Perché si deve lavorare?

“E se davvero il senso della vita risiedesse oggi – a malapena - nel coraggio di chiedersi: quale potrebbe essere la vera motivazione per cui voglio (o devo?) lavorare? Per guadagnare, certo, ma quel che faccio è davvero così importante?”.

Perché si deve lavorare?
Non ce lo auguravamo per il futuro fin da quando eravamo ancora bambini? E volevamo davvero – una volta divenuti adulti – lavorare ogni giorno facendo quello che facciamo oggi? Lavorare, infine, per pagare quel che c’è da pagare? Per restare poi, se tutto va bene, con pochi euro in tasca e con quelli cercare di divertirsi! Sembra essere questo – ai nostri giorni - l’unico obiettivo che ci resta. E se davvero il senso della vita risiedesse oggi – a malapena - nel coraggio di chiedersi: quale potrebbe essere la vera motivazione per cui voglio (o devo?) lavorare? Per guadagnare, certo, ma quel che faccio è davvero così importante? Ci sono lavori che svolgo esclusivamente in funzione del profitto e sono pronto a superare ogni ostacolo per portare a termine – nel migliore dei modi – gli impegni presi. E se sono persuaso che quel che faccio è la cosa giusta, allora sono già ad un passo dal traguardo. Con il lavoro che svolgo - profondamente convinto della mia scelta quando professione e vocazione coincidono – mi identifico completamente. Riuscirò a fare del mio meglio e vincerò ogni resistenza pur di raggiungere il mio obiettivo. Una nota e ormai molto popolare enciclopedia online inserisce il lavoro tra le attività filosofiche definendolo “un proficuo e consapevole processo di scambio fra la comunità degli uomini e la Natura”. Interpreti e protagonisti di questo processo produttivo sono – più di ogni altro - i liberi professionisti e gli imprenditori, ciascuno con le proprie istanze e creatività, i propri punti di vista, il proprio 'status' sociale. “Un intervallo di lucidità nel caos della vita”: così Noel Coward – compositore e indimenticabile attore e regista cinematografico – definiva l’ozio. Definizione sicuramente antitetica al termine latino arvum (terreno agricolo) associato al concetto di lavoro come fatica e travaglio. Una sensazione di felicità ci riempie davvero l’animo se abbiamo un obiettivo chiaro dinanzi agli occhi, e questo potrà essere raggiunto solo con i nostri sforzi. Avete mai visto un bambino piccolo che si rifiuta di fare qualcosa? Che non vuole rendersi utile, che non vuole imparare, che non vuole fare il suo dovere? “Che cosa vorresti fare da grande?” – è la domanda che con insistenza quasi martellante gli adulti impongono ai ragazzi che crescono. La risposta più comune è oggi: “guadagnare senza fare niente”. Il bambino purtroppo è già caduto in una trappola senza scampo e i genitori dovranno preoccuparsi di trarlo in salvo prima che sia troppo tardi e che cada anche lui nel circolo vizioso della depressione – allarmante fenomeno sociale sempre più diffuso ai nostri giorni, il 'male oscuro' del secolo - e non diventi anch’egli un adulto che si sente inutile, come purtroppo ce ne sono tanti. Noi siamo quello che facciamo. Le nostre realizzazioni ci caratterizzano come esseri unici e inimitabili. “Pensare è un lavoro duro; – dichiarava Henry Ford – industriale, ingegnere e progettista statunitense – e aggiungeva: per questo motivo sono in pochi a farlo”. Concentrarsi su qualcosa di veramente buono e utile da realizzare e ancora riflettere su come raggiungere la mèta tanto agognata. Non rinunciare, capire perché quel 'qualcosa' è andato 'in quel modo' e se si poteva fare di meglio. Einstein, che era conosciuto già dai suoi contemporanei come un grande pensatore, affermava che spaccare legna è un lavoro che dà soddisfazione, perché il risultato è immediato e senza rischi di insuccesso. Come dargli torto?! Se fin da ora cominci a stabilire tutto ciò che faresti volentieri, che tipo di lavoro vuoi davvero portare avanti con forte motivazione, perché tu possa eccellere e distinguerti, non ti dannerai l’anima se vedrai il successo solo dopo lunghi mesi o addirittura anni. Provate, una volta, ad andare a spaccar legna o a ripulire cucine. Proverete un vago senso di gioia, di quella gioia di cui ha bisogno anche il grande pensatore prima di tornare al lavoro e realizzare le grandi cose che ha in mente.

