Cosa fare quando il lavoro avvelena corpo e mente

«Una società che mette il denaro al di sopra dei valori umani produce individui malati, alienati e infelici»: con questa frase di Erich Fromm inizia il libro "Lavoro tossico" di Isabella Schiavone edito delle edizioni Nutrimenti

Cosa fare quando il lavoro avvelena corpo e mente

«Una società che mette il denaro al di sopra dei valori umani produce individui malati, alienati e infelici»: con questa frase di Erich Fromm inizia il libro "Lavoro tossico" di Isabella Schiavone edito delle edizioni Nutrimenti. Una interessante analisi che certifica ulteriormente lo stato drammatico in cui versa il mondo del lavoro, svolta da una giornalista che ha lavorato in televisione per vent'anni, al TG1 in particolare e con la prefazione redatta da un pezzo da novanta della televisione come Gianni Riotta, addirittura ex direttore del TG1 e attualmente docente alla Princeton University.

Siamo quindi certi che non si tratta di estremisti, luddisti, “talebani” o nemici del progresso, anzi…

Eppure il quadro che delinea l’autrice del mondo del lavoro attuale in Italia è terrificante, con dichiarazioni pesantissime che sorprendono provenendo da chi ha fatto parte per così tanti anni della televisione (per lo più del primo canale di Stato) ovvero la cassa di risonanza del potere per eccellenza. Vediamo alcune delle affermazioni dell’autrice che già da sole chiariscono in che situazione tragica siamo: «Mondi professionali che sempre più assomigliano ad organizzazioni criminali….il potere fine a se stesso. Il bisogno di comando e di controllo, che annulla confronto, crescita e diversità».

«L’Italia è un paese corrotto nel suo dna mentale».

«L’Italia sembra essersi persa nel labirinto dell’inciviltà».

«Tutti devono rispondere ad una logica, a una visione unica, a un indirizzo».

«Il mondo del lavoro in Italia è una giungla, dove va avanti il più forte, chi ha maggiore capacità di resilienza e adattamento, chi sa di non avere alternative o che finge di non vedere. O, semplicemente chi accetta o sposa il sistema. Connivente - come si fa con la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra – per sopravvivere. Cieco e sordo al richiamo del bene e del giusto, il professionista di oggi è inevitabilmente corrotto nel corpo e nello spirito».

«Il lavoratore, in Italia, è un Indiana Jones che si tuffa ogni giorno in una giungla di nonsense e paradossi, cercando di uscirne vivo».

«Vivere in modo insensato, vivere per lavorare, intossicarsi quotidianamente in ambienti di lavoro disfunzionali inevitabilmente farà ammalare, facendo somatizzare il malessere fino a renderlo concreto e tangibile».

«Siamo purtroppo talmente abituati a vivere in modo insano da considerare accettabile ciò che ci danneggia».

«Il mondo del lavoro sa essere cinico e spietato».

«Programmati per lavorare, consumare, raggiungere il prossimo obiettivo senza vivere. Programmati per ucciderci».

«Viviamo molto spesso in città frenetiche, piene di traffico e smog, che non accolgono ma anzi sembrano odiare i propri abitanti. Dove vige l’omologazione in ogni cosa: dalla fruizione del tempo libero allo sport da praticare. Dove i rapporti umani sono relegati in confini ristretti a causa del poco tempo a disposizione. Ci si vomita addosso insoddisfazione e stress al telefono. La società della performance sta mangiando se stessa e partorendo un movimento di ritorno».

«Il modello che associa il successo professionale di una persona (ma anche il suo valore personale) a orari lavorativi estesi e guadagni elevati si sta dimostrando sempre più insostenibile. La continua e costante connessione digitale sta causando stress, esaurimento e una netta diminuzione della qualità della vita».

L’autrice riporta la testimonianza di F., giornalista di 47 anni che esordisce così: «E’ da quando ci sono questi smartphone diabolici che la situazione è peggiorata...». 

A questo proposito notiamo che se si analizza criticamente lo smartphone, viene spesso risposto che non bisogna demonizzare lo strumento; provate e dirlo a persone come F. che lo descrivono appunto diabolico senza il minimo dubbio.

Un'altra testimonianza di Elena che viene riportata, è quella di una situazione lavorativa infernale che come molte altre simili, viene descritta ai limiti del martirio dove addirittura il medico che la tiene in cura a causa delle angherie lavorative, le suggerisce sostanzialmente di sopportare perchè secondo lui è più importante la carriera che la salute.

