Se le donne parlano (anche) per gli altri

Se c’è una cosa che il pensiero delle donne mi ha trasmesso, è il prendere parola a partire da sé. ‘Partire da sé’ significa assumersi la responsabilità fisiologica di quello che si sta dicendo, farlo attingendo dal proprio vissuto esperienziale e senza per questo ricadere in solipsismi autobiografici. È un gesto politico, che le donne hanno fatto proprio sin dalla nascita dei movimenti che le hanno viste protagoniste, e prima ancora che questa pratica fosse teorizzata e diventasse in qualche modo maniera.

Se le donne parlano (anche) per gli altri
Se c’è una cosa che il pensiero delle donne mi ha trasmesso, è il prendere parola a partire da sé, che significa assumersi la responsabilità fisiologica di quello che si sta dicendo, farlo attingendo dal proprio vissuto esperienziale e senza per questo ricadere in solipsismi autobiografici. È un gesto politico, che le donne hanno fatto proprio sin dalla nascita dei movimenti che le hanno viste protagoniste, e prima ancora che questa pratica fosse teorizzata e diventasse in qualche modo maniera. Penso allo slogan “il personale è politico”, ma non solo. Penso soprattutto alla critica feconda che le donne – le scienziate, le epistemologhe, le storiche, le filosofe, le ambientaliste – hanno articolato nei confronti del concetto di neutralità. Neutro era lo scienziato, imparziale il giornalista, obiettivo il governante, fuori campo il regista, modesto il testimone. Quest’uomo bianco, eterosessuale, in salute, benestante si è permesso per secoli di parlare per ‘gli altri’, quelli che non avendo insieme tutte le sue caratteristiche (essere umani, maschi, occidentali, eterosessuali, sani, economicamente benestanti) restavano senza voce. Nella sua cultura restavano muti gli animali, le donne, gli abitanti del Sud del mondo, i non eterosessuali, i malati, i poveri. Erano ‘i deboli’, e in virtù di questa debolezza bisognava riconoscer loro dei diritti. Invece di lasciarli dire con i loro corpi e linguaggi, insomma, bisognava aiutarli, parlare per loro, e quando necessario anche decidere al posto loro. La sindrome del ventriloquo è stata nel mirino delle battaglie per il diritto all’aborto (ma lo è ancora oggi per tutto quel che riguarda la medicalizzazione delle cure e l’appropriazione dei corpi femminili e delle loro funzioni da parte del sistema tecnico-scientifico) come dei movimenti ecofemministi degli anni ’80 e ’90 in tema di diritti degli animali e salvaguardia del pianeta. È un problema di giustizia e anche di libertà. In fondo, un problema di rappresentanza. Adesso però mi chiedo cosa succederebbe al mondo se le donne iniziassero a parlare anche per gli altri. Perché nel bene o nel male mi rendo conto che lo stanno già facendo. La prima volta me lo ha fatto notare proprio un uomo. Durante la presentazione di una rivista parlavamo di una intervista a una sociologa del lavoro, Carmen Leccardi. “Scrivendo queste riflessioni sul tempo delle donne – diceva Leccardi per rispondere a una domanda sulla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro – ho sempre avuto in mente il fatto che in questo momento i soggetti femminili non parlano per se stessi, parlano anche per altri”. Per altri chi? Mi sono chiesta. Altri, gli uomini per esempio, mi sono sentita rispondere. È così effettivamente nel mercato del lavoro 'flessibile'. Se è in corso una transizione dalla conciliazione (tra tempi di vita e tempi di lavoro) alla condivisione di compiti e ruoli (tra uomini e donne), come è stato detto più volte, è perché le donne di oggi stanno parlando anche per i loro compagni. “Quando posso lascio parlare (al posto mio) la mia compagna, perché ha decisamente più talento” è una frase che mi è stata ripetuta più volte da giovani uomini e in diversi contesti, tutti comunque aventi a che fare con un desiderio di cambiamento sociale. Poi penso a quelle che si fanno portavoce di uomini che non ‘sanno’ parlare, o che non possono. Penso a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, alla sua fatica nel farsi carico di una vicenda su cui sarebbe dovuto essere lo Stato ad indagare con la stessa passione e lo stesso desiderio di giustizia. E penso anche a Claudia Burtone, sorella di Alessio, il ragazzo che ha ucciso con un pugno l’infermiera Maricica alla stazione della Metro Anagnina a Roma, che nonostante l’indifendibilità del fratello non rinuncia a parlare per lui. Penso infine alle donne che in Italia hanno riscoperto la disobbedienza civile e sono scese in strada in prima fila per difendere i loro territori, la salute dei loro figli, il valore insostituibile dei loro paesaggi e hanno trovato i linguaggi e le pratiche per farlo. Due esempi: l’emergenza rifiuti in Campania e il movimento No Dal Molin di Vicenza. Ho stampate in mente le immagini dei corpi di giovani e vecchie che affrontano schiere di poliziotti armati, i loro visi, le loro voci, i loro slogan. Donne che hanno dato volto e tenuta a un’opposizione durata anni e ancora in corso. Insomma, mi sembra una cosa nuova. Prima le donne parlavano da sole tra quattro mura. Poi hanno iniziato a parlare di sé nello spazio pubblico. Adesso in quello spazio stanno imparando a parlare (anche) per gli altri. E non credo per una smania di ventriloquismo.

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