Commenti

Non c'è nulla di peggio che considerare, come fanno oggi molti, il lavoro come un fastidio necessario, una sorta di pegno da dare di malavoglia alla vita per assicurarsi il diritto (ma non era naturale e a prescindere) ad esistere, anzi a consumare, visto che tutti noi siamo concepiti da tanta gente non come dei viventi con bisogni, obiettivi, desideri, ma come l'altro capo di un processo, quello dove si smonta senza senso qualcosa che viene montato senza senso dall'industria, dal produttore. Invece dovremmo cercare ciò che ci fa stare bene e non vivere come schiavi pensando che dobbiamo immolare le nostre giornate alla mera sopravvivenza fisica, dividendoci fra produzione e consumo, in un ciclo infinito di fare e disfare che non ha un vero fine se non quello di campare. La felicità, anche solo il benessere, sono altrove, sono nella soddisfazione, sono nella produzione di senso, di prospettive, anche minimali. Uno che mangia un piatto di pasta comprato (magari già pronto e fatto da un altro, magari scelto a caso in due minuti, gli unici liberi) con i soldi guadagnati facendo una cosa di cui non vede l'utilità oltre il guadagno, e che lo mangia per rimanere vivo, senza apprezzarlo, è una macchina, un disgraziato al di sotto della coscienza umana, a prescindere da quanto guadagna, perchè quello che guadagna lo guadagna male e lo spende peggio, in una vita che non ha differenza rispetto alla morte. Penso poi che non ci sia nulla di peggio, di più insulso e squallido del prodotto di chi non crede in quello che fa: infelice lui, sforzato e senz'anima il risultato, infelice chi lo compra e via così, di miseria in miseria. Dobbiamo tornare a circondarci di attività, di oggetti e di ruoli che abbiano un anima e che non siano gusci vuoti, siano essi fatti d'oro o di coccio. E i comunisti, pur con tutte le loro utopie del lavoro-diritto e del reddito-diritto a prescindere, assai difficili, specie nel tempo degli squali d'oggi,da mettere in pratica senza andare in bancarotta o essere visti come fannulloni da una società che considera meritevole di sforzi solo ciò che si vende con profitto, solo la materialità o l'emozione oggettivizzata e "impacchettata" come, appunto, una cosa, avevano comunque capito un punto cardine. Se difatti separi troppo il lavoratore dal risultato del suo lavoro, esso si sentirà alienato, nel senso di inutile, di distaccato dal suo stesso impegno profuso nel prodotto o nell'attività. La sua sensazione sarà appunto di lavorare per guadagnare e guadagnare per campare, cioè di fare qualcosa di utile ad un sè stesso insensato e non ad una comunità portatrice di orizzonti di senso, di stima, di riconoscimento, di valore. Ed è quello che tanti di noi, sopraffatti dall'astrattezza di lavori iper-terziarizzati, scollegati dal mondo e a volte apparentemente (quando non realmente) superflui, oggi subiscono: la sindrome della tela di Penelope, un qualcosa di completamente autoreferenziale, una vita che mangia sè stessa senza nulla produrre, un tran-tran, una sorta di pachinko esistenziale: dalla costruzione di un futuro alla corsa al progresso e dalla corsa al progresso (rivelatosi spesso apparente) alla corsa del criceto...