La Schiavone commenta drasticamente quella che, per chi si occupa della questione lavorativa da tempo, è una ovvietà:  «Il benessere psicofisico sul lavoro non è degno di rispetto nella nostra società, non è neppure annoverato in una scala di valori immaginaria. Prima vengono il potere, il denaro, la visibilità, lo scarico di responsabilità».

Come avviene normalmente in testi simili, vengono riportate ricerche, rapporti, analisi e dati impressionanti: super lavoro, tanto stress, psicofarmaci, malattie, poca vita, burnout a profusione, depressione, stanchezza cronica, pensieri suicidi e a volte anche atti suicidi, sofferenza, dolore, umiliazioni, insonnia, sacrifici continui, solitudine, problemi relazionali, famiglie, figli e partner trascurati, sensi di colpa, il lavoro che diventa una droga, carichi di lavoro insostenibili, richieste assurde, mobbing, lotte intestine, umiliazioni, aggressività, questi sono gli ingredienti giornalieri di quello che un tempo doveva essere l’attività che nobilitava l’uomo e la donna, invece sono situazioni “normali” e diffuse da cui non si dovrebbe fare altro che scappare a gambe levate.

La Schiavone ci informa che gli impiegati sono i più “fortunati” e passano non meno di otto ore al lavoro, poi ci sono i quadri e i dirigenti (cioè quei soggetti che fin da bambini ci dicono siano persone di successo che fanno carriera e che, in quanto tali, tutti dovremmo imitare) dalle dieci alle quattordici ore al giorno. Non osiamo immaginare in quale stato siano quelle persone anche al di fuori del lavoro...

La stragrande maggioranza di entrambe le categorie, nei vari rapporti in merito, afferma che preferirebbe avere più tempo libero a scapito di meno guadagno. La gente è così disperata che rinuncerebbe anche a un po’ del Dio denaro pur di vivere. 

La Schiavone analizza che «….è necessario uscire dalla visione tipica della cultura occidentale, basata sull’individualismo e non sulla cooperazione, sulla performance individuale e non sulla condivisione».

Bello e condivisibile, peccato che siamo nella società capitalista dove tutti competono con tutti e il “mors tua vita mea” è la legge. Basta andare in una qualsiasi azienda dove lo scopo è distruggere la concorrenza per rendersene immediatamente conto. Se ci fosse cooperazione e condivisione saremmo in un sistema completamente diverso da quello capitalista, che appunto non prevede questi aspetti per suo stesso Dna.

In merito alla figura del leader, l’autrice scrive che «il leader deve essere innanzitutto una persona risolta, dotata di equilibrio mentale ed emotivo, empatica e con un alto senso etico».

Anche questo molto bello, ma cosa si intende per senso etico? La stragrande maggioranza delle aziende o dei lavori che vengono svolti serve a sfornare prodotti o servizi che sono dannosi per sé, per gli altri e per l’ambiente. In questo caso dove sarebbe l’etica?

In quanto leader posso forse (nei fatti non succede praticamente mai) tutelare la salute dei lavoratori di una fabbrica, di un ufficio ma se quella fabbrica o ufficio lavora producendo qualcosa che è evidentemente dannosa per gli altri e/o l’ambiente, l’etica inizia e finisce velocemente in maniera abbastanza ipocrita. L’autrice cita l’Institute for Public Policy Research del Regno Unito che ribadisce l’importanza di considerare la salute dei lavoratori come un fattore determinante per la prosperità economica.

Ma di quale salute si parla Di tutti i lavoratori o solo di quelli che concorrono alla prosperità economica loro o del proprio datore di lavoro?

Perchè molto spesso, per non dire quasi sempre, la prosperità economica si basa sulla sofferenza, la schiavitù, la pelle e il sangue anche di altri lavoratori lontani dagli occhi e dal cuore. In quel caso dove sarebbero l’etica e la salute da salvaguardare?

L’autrice chiarisce il suo punto di vista quando afferma: «Ciò che manca, probabilmente è una cultura del lavoro che non sia l’esito della società capitalistica, in cui materialismo e individualismo sono visti come l’unico orizzonte possibile». 

E ci troviamo d’accordo ma l’intero cosiddetto “benessere economico” di cui sopra si basa sulla competizione capitalista, quindi la soluzione quale sarebbe? Una società comunista? Non è chiaro e non viene citato quale tipo di società possa rispondere ai parametri esposti dall’autrice. 

