Il buon senso della rivoluzione (ma pacifica)

In questo primo maggio dei lavoratori, chiediamo ai nostri lettori alcuni minuti del loro tempo per condividere con noi alcuni spunti di riflessione. Su cosa? Libertà, lavoro, uguaglianza, sostenibilità, equità. Non sono, certo, cose nuove. Ci si discuteva persino secoli fa, a maggior ragione lo si fa oggi. Incamminiamoci nella lettura e se non vi piace lo spirito di chi parla, scriveteci e diteci la vostra. Perché solo così può nascere un confronto costruttivo.

Il buon senso della rivoluzione (ma pacifica)

Per introdurre l'argomento, nel titolo abbiamo richiamato uno scritto di Errico Malatesta (sì, avete letto bene: due erre), casertano, classe 1853, uomo di altri tempi, fedele per tutta la vita al suo ideale anarchico, al quale si ispirò per tentare di far insorgere i contadini e dare inizio alla rivoluzione sociale. Fu anche tra i propugnatori del più noto moto insurrezionale (fallito) avvenuto dopo l'unità d'Italia, tra il 1913 e il 1914.  

"Il buon senso della rivoluzione" (Ed. Elèuthera, 1999, a cura di Giampietro Berti) è una lettura facile e veloce, di cui si può trarre molto e "lasciar andare" altrettanto. È uno spunto e come tale va inteso. Non è verità e non la abbracciamo, ma pensarci su può essere interessante.

Si legge (e tenete conto della cifra stilistica differente e dell'accenno a una gerarchia sociale tipica di un'altra epoca): «La libertà che vogliamo noi non è il diritto astratto di fare il proprio volere, ma il potere di farlo; quindi suppone in ciascuno i mezzi di poter vivere ed agire senza sottoporsi alla volontà altrui. E siccome per vivere è prima condizione il produrre, presupposto necessario della libertà è la libera disposizione per tutti del suolo, delle materie prime e degli strumenti di lavoro. Ciò che costituisce l’essenza della borghesia è l’accaparramento dei mezzi di produzione e di scambio, che la mette in grado di sfruttare l’opera dei lavoratori ed ordinare tutto il processo produttivo e distributivo in vista del proprio profitto, tenendo nel minor conto possibile l’interesse dei produttori e dei consumatori. Fino a quando questo accaparramento sussisterà non vi sarà libertà per la grande massa dei proletari che debbono mendicare presso i borghesi i mezzi per vivere».

Suona abbastanza moderno, vero? Magari non altrettanto condivisibili possono risultare gli "strumenti" che Malatesta sosteneva per cambiare ("rivluzionare") le cose. Ma utile può essere l'analisi, senza concentrarsi sul supposto "rimedio", diverso per ogni epoca e per ogni sentire.

E ancora: «È purtroppo vero che gli interessi, le passioni, i gusti degli uomini non sono naturalmente armonici, e che dovendo vivere insieme in società è necessario che ciascuno cerchi d’adattarsi e conciliare i desideri suoi con quelli degli altri ed arrivare ad un modo di vivere e di agire che possa, nel miglior modo possibile, soddisfare se stesso e gli altri. Questo significa limitazione della libertà, e dimostra che la libertà, intesa nel senso assoluto, non potrebbe risolvere la questione di una volontaria e felice convivenza sociale. La questione può essere risolta solo dalla solidarietà, dalla fratellanza, dall’amore, il quale fa sì che il sacrificio dei desideri inconciliabili con quelli degli altri si fa volontariamente e con piacere».

«Quando si parla di libertà s’intende parlare di una società in cui nessuno potrebbe violentare gli altri senza incontrare valida resistenza, in cui soprattutto nessuno potrebbe accaparrare ed usare la forza collettiva per imporre la propria volontà agli individui ed alle stesse collettività che forniscono la forza. L’uomo non è perfetto, d’accordo. Ma questo non è che una ragione di più, forse la ragione migliore, per non dare a nessuno i mezzi per «mettere i freni alla libertà individuale».

«La società armonica non può nascere che dalle libere volontà, che liberamente si armonizzano sotto la pressione delle necessità della vita, e per soddisfare a quel bisogno di fratellanza e di amore, che fiorisce sempre fra gli uomini non appena sono liberi dal timore di essere sopraffatti e di mancare del necessario per sé e per la famiglia».

E sulla scienza moderna (o dogmatismo scientifico moderno?) e il dogmatismo scrive: «Io non credo nell’infallibilità della Scienza, né nella sua capacità di tutto spiegare, né alla sua missione di regolare la condotta degli uomini, come non credo nella infallibilità del Papa, nella Morale rivelata e nell’origine divina della Sacra Scrittura. Io credo solo nelle cose che possono essere provate; ma so benissimo che le prove sono cosa relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate ed annullate da altri fatti provati; e quindi credo che il dubbio debba essere la posizione mentale di chiunque aspira ad avvicinarsi sempre più alla verità, o almeno a quel tanto di verità che è possibile raggiungere».

«Lo scienziato, quale secondo me dovrebbe essere, è quello che esamina i fatti e ne trae le logiche conseguenze quali che esse siano, in opposizione a coloro che si foggiano un sistema e poi ne cercano la conferma nei fatti e per trovarla inconsciamente scelgono i fatti che loro convengono trascurando gli altri e magari sforzano e travisano la realtà per serrarla nei ceppi delle loro concezioni. Egli adopera delle ipotesi da lavoro, vale a dire fa delle supposizioni che gli servono di guida e di sprone nelle sue ricerche, ma non resta vittima dei suoi fantasmi, pigliando, a forza di servirsene, per verità dimostrate le sue supposizioni e generalizzando ed elevando a legge, con arbitraria induzione, ogni fatto particolare che convenga alla sua tesi».

«Lo scientificismo che io respingo e che, provocato ed alimentato dall’entusiasmo che seguì le scoperte veramente meravigliose fatte in quel torno di tempo nel campo della fisico-chimica e della storia naturale, dominò le menti nella seconda metà del secolo passato, è il credere che la scienza sia tutto e possa tutto; è l’accettare come verità definitive, come dogmi, ogni scoperta parziale; è il confondere la Scienza con la Morale, la Forza nel senso meccanico della parola, che è una entità definibile e misurabile, con le forze morali, la Natura con il Pensiero, la Legge naturale con la Volontà. Esso conduce logicamente al fatalismo, cioè alla negazione della volontà e della libertà».

Parla di molto altro Malatesta, poi, verso le conclusioni, scrive anche: «E purtroppo non vi potrà essere riscossa materiale se prima non v’è rivolta morale».

 

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