“L’esperienza del dubbio è sempre un ottimo vaccino con cui andarsene in giro per il mondo”/1

“L’esperienza del dubbio è sempre un ottimo vaccino con cui andarsene in giro per il mondo”: è una frase del libro di Lisa Iotti "8 secondi", lettura avvincente che ci aiuta a trovare il bandolo della nostra dipendenza dai congegni elettronici.

“L’esperienza del dubbio è sempre un ottimo vaccino con cui andarsene in giro per il mondo”/1

Quello di Lisa Iotti, "8 secondi. Viaggio nell'era della distrazione", è un libro avvincente che si legge tutto d’un fiato, è scritto in maniera semplice e chiara con un obiettivo assai alto: cercare di trovare un bandolo nella matassa di uno dei problemi attualmente più gravi che ci affligge e cioè la totale dipendenza da congegni elettronici realizzati e gestiti da chi vive esclusivamente per il profitto, a cui aggiunge anche un sapore messianico di evangelizzazione.

Perciò farsi delle domande su quali sono le conseguenze di un mondo in mano a chi crede di essere dio e fa valanghe di soldi è quantomai sano e intelligente. E Lisa Iotti di domande se ne fa eccome, ma non se le fa solo, va anche a cercarsi le risposte, parlando con studiosi, scienziati, ricercatori di mezzo mondo.

In una fase in cui soprattutto i media di domande scomode se ne fanno sempre meno, lei partendo dalla sua dipendenza va alla ricerca in maniera spietata dei perché. E ci va giù pesante senza mezzi termini e senza esclusione di colpi fino ad affermazioni forti come la definizione “I ragazzi dello zoo di Cupertino”.

È lei stessa chiedersi: “Come era possibile che mi fossi ridotta così, a trascinarmi su di una bacheca virtuale, una tossica irrecuperabile che si aggira alla ricerca disperata di una dose? Ero una tossica digitale. Come aveva fatto lo smartphone a diventare una dipendenza così forte da allontanarmi non solo da quello che dovevo fare ma anche da quello che volevo fare?”.

Dal suo racconto impietoso ma reale e supportato da dati scientifici esce un quadro di un mondo popolato di zombie tecnologici che si avvia verso un crepuscolo miserrimo riassunto in una citazione di Josè Saramago che l’autrice riporta: “Vediamo l’abisso, è proprio lì davanti ai nostri occhi, eppure avanziamo verso di esso come una folla di lemming suicida”.

E la Iotti aggiunge: ”Tutto vero. Strada facendo, però, ci intratteniamo a postare selfie su Facebook e storie su Instagram”.

Suggerirei che prima di arrivare all’abisso, piuttosto che farsi selfie, sia meglio leggere il libro della Iotti.
Abbiamo rivolto delle domande a Lisa Iotti analizzando anche brevi brani del suo libro.

In un mondo in cui tutti siamo “social”, lei cita:
“Siamo tutti sempre meno sociali e sempre più distratti, assenti riguardo a chi siamo, a cosa stiamo facendo a noi stessi e agli altri, a quale sia il valore che diamo alle nostre azioni, al pianeta che lasceremo ai nostri figli. Senza memoria, senza attenzione, senza la capacità di sollevare la testa, senza più pazienza, perfino senza più sorriso, cosa saremo?”

Lisa, può dare oggi una risposta su cosa saremo?