Marco B., 23-08-2011 12:23
Interessante riflessione sul lavoro ma purtroppo già datata rispetto ai tempi. viviamo infatti in una società che è già oltre l'orizzonte chiuso della mancanza di senso, siamo immersi in una bolla di solitudine e inconcludente ricerca della relazione con se stessi e sopratutto con l'altro. chi ha già riflettuto sull'alienazione dello scollamento tra lavoro-vita e ha cercato di trovare un collante che integrasse le due parti, si è purtropppo scontrato duramente con una realtà: oggi il lavoro serve solo a guadagnarsi da vivere per la stragrande maggioranza delle persone ed è realizzante solo par chi può permettersi di costrursi un'attività gratificante. se tu devi avere il tuo stipendio di fine mese non riesci neanche a guardarti intorno per cambiare la qualità di ciò che fai e la retorica del dire "cerchiamo la poesia nel piccolo quotidiano" mi sembra francamente un modo per far restare tutti al proprio posto spesso definito quasi per nascita e censo. io sono personalmente imbrigliata da sempre in un lavovro che non è più adatto a me ma mi è praticamente impossibile trovare i mezzi economici per poterlo cambiare perchè non riesco a conservare niente e non ho famiglie o altro che possa coprirmi le spalle per quel tanto che può essere necessario per costruirmi alternative. ahimè, il passaggio dal virtuale al reale è davvero un urto duro da reggere ma se cominciamo a dibattere e confrontarci a partire dalle nostre verità quotidiane, forse possiamo tentare di uscire dal tunnel dell'irrisolvibile. c'è qualcuno che sia riuscito a cambiare senza avere le spalle coperte? se sì ci racconti la sua esperienza e saremo felici di accoglierla. Un caro saluto a tutti.
Arru Basoli, 26-08-2011 12:26
Datata? Certo, e credo che se ne vanti. Che bello! Abbiamo creato l'Inferno! (cfr. la fine de "Le città invisibili"). Pensavamo, eh, che fosse nell'aldilà, invece il futuro era una premonizione di una tendenza sotterranea connaturata a questa vita e che adesso finalmente è uscita allo scoperto. Magia di quando si ragiona, come i mistici e i veri artisti, di cose senza tempo, ritrovando una sorta di costante che ti permette di parlare di cose che non sai. Quanto hanno ragione quei "geni del deserto"(di prospettive) che erano i modernisti inglesi! Ci sono strane connessioni nascoste, a questo mondo! L' Apocalisse? E' ciclica, c'è già stata e forse questa sua incarnazione è quella definitiva, la forma finale... almeno per questa era. Noi siamo quelli del dopo. E' per questo che è una buona cosa non ripartire dal presente ma raccogliere l'eredità del tempo in cui "si poteva ancora" (da "2030", Articolo 31), in cui i giochi erano ancora aperti e le forze erano entrambe sotto i riflettori, confrontabili. Dunque la strada si rivela sconnessa e probabilmente sbagliata. Si ritorna all'indeterminato,al bivio, facendoci raccontare com'era da quelli che trent'anni fa, a fine anni '70, lo hanno affrontato per la prima volta e magari senza accorgersi di aver passato il cartello. E si riprende da lì, rifacendo la strada a ritroso come chi ha perso qualcosa a cui teneva e forse s'è perso lui stesso. Dunque ben venga questo articolo che ripesca un vintage attualissimo, perchè se c'è il dirupo fare un passo indietro non è nostalgia, è amor proprio.
Marco B., 31-08-2011 09:31
@Alienda: la tua considerazione amara, chi può farcela senza avere le spalle coperte, e' purtroppo piu' che vera. Il passaggio dal "vorrei" al "faccio" e' possibile se sei in una di queste 3 condizioni: solo, ricco, pazzo. Chi ha responsabilità di una famiglia da mantenere, figli da mandare a scuola, vecchi da accudire, o e' ricco o e' pazzo, oppure non riesce ad uscirne, a meno che non succeda qualcosa che lo obbliga; chi fatica ad arrivare a fine mese non puo' dall'oggi al domani lasciare quello straccio di reddito che ha per migliorare la propria condizione, a meno che abbia solo se stesso a cui badare, oppure sia pazzo o obbligato. Non mi dilungo sulla pazzia (c'è chi ne ha fatto l'elogio, e forse e' quella che ci salvera' ...). @Marco B. Nello stesso tempo sono arrivato anche io alle conclusioni di Marco pensando che la causa di molte nostre frustrazioni (che tra parentesi ci costano, anche economicamente tantissimo) sono dovute al sentirci inutili nell'attività lavorativa che svolgiamo e nel non lavorare per soddisfare, almeno in parte, i nostri bisogni primari.
