Gibe III: sempre più contestata la mega-diga italiana in Etiopia

La diga Gibe III, in Etiopia, che con i suoi 240 metri di altezza è la più alta diga del suo tipo mai realizzata, è oggetto di controversie almeno dal 2006. Se ne parla in tutto il mondo, visto l’enorme impatto che può avere sulle popolazioni locali, ma è il nostro Paese più di ogni altro ad essere direttamente coinvolto nel progetto: la costruzione della mega-opera è stata infatti appaltata dal governo etiope alla società italiana Salini Costruttori.

Gibe III: sempre più contestata la mega-diga italiana in Etiopia
La mega-diga Gilgel Gibe III, il cui completamento è previsto per il luglio 2013, rappresenta benissimo la smania di esportare quello che noi occidentali consideriamo 'progresso', ossia la possibilità di far girare un sacco di soldi. Questo progetto ha subito le critiche, in quest’ultimo periodo, non solo di associazioni come Survival, che fin dall’inizio denunciano i pesanti effetti che il “più grande progetto idroelettrico mai concepito nel Paese” africano avrà sull’ambiente e sulle popolazioni locali, ma anche delle Nazioni Unite, che hanno richiesto ancora all’Etiopia “informazioni urgenti” a riguardo. Persino il governo italiano, generalmente ben poco sensibile in tema di ambiente e diritti, ha annunciato che a causa delle perplessità sull'impatto che quest’opera avrà sulle popolazioni locali non concederà più il prestito previsto di 250 milioni di euro. In particolare attraverso la CERD, la Convenzione per l’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale, l’ONU ha espresso grandi preoccupazioni per la situazione, attivando nei confronti dell’Etiopia un 'ammonimento preventivo' ed una 'procedura d’azione urgente', dandole tempo fino alla fine del gennaio 2012 “per dimostrare in modo attendibile che siano state condotte valutazioni di impatto indipendenti” e soprattutto “che i popoli tribali nella regione siano stati adeguatamente consultati”. Il CERD auspica “un dialogo costruttivo” con il governo di Addis Abeba, sottolineando però che, come rende noto Survival, “le richieste inoltrate precedentemente dal Relatore speciale ONU per i diritti indigeni sono state ignorate”. La condizione di queste aree e delle loro genti ha messo in apprensione anche l’Unesco che, nel 1997, riconobbe la Valle del fiume Omo (dove vivono ben otto diverse tribù) ed il lago in cui sfocia, il Turkana del Kenya, come Patrimoni dell’Umanità. L’Organizzazione, che ha trattato questo argomento anche all’interno del suo rapporto annuale, ha infatti sollecitato il governo etiope a “fermare immediatamente i lavori di costruzione della diga Gibe III”, chiedendo che “tutte le istituzioni che la sostengono sospendano i loro finanziamenti”. Per la Salini Costruttori tutta questa preoccupazione è inutile. Dal suo sito fa infatti presente che il “catastrofismo” di alcune associazioni (come Survival) è ingiustificato. Per la ditta romana, infatti, la popolazione locale non è toccata dalla cosa, dato che “non ci sono abitazioni da rimuovere nell’ambito del bacino”, ed anche a livello ambientale l’impatto è ridotto, in quanto “il fiume non subisce riduzioni della portata media” e, di conseguenza, “dalla centrale elettrica uscirà esattamente tanta acqua quanta ne entra”. “Si può serenamente concludere - scrive la Salini Costruttori - che ad impianto costruito ed in operazione, Gibe III porterà energia elettrica per l’intera Etiopia e per il Kenya, contribuendo alla stabilità politica regionale”. “Fornirà acqua per l’agricoltura e con essa sicurezza alimentare”, assicura l’azienda, “migliorerà le condizioni ambientali e sanitarie e contribuirà a ridurre gli attuali fattori di conflitto”. Una visione idilliaca della situazione. Viene allora da chiedersi perché, nel vicino Kenya, sia lo stesso Parlamento a sollevare molti dubbi e ad avere molte preoccupazioni proprio sulla mega-diga italiana. In una mozione dibattuta nel parlamento del Kenia lo scorso 10 agosto, infatti, molti deputati hanno espresso i loro timori sull’impatto della Gibe III sulle tribù che vivono attorno al Lago Turkana. Le accuse da parte di alcuni deputati al governo keniota riguardano in particolare il fatto di aver ignorato la difficile condizione del proprio popolo non opponendosi alla diga Gibe III, che – hanno dichiarato – potrebbe distruggere i mezzi di sussistenza della gente attorno al Lago Turkana e avere gravi ripercussioni sulla loro indipendenza. Risultato? Anche per il Parlamento il governo del Kenya dovrebbe chiedere a quello dell’Etiopia di fermare la costruzione della diga Gibe III, almeno fino a quando non sarà effettuato uno studio affidabile, completo ed indipendente sull’impatto ambientale e sociale della mega struttura. I timori riguardano in particolare il fatto che “il fragile ciclo idrologico e le specie acquatiche sarebbero danneggiati dal significativo abbassamento del livello del lago provocato dalla diga”, ma si spingono oltre la questione della diga Gibe III. Secondo Survival International, infatti, alcune delle terre agricole più fertili dell’Etiopia sono state sottratte alle tribù locali per essere affittate ad aziende straniere: “Le società che si sono accaparrate la terra, le utilizzeranno sia per la produzione di biocarburanti sia per coltivare ed esportare prodotti alimentari mentre, contemporaneamente, migliaia di Etiopi stanno morendo di fame a causa della terribile siccità in corso”, denuncia il movimento per i popoli indigeni. Ovviamente ci sono state numerose manifestazioni di opposizione contro l’accaparramento di queste terre, ma sono state brutalmente represse: sono infatti molti gli indigeni che sono stati picchiati e incarcerati, dopo avere cercato di esprimere il loro dissenso. Addirittura, secondo alcune segnalazioni pervenute a Survival, un poliziotto avrebbe detto a una comunità indigena che il governo è “come un bulldozer, e che chiunque oserà opporsi ai suoi progetti di sviluppo sarà schiacciato come una persona schierata davanti a un bulldozer”, appunto. “Il governo etiope e i suoi partner stranieri sono determinati a derubare i popoli tribali della loro terra e a distruggere i loro mezzi di sostentamento”, ha commentato Stephen Corry, Direttore Generale di Survival: “Vogliono ridurre tribù oggi autosufficienti in uno stato di dipendenza, sbattere in prigione tutti quelli che non sono d’accordo, e fingere che questo abbia qualcosa a che fare con il ‘progresso’ e lo ‘sviluppo’. Tutto ciò è vergognoso, criminale, e dovrebbe essere osteggiato con vigore da chiunque abbia a cuore i fondamentali diritti umani”. Ora, al di là del fatto che all’origine di questi 'piani di sviluppo ci sia proprio un’azienda italiana, le parole di Corry hanno particolare rilievo in questi giorni. Non solo per tutti gli etiopi oppressi da scelte fatte al di sopra di loro, ma anche se si pensa a quanto è accaduto a Roma il 15 ottobre, o in Valle di Susa lo scorso luglio. Forse, 'Padroni a casa nostra' ormai non lo siamo neppure noi.

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