I diari di Lampedusa. Seconda parte – La regia dell'emergenza

Anna Garrapa continua a raccontarci il suo viaggio a Lampedusa, avvenuto ad agosto 2011, all'interno del progetto 'presidio permanente a Lampedusa' promosso dalle Brigate di solidarietà attiva.

I diari di Lampedusa. Seconda parte – La regia dell'emergenza
Imbarchi e baracconi... sacchetti blu come valigie di cartone La prima volta che sono andata al molo di Cala Pisana a vedere gli imbarchi sono riuscita a dare un significato al progetto di monitoraggio. Li ho visti passare, giovani e giovanissimi, con facce vere, procedere nell’imbarco con in mano sacchetti tutti uguali di plastica azzurra e quando qualcuno sorridente salutava dai pullman i turisti ed i giornalisti curiosi appollaiati sulle rocce mi sono chiesta quanto fosse labile il confine tra un sincero gesto di accoglienza ed un’imbarazzata menzogna: dopo le traversate del deserto, la fuga dalle guerre e dalla povertà, le notti in balia del mare, i giorni passati a lottare per la sopravvivenza o per realizzare un sogno di libertà, la vera meta finale deve essere sembrata vicina, la terra, l’Europa… ed io che li guardo e rispondo incerta ai saluti pensando ai gironi successivi, ai CARA, ai CIE, ai limiti concreti dell’asilo… non riesco a mentire fino in fondo, ma non riesco a guardarli senza rispondere ai loro sforzi ed ai loro sogni almeno accennando un imbarazzato sorriso. Comincio a sentirmi sempre di più parte di uno spettacolo perverso e quando mi ritrovo ad osservarli durante l’imbarco, durante lo sbarco, durante i trasferimenti in pullman e mi vedo circondata di telecamere, macchine fotografiche, occhi ed orecchi pronti a carpire un’informazione in più, obiettivi orientati alla ricerca dello scoop, progetti documentaristici pressoché tutti uguali, mi pare di essere allo zoo, dove ciò che conta non è la storia di persone vere, bensì l’immagine rubata che ogni spettatore riesce a collezionare per realizzare il proprio progetto, per fare il proprio lavoro o semplicemente per poter dire “c’ero anch’io e li ho visti”. Sento sempre meno la voglia di esserci eppure non riesco a smettere di correre a cercarli, di sapere… vado in ambulatorio a cercare informazioni e continuo ad incontrare occhi sbarrati in mondi paralleli di memorie e vissuti inimmaginabili, distanti dal circostante disordine di piccoli gesti solidali, di scortesie ed incompetenze, di interessi vari e sospetti reciproci. Talvolta mi sento sovrastata dalla sensazione che in fondo la sorte dei migranti sia un perno microscopico intorno al quale ruota un reticolato infinito ed intricato d’interessi politici ed economici… Lampedusa ma quanto ci costi?! Una mattina di agosto all’aeroporto mentre assistevo da lontano al trasferimento di venti maghrebini, diretti al CIE di Ponte Galera a Roma, pensavo ancora una volta ai costi di trasporto e di gestione dei centri, ripensavo ad un articolo letto prima di partire sui costi di Frontex per i rimpatri aerei e ripensavo ai racconti dei pescatori e di alcuni abitanti dell’isola. Pensavo alla storia di Lampedusa, isola un tempo più autosufficiente economicamente, in cui oltre alla pesca si praticavano l’agricoltura e la pastorizia di sussistenza, pensavo all’immagine narrata di un’isola disegnata da vitigni di uva dolce e di carrubi, ai pomodori, al pane fatto in casa ed ai formaggi. Il progressivo disboscamento necessario alla creazione di spazio per le coltivazioni e per il moltiplicarsi delle costruzioni ha inevitabilmente inaridito il terreno. Negli anni cinquanta con l’arrivo della corrente elettrica, la possibilità di conservare il pesce nel ghiaccio ha indotto molti ad abbandonare l’economia del baratto legata ad agricoltura e pastorizia per dedicarsi alla pesca ed all’economia monetaria legata al suo commercio. Oggi anche la pesca è al suo tramonto, un po’ per la riduzione della pescosità del Mediterraneo un po’ per l’assenza di ricambio generazionale; l’agricoltura non esiste quasi più, così come la pastorizia. Ci sono solo conigli, cactus e rocce spoglie, battute dal sole e dal vento. Ora a Lampedusa si vive di turismo, tutto viene da fuori e tutto costa tantissimo: l’acqua, il cibo, il petrolio per i trasporti e per la corrente elettrica; c’è solo un liceo scientifico, un solo poliambulatorio in cui i medici specialisti si alternano in giorni precisi della settimana (per esempio se ti fanno male i denti martedì, devi aspettare che arrivi il dentista venerdì). Alla fine ho pensato che lo Stato, piuttosto