Claudio, 09-09-2011 04:09
Vengo alla mia esperienza. Tirando la cinghia per tre anni e "mangiandomi" tutta la liquidazione ed un fondo pensione integrativo, sono riuscito (sfruttando il momento propizio) a cambiare lavoro e ad iniziare un'attivita' in proprio nel campo delle energie rinnovabili. Ma capisco che sarei presuntuoso a dire, se l'ho fatto io puo' farlo chiunque. Altre piccole cose che sto cercando di praticare, però, sono piu' accessibili (tempo permettendo, ma per chi guarda la tv c'è la possibilità di trovare facilmente 1-2 ore al giorno a costo zero buttando l'elettro-manipolatore-domestico): orto (siamo riusciti a metterci d'accordo in una decina per farlo insieme, così c'è sempre qualcuno che bagna (anche in quella settimana in cui sei costretto dalle esigenze lavorative o familiari a saltare), gruppi d'acquisto per pasta, olio, legumi, frutta biologica, bicicletta (sarà la crisi, o lo stress, ma ne vedo sempre di più anche qui a Torino), disegno e giochi con i bambini (che sanno-almeno quelli più piccoli-come divertirsi con niente e sono molto più artistici e creativi di tutto l'entertainment a pagamento). Con questi piccoli passi, dopo un paio di mesi scopri che hai risparmiato denaro, hai migliorato l'umore e, dopo un anno, dovresti aver anche ridotto il costo delle spese mediche. A questo punto un passo ulteriore di cambiamento si riesce a fare, con le spalle ... un po' meno scoperte.
Claudio, 09-09-2011 04:09
Mi piace questo scambio e voglio condividere quello che ritengo dovrebbe essere il mio prossimo passo di cambiamento: la condivisione con gli altri. Sarebbe bello che se ci sono tre famiglie vicine con analoghe esigenze, anziche' occuparsene singolarmente (es. spesa, portare i figli a scuola o al parco, fare i dolci, le conserve, la pietanza), potessero condividere l'incombenza e fare a turno. Questo potrebbe valere anche per piccoli lavori in casa (es. tinteggiare, aggiustare, sartoria, grandi pulizie). Se si è in più la terna potrebbe anche variare durante l'anno (per non sviluppare attriti o gelosie-di cui le donne sono esperte). Se poi si riesce anche a fare car-pooling o sharing (non solo dell'auto, ma ad esempio di attrezzi da lavoro o da cucina). Questo è quanto mi propongo per l'immediato; un passo ulteriore sarebbe quello di disporre di spazi comuni, come quelli che progettano il co-housing, e magari andare a vivere in un eco-villaggio, magari quasi-autosufficiente. Ci penseremo.
Claudio, 09-09-2011 04:09
@Claudio Io non sono convinto che per attuare il cambiamento si debba mollare tutto. Ho letto 'Adesso Basta' di Simone Perotti e sono abbastanza in disaccordo con lui, che stringi stringi, non ha fatto altro che cambiare lavoro anche se seguendo le proprie inclinazioni. Diciamo che come downshifter, mi identifico di più in un Colin Beavan, anziché in un Perotti o in una Maria Grazia Cacciola.
Stefano, 12-09-2011 03:12
Perfettamente d'accordo con Stefano T su Perotti, che ha fatto passare, forse per fini autopromozionali, il cambiamento di lavoro di una persona abbiente per un downshifting radicale ( ed elitario). Valide le motivazioni psicologiche, condivisbili ( anche perchè un pò ovvie e generiche) quelle sociologiche, totalmente fuorvianti le argomentazioni pratiche e il contesto. Il downshifting è un processo "dolce e lento", come la filosofia che lo sottende. Si tratta infatti di scalare marcia, magari una alla volta e secondo il terreno che si incontra. Non di fermarsi, scendere dalla macchina che si ha perchè ci ha stufato e salire su una nuova, perchè ci pare più attraente e modaiola. Ciao.
Mario, 13-09-2011 07:13

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