L’autrice rincara la dose quando afferma: «Non si lavora solo per il guadagno. Lo diciamo tutti, ma la cultura del lavoro non lo mette in pratica, i sindacati pensano ai posti di lavoro, il governo al PIL. Il resto, quando se ne parla, ingenera anche un certo fastidio».

«E’ arrivato il momento di andare controcorrente, rimettendo al centro l’essere umano».

Bene siamo d’accordo anche in questo caso; allora se non si lavora per i soldi, per il PIL o per mantenere il posto di lavoro non importa quale e come, e dobbiamo rimettere al centro l’essere umano (noi ci aggiungeremmo anche l’ambiente), ci troviamo di fronte a una società completamente diversa da quella attuale, di cui però purtroppo l’autrice non ne delinea le caratteristiche, né dà indicazioni concrete.

L’autrice insiste affermando che «...bisogna cominciare a privilegiare il benessere rispetto alla corsa senza fine della crescita economica».  E anche in questo caso siamo d’accordo, ma se si privilegia il benessere rispetto alla crescita economica, si perde automaticamente la competizione nazionale e internazionale con i concorrenti. E se si perde la competizione, ci dicono che il paese va in crisi e se va in crisi, ci dicono che siamo poveri, non c’è benessere economico, ecc. L’autrice a anche a queste ovvie e logiche deduzioni, non dà purtroppo risposte.

Come proposte, la Schiavone si augura che si intervenga dal punto di vista legislativo, anche se lei stessa delinea un quadro di ben poco interesse della politica in questo senso, così come dal punto di vista sindacale che, si sa, fa venire sempre prima gli aspetti economici di qualsiasi altra cosa, che sia la salute delle persone o quella dell’ambiente, storicamente per il sindacato ultimissima ruota del carro, se non del tutto inesistente.

Inoltre l’autrice propone di introdurre la pratica della mindfullness (una pratica di meditazione sviluppata a partire dai precetti del buddismo) nei luoghi di lavoro per renderli meno stressanti e cita le parole del famoso monaco buddista Thich Nhat Hanh che si esprime in merito all’aspetto meditativo: «Trasforma l’ambiente di lavoro per renderlo più pacifico e gioioso, creando momenti di spazi e calma, lavorando in cooperazione con gli altri e generando la sensazione di una comunità che lavora insieme».

Bellissimo ma forse un po’ ingenuo e anche decisamente illusorio, non trovate?

Magari si può fare in qualche ufficio retto da rari illuminati ma il lavoro non è solo quello d'ufficio.

Immaginate le parole del monaco in un allevamento intensivo, in un mattatoio, in una catena di fast food, nei magazzini di Amazon dove non hai nemmeno il tempo per andare la bagno, in una acciaieria, in una miniera di carbone, in un call center dai ritmi serratissimi, in una delle tante fabbriche lager dove si producono cellulari, vestiti, giocattoli, cinafrusaglie di ogni tipo, senza soluzione di continuità, in un campo dove si raccolgono i pomodori dodici ore al giorno con 40 gradi di temperatura, in uno dei centomila luoghi di lavoro dove le persone sono solo numeri da sfruttare anche fisicamente, non solo mentalmente come si fa negli uffici. E dove figuriamoci se si ha il tempo di fare meditazione o simili e dove sopratutto si hanno ben altre sensazioni che quelle di una “comunità” che lavora insieme. È assai difficile trasformare schiavi o lavoratori sfruttati, che fanno lavori alienanti a ritmi disumani, in una comunità dedita alla gioia e alla calma. Inquadrare il mondo del lavoro è cosa complessa dalle molte sfaccettature, che non si può ridurre ad analisi parziali, a soluzioni palliative o inverosimili e che spostano poco o nulla dei problemi reali e centrali. La situazione lavorativa attuale generica è drammatica e va ripensata complessivamente, laddove il lavoro deve tutelare le persone e l’ambiente e questi due aspetti si intendono estesi anche oltre la nostra scrivania. Fortunatamente ci sono soluzioni reali e tante possibilità lavorative che possono essere percorse e che vanno proprio nella direzione della costruzione di un nuovo mondo, effettivamente migliore e vivibile per tutti, abbandonando i tanti lavori tossici e malati da lasciare il prima possibile.

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Foto: Anna Tarazevich su Pexels

 

 

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