Il Censis "fotografa" gli italiani di questo anno-Covid: «Meglio sudditi che morti»

Da leggere e da farne motivo di riflessione il 54° rapporto Censis sugli italiani dal titolo «L'anno della paura nera. Meglio sudditi che morti: le vite a sovranità limitata degli italiani e le scorie dell'epidemia». Emerge che il 57,8% è disposto a rinunciare alle libertà personali e il 38,5% ai propri diritti civili.

Il Censis

È stato diffuso il 54° rapporto del Censis sugli italiani e quanto emerge fornisce un quadro sociale, politico, economico e culturale su cui vale la pena riflettere.

«Il  57,8%  degli  italiani  è  disposto  a  rinunciare  alle  libertà  personali  in nome  della  tutela  della  salute  collettiva,  lasciando  al  Governo  le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale - si legge nel rapporto - il  38,5%  è  pronto  a  rinunciare  ai  propri  diritti  civili  per  un  maggiore benessere  economico,  introducendo  limiti  al  diritto  di  sciopero,  alla libertà   di   opinione,   di   organizzarsi,   di   iscriversi   a   sindacati   e associazioni. La  paura  pervasiva  dell’ignoto  porta  alla  dicotomia  ultimativa:  “meglio sudditi  che  morti”.  E  porta  a  vite  non  sovrane,  volontariamente  sottomesse al buon Leviatano».

«Cresce allora il livore della logica “o salute o forca” - prosegue il rapporto - il  77,1%  degli  italiani  chiede  pene  severissime  per  chi  non  indossa  le mascherine   di   protezione   delle   vie   respiratorie,   non   rispetta   il distanziamento sociale o i divieti di assembramento; il  76,9%  è  fermamente  convinto  che  chi  ha  sbagliato  nell’emergenza, che siano politici, dirigenti della sanità o altri soggetti, deve pagare per gli  errori  commessi,  che  hanno  provocato  la  diffusione  del  contagio negli ospedali e nelle case di riposo per gli anziani; il  56,6%  vuole  addirittura  il  carcere  per  i  contagiati  che  non  rispettano rigorosamente  le  regole  della  quarantena  e  dell’isolamento,  e  così minacciano la salute degli altri; il 31,2% non vuole che vengano curati (o vuole che vengano curati solo dopo,  in  coda  agli  altri)  coloro  che,  a  causa  dei  loro  comportamenti irresponsabili o irregolari, hanno provocato la propria malattia; e il 49,3% dei giovani vuole che gli anziani siano curati dopo di loro. C’è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità,  cause.  Non  sorprende,  quindi,  che  persino  una  misura assolutamente  indicibile  per  la  società  italiana  come  la  pena  di  morte  torni nella sfera del praticabile: quasi la metà degli italiani (il 43,7%) è favorevole alla  sua  introduzione  nel  nostro  ordinamento  (e  il dato  sale  al  44,7%  tra  i giovani)». 

Prosegue ancora l'analisi del Censis: «Nel vortice di milioni di vite trasformate all’improvviso, emerge una frattura fortemente  divaricante: il  diverso  grado  di  tutela della  propria  condizione economica  sperimentato  in  questi  mesi,  una  gerarchia  delle  protezioni  del lavoro  e  dei  redditi  ridefinita  di  fatto.  Per  l’85,8%  degli  italiani  la  crisi sanitaria ha confermato che la vera divisione sociale esistente tra i lavoratori è quella tra chi ha la sicurezza del posto di lavoro e del reddito e chi no.  È  una  verità  ben  nota,  diventata  d’improvviso  lapalissiana  e  largamente condivisa: esistono due Italie molto diverse: i garantiti e i non garantiti».

«Su tutti, i garantiti assoluti, quelli con datore di lavoro lo Stato, un universo distinto  da  tutto  il  resto,  l’incarnazione  della  rivincita  del  posto  pubblico, a volte  denigrato  per  il  basso  valore  medio  degli  stipendi,  ora  però  al  riparo dalla   possibile débâcle   economica.   Ne   sono   membri   3,2   milioni   di dipendenti  pubblici.  A  cui  si  aggiungono  i  pensionati».

