Il delta del Niger ostaggio del petrolio

Dagli anni Cinquanta la Nigeria e il suo popolo sono ostaggio delle compagnie petrolifere che operano nel delta del Niger, inquinando e privando le comunità locali delle uniche fonti di sostentamento disponibili. Da un dispaccio di Wikileaks apprendiamo che chi si lamenta della situazione però è proprio la Shell.

Il delta del Niger ostaggio del petrolio
In territorio nigeriano, Africa centro occidentale, sta andando in scena da più di cinquant’anni una delle tragedie più drammatiche e devastanti che vi siano sulla faccia del pianeta. Il problema ha molti volti: ambientale, economico, sociale, geopolitico, tutti collegati in un conflitto che vede fondamentalmente tre attori principali. Coloro che hanno scatenato questo inferno a partire dal lontano 1959, cioè le compagnie petrolifere, Shell e Chevron in testa, che da decenni funestano il territorio del delta del fiume Niger per estrarre il greggio di cui la regione è ricchissima. Dall’altra parte vi sono le popolazioni locali, che subiscono pesantemente questa situazione. L’insofferenza patita in anni di soprusi li ha spinti ad auto organizzarsi in gruppi paramilitari che con azioni di guerriglia e sabotaggio contrastano il dominio delle compagnie. Il terzo giocatore è il governo nigeriano, che nella vicenda assume un ruolo ambiguo e partigiano: debole con i forti, concede licenze e autorizzazioni alle aziende petrolifere che chiedono di operare nella zona, mentre nei confronti delle comunità locali attua una politica repressiva anche violenta mirata a sopprimere ogni resistenza. Oltre a ciò, sono numerosi i casi di doppio gioco, in cui governanti corrotti chiedono denaro sottobanco per garantire la sicurezza delle operazioni di estrazione ed esportazione o vendono greggio al mercato nero. Per quanto riguarda l’opposizione armata alla colonizzazione petrolifera, il gruppo di maggior spicco è il MEND, Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger. Il MEND porta avanti da anni una lotta mirata a destabilizzare i rapporti fra multinazionali e governo nigeriano, cercando di evidenziare le carenze di quest’ultimo nel compito di garantire la sicurezza agli operatori petroliferi. Per fare ciò mette in atto attacchi, sabotaggi e sequestri, che però raramente si concludono tragicamente per i civili e i caduti di queste azioni sono quasi sempre vigilanti o poliziotti. Un caso che ci riguarda da vicino è il rapimento, quattro anni fa, di tre tecnici italiani dell’AGIP, rilasciati tutti incolumi dopo circa tre mesi di detenzione. Un’arma a doppio taglio per il MEND e per i movimenti nigeriani in generale è la caratteristica eterogeneità della popolazione, suddivisa in innumerevoli etnie e tribù. Da un lato infatti si è creato una specie di cartello di piccoli gruppi armati che agiscono con scopi e finalità molto simili, rendendo difficoltosa se non impossibile l’azione di controllo e repressione da parte del governo, che procedendo per arresti e uccisioni non riesce comunque a smantellare un’organizzazione fantasma non strutturata gerarchicamente. Dall’altro lato, tuttavia, la storica riottosità tribale dell’Africa centrale provoca grossi problemi di convivenza e sono numerosi i conflitti intestini fra tribù e gruppi etnici rivali. Le rivendicazioni del MEND sono di carattere ambientale ed economico. Il fiume Niger infatti, rappresenta una risorsa vitale per i milioni di persone che abitano i settecentomila chilometri quadrati del delta e che traggono sostentamento dalla pesca e dalla lavorazione delle terre fertili circostanti. Il livello di inquinamento provocato dalle attività estrattive però è elevatissimo: Amnesty International ha stimato in un suo rapporto che dal 1959 sono stati riversati nell’ambiente dai nove ai tredici milioni di barili di petrolio, provocando una catastrofe ambientale che dura negli anni e che per intensità è inferiore solo alla recente marea nera del Golfo del Messico. Oltre che ambientali, i danni sono anche di natura sociale ed economica: le sole fonti di ricchezza delle comunità locali sono state irrimediabilmente compromesse e questo ha provocato un’ondata di povertà che ha coinvolto più di trenta milioni di persone. Il paradosso di questa situazione è rappresentato dall’introito che sulla carta il business petrolifero genera per la Nigeria, che dall’inizio della campagna estrattiva ammonta a circa seicento miliardi di dollari e pone il paese al quinto posto nel mondo in questo settore. Tuttavia, come sottolinea il MEND, la quasi totalità di questi soldi è finita nelle tasche dei governanti, spesso corrotti, oppure è ritornata alle compagnie petrolifere, in virtù di accordi vantaggiosi per loro e penalizzanti per la popolazione, che rendono l’area del delta una specie di paradiso petrolifero (la stessa sorte, come abbiamo spiegato in un precedente articolo, rischia di subirla anche l’Italia). Recentemente, come se non bastasse, Wikileaks ha diffuso i contenuti di una conversazione fra Ann Pickard, vicepresidente esecutivo Shell per l’Africa, e Robin Sanders, ambasciatrice americana in Nigeria. Nel dispaccio, diffuso una settimana fa ma risalente al febbraio del 2009, Pickard aggiornava il diplomatico USA sui problemi che la Shell e le altre compagnie stavano e stanno tutt’ora incontrando nella loro attività in Nigeria. Da un lato vi è la situazione riguardante la sicurezza, gravemente minacciata soprattutto dagli attacchi dei pirati alle petroliere, anche durante le operazioni di carico del greggio. Dall’altro, la crescente corruzione dei funzionari nigeriani che operano vendite sottobanco di barili di greggio. Il tutto in una situazione di grande incertezza politica per via delle precarie condizioni di salute del presidente Umaru Yar’Adua, poi deceduto nel giugno del 2010. La conversazione appare quasi surreale, con la rappresentante della compagnia anglo-olandese che si lamenta delle condizioni penalizzanti in cui opera la sua azienda, dimenticando i decenni di vessazioni ambientali, politiche ed economiche a cui il cartello petrolifero internazionale ha sottoposto, continuando a farlo ancora oggi, le comunità del delta. Accogliendo idealmente il testimone di Ken Saro-Wiwa – scrittore nigeriano di etnia Ogoni, storico oppositore delle corporations del petrolio, arrestato e giustiziato nel 1995 –, l’attivista Ken Tebe rileva come sia consistente la responsabilità in tutta questa faccenda del governo americano, che con grande ipocrisia (e colpevole ritardo, si potrebbe aggiungere), in seguito al disastro del golfo del Messico, ha studiato misure di protezione ambientale volte a preservare l’ecosistema dai danni provocati dalle compagnie petrolifere, mentre in Nigeria appoggia da più di cinquant’anni un’attività che sta devastando il territorio e uccidendo le popolazioni locali.

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