che ostinarsi a spendere i soldi affidatigli per spezzare la vita di uomini e donne libere sulla faccia della terra, potrebbe spenderli molto meglio per permettere ad esempio ad una donna lampedusana di partorire una nuova vita a casa sua, senza dover spendere centinaia e centinaia di euro per trasferirsi ad Agrigento o a Palermo con la mamma o la sorella un mese prima di partorire. È di nuovo "emergenza a Lampedusa" Tra il 13 ed il 14 agosto sono sbarcate a Lampedusa più di 2000 persone. È di nuovo emergenza a Lampedusa, così dicono i telegiornali nazionali da qualche giorno. È vero, l'emergenza c'è, ma è un'emergenza umanitaria. I centri dovrebbero essere predisposti per 'accogliere' non più di un migliaio di persone, ma da giorni vi dimorano una media quotidiana di 2000 persone. Pare che nei centri i materassini di gommapiuma in cui dormono i migranti siano sparsi ovunque, il sudicio la faccia da padrone, le condizioni igieniche assolutamente degradanti e rischiose, la promiscuità ed il delirio organizzativo generalizzati. Eppure ancora una volta si parla di emergenza a Lampedusa come se vi fosse un'invasione di barbari. Sull'isola tornano a scaldarsi gli animi degli abitanti, che vivono di un turismo mediamente ridotto rispetto agli anni passati e l'indignazione nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa diviene indelebile. Si cerca di convincere amici, parenti e conoscenti che non è vero, che a Lampedusa non c'è niente, i migranti non ci sono, o meglio non si vedono! Non sono per strada, non galleggiano inermi nelle calette e tra gli scogli, arrivano al molo e sono immediatamente trasportati tra le recinzioni, in luoghi inaccessibili ai più, laddove restano invisibili finché non vengono trasferiti tramite pullman e furgoni verso navi che li condurranno ancora più lontano. Eppure la retorica dell'emergenza vince ancora. Ancora una volta la strumentalizzazione di un dramma umanitario creato ad arte serve alla politica nazionale per agitare lo spauracchio del nemico comune, quello che aggrega, che convoglia voti, che offusca la comprensione delle reali cause che generano i crescenti squilibri economici, che distoglie l’attenzione dalle scelte dettate da interessi politici ed economici, le quali vengono prese in luoghi sempre più inaccessibili e tramite meccanismi incontrollabili ai più e che continuano ad alimentare ingiustizia ed instabilità. Allo stesso tempo a livello locale si consolida un’adesione progressiva ad una condizione surreale e disumana: un’enorme dispiegamento di forze dell’ordine che convive con le attività di tutti i giorni saturando lo spazio pubblico, la presenza di un apparato militare capace di convogliare migliaia di persone verso illegittimi centri di detenzione forzata all’oscuro della stagione turistica, rassicurano e trovano una tacita giustificazione. In fondo la memoria della vera emergenza vissuta tra febbraio ed aprile è ancora fresca, quella stessa emergenza che ha generato un’istintiva e diffusa solidarietà, che non ha lasciato margine di scelta di fronte ad insormontabili difficoltà comuni inducendo un’innegabile spirito di accoglienza, che ha provocato una generalizzata protesta contro il pianificato abbandono istituzionale, ma che ha portato con sé anche tanta paura, fatica, difficoltà economiche ed un trauma collettivo forse ancora non del tutto digerito e superato. Ancora una volta la regia dell'emergenza veicola efficacemente strategie politiche ed economiche e quando si diffonde la notizia di una qualche violazione eclatante avvenuta all’interno dei centri i lampedusani che di fatto decidono di radunarsi in segno di protesta di fronte alle reti metalliche si possono contare sulle dita delle mani. Askavusa, che vuol dire 'a piedi scalzi', è il nome di un'associazione di giovani che da qualche anno tenta di mantenere viva testimonianza nell'isola del passaggio dei migranti del Mediterraneo, tramite la costruzione di un museo costituito da oggetti ritrovati nei cimiteri dei barconi, e che durante quest'inverno ha generato una forza collettiva capace, insieme a tanti altri, di fornire concreta solidarietà ed accoglienza. Anna, Brigate di solidarietà attiva (*) (*) Le BSA sono una realtà autofinanziata, nata durante l'esperienza dei campi di solidarietà nell'Aquila del post-terremoto e che attualmente porta avanti differenti progetti di solidarietà sia a livello nazionale che internazionale. Vai a I diari di Lampedusa. Prima parte

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