Dimenticate la primavera, al Museo della Resistenza di Lucca

“Quando superate quella soglia tutto questo rimane fuori. Fra quelle pareti è sempre inverno”. Filippo Schillaci ci racconta la sua visita, in un giorno di primavera, al Museo della Resistenza di Lucca, un museo di guerra che racconta di orrore e sofferenza umana.

Dimenticate la primavera, al Museo della Resistenza di Lucca
A Massimo Fini, autore di Elogio della guerra. Dimenticate la primavera. Dimenticate il tepore dell'aria, il rinverdirsi degli alberi, le fioriture, il disgelo. Quando superate quella soglia tutto questo rimane fuori. Fra quelle pareti è sempre inverno. Era primavera a Lucca o meglio, in ogni luogo di Lucca che non fosse quello; noi c'eravamo per la mostra di piante di santa Zita, nella piazza dell'anfiteatro. Camminavamo nelle strade quasi prive di automobili del centro storico. Su un muro notammo una piccola targa: Museo della Resistenza. Decidemmo di entrare. E la primavera scomparve. Freddo e umidità: non c'è altro là dentro. Ho un ricordo vago di pareti di calce bianca, di un pavimento consumato e irregolare, di soffitti a volta. Nell'ingresso mi accolse una fila di fotografie in bianco e nero coperte da un foglio di cellophane reso opaco dal tempo: le immagini della campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale, le immagini di una delle più grandi catastrofi cui andarono incontro i soldati italiani. E l'interno non offre nulla di diverso; del resto, cos'altro dovrebbe offrire? È un museo di guerra, e sono le frattaglie della guerra che ti sfilano davanti: bossoli, elmetti, pezzi di uniformi, scatolette di cibarie dell'esercito americano, armi, altre fotografie: di trincee, marce forzate nel gelo, macerie, colonne di prigionieri sfiniti, cadaveri che nemmeno nella morte sembrano aver trovato quiete. Orrore e sofferenza. Ma non sono le immagini ciò che colpisce di più. A quelle in fondo ci siamo abituati. Le abbiamo viste mille volte, in mille salse, magari non proprio tutte ma le abbiamo viste. E nemmeno i 'cimeli', in sé oggetti inerti che, messi lì, allineati nelle teche, sono diventati asettici, hanno perso ogni richiamo a ciò per cui sono stati fatti. Quel che colpisce, che riempie di gelo, che restituisce forza agli oggetti che l'hanno perduta, è il luogo, è il modo in cui ci vengono presentati; l'allestimento si direbbe altrove. Polvere, e ruggine, e muffa. Ovunque. Polvere sulle vecchie teche di legno, consunte e totalmente disadorne, anzi diciamolo pure: brutte, desolate. Polvere sul cellophane che ricopre un vecchio manichino cui hanno fatto indossare non ricordo più che uniforme sdrucita, polvere sulle mensole, su ogni ripiano, ovunque potesse poggiarsi. E ruggine su ogni oggetto metallico, che lentamente va consumandosi. E muffa sulle pareti, lì dove l'umidità imperversa maggiormente. E ancora il freddo, quel freddo che non ci abbandona un attimo, in nessuno dei locali che attraversiamo. Ci intercetta una donna anziana il cui viso pieno di rughe sembra ripiegato su se stesso, una donna che di guerre ne ha vista una sola, quella, ma che sembra averle viste tutte, che sembra averne l'età. È un'ebrea polacca, da giovane è stata internata insieme a tutta la sua famiglia in un campo di concentramento. È stata l'unica a salvarsi. Motivo? Le sue dita, ci racconta. Le aveva particolarmente sottili il che la rendeva idonea a lavorare non ricordo più se il lino o la seta. Così fu avviata ai lavori forzati in fabbrica anziché alla morte nei forni crematori. È stata uno dei fondatori del museo e ne è da sempre la conservatrice. È lei dunque la responsabile di ciò che vediamo e di come lo vediamo. Di come lo vediamo. E se quel come sia frutto di scelta consapevole, di istinto o di incuria non m'interessa scoprirlo. Mi basta che così debba essere, che tutto ciò sia giusto in quel luogo. Perché in nessun luogo come lì si ha l'opprimente immagine della guerra come realtà di putrefazione, disfacimento, desolazione, un'immagine che non vi si pone di fronte ma vi avvolge, vi rinchiude. Come fosse per sempre. E così deve essere. Tornati all'esterno, l'aria si fa di nuovo tiepida o così pare, la primavera torna ad abbracciarvi ma non convince più. Sembra ora il trucco di un miserabile burattinaio. Dimenticatela, il vero volto del mondo lo avete visto là dentro.

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