«Non lo so, non credo sia facile fare previsioni. Socrate era convinto che la scrittura avrebbe allontanato gli uomini dall’esercizio della memoria, li avrebbe illusi di potersi affidare a dei segni esterni, le parole scritte da altri appunto, mentre la saggezza poteva scaturire solo da un processo maieutico con la propria anima e il proprio maestro. Era una profezia un filino esagerata, e i libri come sappiamo non hanno impedito all’uomo di allargare le loro conoscenze, anzi. La storia dell’umanità è la storia di come ogni invenzione, ogni nuova scoperta, ci abbia sempre fatto andare avanti, smentendo timori e scetticismi. Questa volta però non sono sicura che andrà così, perché la pervasività e la modalità con cui questa tecnologia è ingegnerizzata è senza precedenti. Nessuno mette in discussione i mirabolanti vantaggi di avere in tasca un computer che è centomila volte più potente di quello che ci ha portato sulla luna. Il punto è un altro: noi ominidi ci siamo evoluti e siamo arrivati fino qui perché siamo delle macchine pensanti, programmate per trovare soluzioni a problemi complessi grazie a un fortunato mix di ragionamento, pervicacia, capacità d’astrazione e di differire la ricompensa: se all’improvviso, per le mutate condizioni ambientali, non ci fossimo dovuti re-inventare cacciatori, noi che eravamo dei placidi frugivori, non solo ci saremmo estinti perché non trovavamo più nulla da mangiare, ma non saremmo certo ora qui a discettare di quali criptovalute usare su Marte. Questo per dire che quello che stanno provocando in noi queste tecnologie è molto più profondo di quanto crediamo, è qualcosa che, dicono i neuroscienziati, va a modificare in modo sottile i nostri circuiti neurali, rafforzando alcune sfere (quelle che presiedono alla dimensione della rapidità e della praticità), a detrimento dei lobi che gestiscono le attività elaborative e riflessive. Non solo. Internet sta provocando un’altra metamorfosi: ha eliminato dalla nostra vita il concetto di fatica, illudendoci che tutto sia semplice, che basti un clic. Ma sappiamo che non è così, che l’endurance è un elemento fondamentale della riuscita di un progetto. I dati che la rete rigurgita a getto continuo e che noi accumuliamo nella nostra mente non sono conoscenza, come diceva il matematico Henri Poincaré, più di quanto un mucchio di mattoni non sia una casa. Se non sappiamo più porci domande, se non sappiamo mettere le cose in relazione tra loro perché non alleniamo più il pensiero critico, ma ci limitiamo a reagire automaticamente a degli impulsi, come ci spingono i social, non sappiamo che farcene delle risposte. Credo sia questo che intendano i pentiti della Silicon Valley quando dicono che ci stanno ricablando il cervello".

Lei dà una definizione direi drammatica della deriva nella considerazione degli altri, una mancanza di rispetto totale a cui ormai non si fa nemmeno più caso. Cioè scrive: “Oggi essere seduti davanti a qualcuno che dà più importanza a una notifica di facebook che a noi, di fatto escludendoci, è diventata la norma, un’effrazione che non registriamo più nemmeno come tale. Ci siamo talmente abituati a vivere in contumacia amori e interazioni che non ci rendiamo conto di quanto sia mortificante e intimamente doloroso ignorare ed essere ignorati, come se l’anestetizzazione reciproca delle coscienze ci assolvesse e ci liberasse del dovere dell’attenzione”. Pensa che si possa ritrovare l’attenzione per l’altro? Se sì, come?

