affermata, così com’è, semplicemente? È così assurdo ripensare una storia in cui sono assenti le ossessioni di questi sistemi produttivi e finanziari, i quali ignorano programmaticamente i bisogni e i desideri dei viventi? Una benedizione originaria Per finire. Qui, proprio qui, vanno ripensate le eredità che ci hanno lasciato le grandi tradizioni spirituali e religiose, le quali possono soccorrerci quando sanno mettere al centro della propria riflessione la “benedizione originaria” (per adoperare un’espressione di Matthew Fox, di cui si è già parlato in un precedente intervento), in grado di abbracciare ogni forma che abita e vive su questa terra. Forse per gli esseri umani non è possibile affrontare integralmente una questione così ampia, di dimensioni cosmiche, come quella che ci troviamo drammaticamente dinanzi, senza una sensibilità religiosa e una spiritualità anch’esse di portata cosmica. Così, alla fine, dopo tanto discorrere, ci troviamo riportati all’interno e nel vivo di quel conflitto cosmico tra vita e morte di cui parlavano e su cui si interrogavano, secoli e secoli fa, gli antichi greci. E, come sempre, è nelle nostre mani decidere quale strada imboccare.

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