E ancora: «Poi si entra nelle sabbie mobili: il settore privato senza casematte protettive. Per  il  prossimo  futuro  vive  con  insicurezza  il  proprio  posto  di  lavoro  il 53,7% degli occupati nelle piccole imprese, contro un più contenuto 28,6% dei lavoratori presso le grandi aziende.  Si  tratta  di  valori  elevati  che  indicano  che  lo  tsunami  occupazionale  è davanti a noi, che la discesa agli inferi della disoccupazione non è un evento remoto,  ma  che  allo  stesso  tempo  riflettono  i  diversi  gradi  di  sicurezza  di redditi e lavoro. Così si arriva alla falange dei più vulnerabili: un aggregato che comprende i dipendenti del settore privato a tempo determinato, tra i quali quasi 400.000 non hanno avuto il rinnovo del contratto nel secondo trimestre dell’anno. C’è  poi  l’universo  degli  scomparsi:  quello  dei  lavoretti,  del  lavoro  casuale, del  lavoro  in  nero,  un  universo  indefinito  stimabile  in  circa  5  milioni  di persone  che  ruotavano  intorno  ai  servizi  e  che  hanno  finito  per  inabissarsi senza rumore.  E poi ci sono i vulnerati inattesi: gli imprenditori dei settori schiantati, come i commercianti, gli artigiani, i professionisti rimasti senza incassi e fatturati. Si  tratta  del  magmatico  mondo  del  lavoro  autonomo, nel  quale  solo il  23% dei soggetti ha continuato a percepire gli stessi redditi familiari di prima del Covid-19.  Il  nuovo  valore  del  lavoro  protetto  si  manifesta  pienamente  in  una  società».

Emerge una società «sfibrata dallo spettro del  declassamento sociale, in cui il 50,3% dei  giovani vive  in  una  condizione  socio-economica  peggiore  di quella  vissuta  dai genitori alla loro età - scrive ancora il Censis - Per 40 lavoratori autonomi su 100, i figli sono passati in  una  classe  occupazionale  inferiore,  dentro  i  ranghi  degli  operai  e  del terziario non qualificato.  Se il grado di protezione del lavoro e dei redditi è la chiave per la salvezza, allora  la  logica  sociale  vincente  dice  che  oggi  è  vitale  e  razionale  per  tutti conquistare  protezioni,  accaparrando  diritti  su  risorse  pubbliche,  meglio  se prolungati, meglio ancora se eterni. Saranno disincentivati la voglia di fare, di  andare  in  mare  aperto,  di  rischiare,  di  giocarsela  sul  mercato.  Quasi  il 40%  degli  italiani  (il  41,7%  dei  più  giovani)  oggi afferma  che,  dopo  il Covid-19, avviare un’impresa, aprire un negozio o uno studio professionale è  un  azzardo,  perché  i  rischi  sono  troppo  alti,  e  solo  il  13%  lo  considera ancora un'opportunità».

«La temuta caduta c’è stata, il salto  verso  il  basso  è  iniziato  e  non  si  sa  quanto durerà.  La  verifica  degli indicatori economici ne dà contezza: nel secondo trimestre dell’anno, quello del  lockdown  totale,  il  Pil  è  crollato  in  termini  reali  del  18%  rispetto all’anno  scorso,  gli  investimenti  del  22,6%,  i  consumi  delle  famiglie  del 19,1%, l’export del 33%».

E «in un quadro emergenziale in cui gli aiuti dello Stato ci sono stati,  ma  che  il  75,4%  degli  italiani  valuta  come  insufficienti  o  giunti  in ritardo,  per  esperienza  diretta  o  indiretta,  attraverso  familiari  e  amici, rafforzare  le  proprie  autodifese  attraverso  i  risparmi  è  la  strategia  migliore per applicare una resistenza attiva all’emergenza economica e sociale».

«Quando  esaurirà  la  sua  onda  d’urto,  la  pandemia  lascerà  dietro  di  sé  una società più incerta e impaurita, ma soprattutto una società con una profonda crisi  economica  e  occupazionale,  di  cui  non  tutti  pagheranno  le  spese  allo stesso modo».

E ancora il rapporto menziona le difficoltà e le problematiche strutturali della sanità, le difficoltà di fronte alle quali la risposta della scuola viene giudicata parziale.

Poi i dati sul lavoro a picco, con particolare rilevanza per i giovani e le donne e l'erosione di due pilastri dell'architrave sociale: le libere professioni e la rappresentanza.

E sul dilagare di internet e del digitale: «Al  di  là  di  farvi  ricorso  quando  non  esiste  altra  possibilità, quanto  sono davvero soddisfacenti le relazioni sociali coltivate da remoto? Stando ai dati raccolti,  almeno  un  quarto  della  popolazione  a  un  certo  punto  è  andata  in sofferenza.  Infatti,  le  incomprensioni,  l’impossibilità  di  usare  il  linguaggio del  corpo,  la  difficoltà  nel  creare  la  necessaria  empatia  sono  via  via diventate  evidenti». 

Poi la sfiducia nelle istituzioni: «Solo il 28% degli italiani nutre fiducia nelle istituzioni comunitarie, a fronte di una media europea del 43%, comunque inferiore alla metà   della popolazione. La ridotta fiducia degli italiani, ultimi nella graduatoria europea, deve essere inquadrata  all’interno  di  un  generalizzato  e  profondo atteggiamento di insoddisfazione verso tutte le istituzioni. Parimenti minoritari,  infatti, sono i livelli di fiducia  riposti nei  confronti  del  Governo (29%)  e  del  Parlamento (26%) nazionali, istituzioni di cui gli altri cittadini europei si fidano mediamente di più (nella media, il 40% si fida dei Governi nazionali, il 36% dei Parlamenti nazionali)».

 

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