"Sì, nessun processo è irreversibile, fortunatamente. Ma credo occorra una ri-fondazione del concetto di valore, una specie di ri-educazione al senso delle parole. L’attenzione etimologicamente è in un tendere verso, è un incontro, una forma di porosità e di adesione verso ciò che ci circonda: è esattamente il contrario della concentrazione, che è un’esperienza muscolare, di chiusura. L’attenzione ha a che fare con la sospensione del nostro pensiero, nel lasciarlo disponibile e permeabile ed è qualcosa che non siamo più disposti a concedere, perché siamo risucchiati costantemente in un altrove attraverso i nostri device. Un concentratissimo stato di distrazione. E questa mancanza di apertura verso l’altro è prima di tutto una mancanza di ascolto profondo verso se stessi. Non ci abitiamo più, non ci mettiamo più in relazione con la nostra anima e di conseguenza con chi o cosa ci sta accanto. Un esperimento di cui si parla nel libro ha mostrato come dei volontari, che erano stati chiusi in una stanza senza nessun apparecchio, hanno preferito che fossero loro inflitte delle piccole scosse elettriche, una specie di mini elettroshock, pur di non rimanere da soli con se stessi, e riavere in cambio i loro cellulari. Non c’è nulla di nuovo, si intende: per Pascal, tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo. Tre secoli e mezzo dopo, abbiamo Tik Tok e Youtube per riempire questo vuoto. Se non sei più in grado di ascoltare, i dialoghi diventano monologhi e qualsiasi opinione o critica altrui si traducono in un affronto contro cui scagliarsi, non un oggetto con cui confrontarsi. La polarizzazione che oggi ha trasformato in un ring ogni scambio è frutto anche della perdita di empatia a cui ci spinge la rete, in cui rafforziamo il nostro punto di vista dentro delle bolle cognitive in cui crediamo che tutti la pensano come noi, banalmente perché l’algoritmo ci scodella sul nostro newsfeed sempre il nostro mondo. Ci reiteriamo all’infinito, e quando un elemento estraneo entra nel nostro bozzolo egotico, lo prendiamo a picconate. Forse dovremmo tatuarci sull’avambraccio le parole della filosofa Simone Weil: Ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone. Dovrebbe essere prescritta, come il Lipitor. Come fare? Credo che leggere i libri sia un modo per rieducarci all’ascolto. Mi sembra una terapia che varrebbe la pena provare».

Lei cita il fatto che in Italia nascono sempre meno bambini facendo un paragone agghiacciante: “Noi italiani siamo spensieratamente lanciati verso l’estinzione, come ci ricordano ogni giorno i demografi, in compenso il 145% di noi ha un abbonamento ad una compagnia mobile. Sessanta milioni di italiani e 85 milioni di contratti: non lasceremo eredi, ma schede. Ognuno ha la discendenza che si merita”. Inoltre riprendendo una intervista scrive che: “Un terzo degli americani intervistati in uno studio ha detto che preferirebbe non fare più sesso piuttosto che perdere il proprio dispositivo mobile”. E riporta che per la neuroscienziata Maryanne Wolf gli schermi sono il nostro ciuccio, il placebo con cui plachiamo gli stati di ansia e combattiamo la noia. Parla in questo caso di nostra regressione evolutiva per la quale abbiamo in tasca apparecchi digitali potentissimi ma siamo come bambini fragili e indifesi, terrorizzati di essere abbandonati e bisognosi di avere sempre con noi la nostra coperta di Linus digitale. Ma degli adulti come possono affrontare la vita se si comportano da bambini?

"E’ una bellissima domanda, a cui non so dare un’altrettanto bella risposta. Crescere vuol dire imparare a decidere autonomamente e tracciare linee dove gli altri vedono puntini, sapendo che la vita è un filo sospeso sul vuoto: più siamo centrati, più abbiamo un buon baricentro, come i funamboli, meno è facile cadere. Se ci affidiamo sempre a qualcosa che sta al fuori di noi, se non sviluppiamo un self solido, un Grillo parlante in grado di dirci quando stiamo per commettere una sciocchezza, è un problema. Gli psicologi non si allarmano quando i bambini non vogliono dormire, mangiare o fare i compiti senza il peluche, anche dopo i 36 mesi, quando dovrebbe avvenire l’abbandono; iniziano a preoccuparsi però quando gli ex bambini hanno l’età per chiederti ossessivamente la minicar ma non si staccano dal loro oggetto transizionale. Si chiama transizionale non a caso, perché è transitorio, serve a traghettarti da qualche parte. Se diventa permanente c’è qualcosa che non va. Non sono una psicoterapeuta infantile, ma suppongo che abbia a che fare con un’incapacità a gestire le relazioni, la solitudine, la confusione del mondo. Ecco, i cellulari prolungano questo stato tutta la vita».

Fine prima parte

 

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