L'Habemus Papam di Moretti, una metafora sociale

Le persone comuni hanno spesso saggezza, logica e buon senso sufficiente a far funzionare il loro ambiente, il loro ufficio, il loro quartiere. Allora perché non fanno nulla? Perché abdicano al loro diritto di cittadini a far sentire la loro voce, ad impegnarsi in prima persona? Il cardinale Melville incarna forse l’uomo comune, rinunciatario di fronte alla possibilità di cambiare le cose attraverso il proprio impegno? Il valore politico del film di Moretti.

L'Habemus Papam di Moretti, una metafora sociale
Habemus Papam appare a prima vista un film sulla debolezza, sull’incapacità di assumersi le responsabilità cui la vita chiama, e al tempo stesso un implicito riconoscimento della rinuncia come scelta nobile e degna. Il cardinale Melville, il papa appena eletto, entra in crisi perché sente profondamente il peso dell’incarico a lui destinato; per tutta la durata del film percepiamo l’angoscia che gli attanaglia l’anima e lo blocca, spingendolo alla fuga dal Vaticano per perdersi tra la folla, inseguire i sogni della sua giovinezza, ricercare frammenti di un passato troppo lontano. Melville ha lo sguardo perso, desidera ubbidire a Dio e alla Chiesa, ma sente che non ce la può fare, perché è convinto di non averne la forza. I giornali cattolici hanno scritto unanimemente che si tratta di un film senza fede, girato da un regista incapace di comprendere come la fiducia nell’aiuto di Dio avrebbe convinto il cardinale ad affrontare con serenità il papato. Eppure Michel Piccoli suscita le simpatie del pubblico, che partecipa delle paure del suo personaggio, lo giustifica, si immedesima: chi se la sentirebbe di fare il Papa? Così la questione centrale del film diventa una metafora della crisi della società italiana, nella quale la rinuncia è sempre più diffusa, soprattutto tra chi è più degno, preparato, consapevole e buono. Le persone comuni hanno spesso saggezza, logica e buon senso sufficiente a far funzionare il loro ambiente, il loro ufficio, il loro quartiere. Allora perché non fanno nulla? Perché abdicano al loro diritto di cittadini a far sentire la loro voce, ad impegnarsi in prima persona? Perché sono convinti di non averne la forza, di non essere all’altezza, di non essere ascoltati perché indegni. La pigrizia o i troppi impegni sono solo alibi: la vera motivazione è la sensazione potente – propria dei migliori – di non poter competere con i capi, i leader scelti dalla natura per guidare le folle. Nella sua giovinezza Melville aveva desiderato essere un attore, ma non era stato all’altezza del palcoscenico e anche i suoi timidi tentativi senili di recitare non vengono presi in considerazione. Guardiamo i nostri politici: per la maggior parte sono dei grandi attori, ma usano questa abilità per i propri fini personali invece che per sostenere il bene comune. Ecco dunque che il non saper recitare di Melville, come dell’uomo medio, non dovrebbe rappresentare un handicap alla partecipazione alla vita pubblica, bensì essere riconosciuto come una qualità, da gestire e modulare, ma pur sempre una qualità. In Habemus Papam colpisce la rappresentazione ridicola della psicanalisi, considerata come un passatempo – il miglior psicanalista della capitale non trascorre tutto il film a far giocare i cardinali per ingannare l’attesa del papa? – o tutt’al più come dolce illusione di un tempo, del quale non si può avere memoria, in cui si è subito un torto che ha segnato irreparabilmente l’intera esistenza. Eppure il merito principale della psicanalisi è stato quello di insegnare agli uomini a non giudicarsi, a non condannarsi, a guardare la propria anima accettandone i limiti e le debolezze. Attraverso l’abbandono dei sogni di grandezza – essere il miglior papa, il miglior politico, la persona che non commette errori ed è universalmente apprezzata – gli uomini tornano infatti in condizione di agire: accettando l’imperfezione trovano il proprio valore. Melville – come l’uomo comune – è paralizzato dalla paura di sbagliare, di essere mal giudicato, di non saper fare bene: la psicanalisi non andrebbe dunque messa in burletta, perché il suo messaggio, evidentemente non ancora abbastanza diffuso, mira proprio a far superare il senso di inferiorità che spinge i più alla rinuncia. Attraverso altre vie anche la religione incita gli uomini ad operare per il bene, confidando non nelle proprie forze, ma nell’aiuto dello Spirito Santo, superando il timore di non essere all’altezza con l’invito all’umiltà e confidando nel perdono di Dio attraverso il pentimento e la confessione di errori e peccati. Due strade dunque, la psicanalisi e la religione, che mirerebbero all’assunzione di responsabilità, appaiono entrambe inefficaci nel film di Moretti, come nella società di oggi. Ma è proprio la rappresentazione di questa vicenda e delle conseguenze che ne derivano – la delusione e la tristezza tra la folla, lo sconforto generale – a stimolare nello spettatore la ribellione interiore. Ecco perché la storia del cardinale che rifiuta il papato non va letta come un manifesto della rinuncia, ma come esortazione a non restare fermi nel proprio ruolo, a fare il salto di qualità, a comprendere che si può fare del bene pur nella propria fragilità.

Commenti

Visto il film stasera: ottimo il commento della giornalista Bonaventura.
piero, 29-09-2013 12:29

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