Lo sviluppo insostenibile, il caso di Monterotondo Marittimo

A Monterotondo Marittimo, piuttosto che valorizzare il territorio e proteggere l'ecosistema montano, gli amministratori hanno adottato una serie di strategie che non hanno apportato alcun beneficio alla popolazione locale. Solo uno tra i casi italiani, in cui le azioni intraprese dalle amministrazioni dietro il baluardo dello 'sviluppo sostenibile', sembrano rientrare in un assurdo progetto di 'distruzione pianificata' del territorio.

Lo sviluppo insostenibile, il caso di Monterotondo Marittimo
Un paesino di 1300 anime dell'entroterra collinare maremmano: Monterotondo Marittimo. Economia che vive di turismo, prodotti agricoli locali di alta qualità (vino, olio, salumi, formaggi) e della produzione elettrica di 5 centrali geotermiche. Potrebbe apparire un ottimo mix di consumo sostenibile, di risorse locali e di condivisione energetica con la comunità provinciale, e comunque dovrebbe risultare evidente che l'identità rurale di base, pur con le magre opportunità di un territorio collinare maremmano, offre lavoro e prospettive per gli attuali abitanti e per i posteri. Quantomeno un accettabile livello di 'sviluppo sostenibile', dove l'introduzione di adeguate tecnologie agricole può garantire un valido livello di qualità della vita e l'offerta di prodotti tipici pregiati e richiesti dal mercato. In pratica l'uscita da una mera economia di sopravvivenza dei secoli scorsi per entrare nelle più soddisfacenti produzioni di nicchia di alto livello. Se a ciò si aggiunge anche il turismo naturalistico ed enogastronomico, è facile comprendere che il territorio ha ottime prospettive occupazionali e di richiamo, auspicando inoltre anche la riapertura e il rilancio dell'attività termale, un tempo qui attiva. Alla popolazione è affidata la tutela di questo territorio, come una 'casa comune', impedendo qualsiasi danno e trasformazione lesiva che ne depauperi valenze, attrattive, identità, o peggio ancora, la salubrità; e in primis agli amministratori locali, chiamati a governare il territorio, sia con normative attente e garantiste, che con strategie orientate alla salvaguardia dell'esistente ed all'incentivazione di attività congruenti e valorizzanti. Malauguratamente ciò non è avvenuto nei decenni scorsi – né ora risulta un cambiamento di indirizzo –, anzi i responsabili dell'amministrazione comunale hanno sempre ceduto alle pressioni politiche provinciali e regionali per trasformare il territorio ad uso e consumo delle necessità altrui, con impiantistiche industriali impattanti, di elevato consumo di risorse economiche pubbliche, prive di ricadute e squalificanti dell'identità rurale nel 'Primo distretto rurale d'Europa', quale è la provincia di Grosseto. In pratica uno sviluppo che nulla ha di sostenibile, ma lo millanta e ne trae fonte di finanziamento pubblico. Una precisazione Andando all'originaria definizione di 'sviluppo sostenibile', fine degli anni '80 del secolo scorso, troviamo: "uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni", ove si teorizza l'equilibrio delle 3 "E": ecologia, equità, economia. Negli anni successivi, il concetto viene modificato sino alla definizione di Herman Daly che introduce condizioni all'utilizzo delle risorse da parte dell'uomo: - il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; - l'immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell'ambiente non deve superare la capacità di carico dell'ambiente stesso; - lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo. Se tutto ciò può apparire, quantomeno a livello teorico, un buon livello di salvaguardia di ambiente e territorio, tuttavia nasce da un presupposto messo in discussione in tempi recenti, e su cui è necessario riflettere attentamente. In altre parole si parte dall'assioma di un implicito 'sviluppo', e quindi aumenti di produzione e di consumi, che Serge Latouche e Maurizio Pallante criticano in quanto, sia sul piano socioeconomico, che su quello delle risorse disponibili, non è concretamente ipotizzabile per tutta la popolazione terrestre, e con i tassi di aumento demografico attuale. È sufficiente pensare ai fabbisogni di cibo, acqua e risorse energetiche, per rendersi conto che dobbiamo cambiare strategia e studiare una 'decrescita' che minimizzi qualsiasi tipologia di consumo e massimizzi lo sfruttamento delle risorse con il riuso, riciclo, e recupero. In caso contrario, il vecchio paradosso della 'botte piena e moglie ubriaca' esplode in tutta la sua contraddizione e prospetta un futuro sempre peggiore per le generazioni a seguire. Queste, non solo dovrebbero fare i conti con le scarse risorse da noi lasciate, ma sarebbero alle prese con un ambiente ostile, in quanto altamente inquinato e con enormi difficoltà a soddisfare le esigenze alimentari basilari, a rischio di carestie ed elevata mortalità. In altre parole un mondo invivibile. Qualcuno potrà obiettare, definendolo uno scenario apocalittico, ma i calcoli, non solo dei 'guru' ambientalisti ma persino di FAO e OMS, non offrono affatto smentite o speranze di alternative, a meno di cambiare rotta in tempi rapidi. Un Piano Strutturale tradito Quanto detto dimostra l'evoluzione di concetti e strategie, anche come risposta ai deleteri effetti collaterali delle dinamiche evolutive, spesso incontrollati, ma ancor peggio, non analizzati nelle implicazioni a lungo termine. A Monterotondo Marittimo si è percorsa una strategia di sviluppo insostenibile, in rapporto alle modeste dimensioni del territorio, alle risorse e alle caratteristiche identitarie, costituenti le più autentiche prospettive di vita e lavoro, puntando tutto sulle opportunità di accesso a finanziamenti pubblici cospicui e sul loro uso disinvolto. Nonostante il Piano Strutturale approvato già dal 2004 sciorini ad ogni piè sospinto la formula dello sviluppo sostenibile e ponga vincoli e tutele rigorose e dettagliate al territorio, nella pratica ciò si è rivelata una ipocrita facciata, priva di consecuenzialità e coerenza con quanto realizzato. Già all'inizio degli anni '90 qui fu ipotizzata una mega-discarica di rifiuti per sopperire alle esigenze della città di Prato. Ipotesi folle già sul piano energetico e di emissioni di gas di scarico dei trasporti, ma fortunatamente il progetto abortì per la negazione della Regione in quanto il sito era a rischio esondazione. E giustamente all'epoca qualcuno si domandò perché mai Monterotondo dovesse farsi carico ed accettare il degrado del territorio per un altro comune di equivalente superficie, le cui criticità semmai erano a carico di quella amministrazione, non certo della nostra popolazione. Ma i nostri fantasiosi amministratori non si diedero per vinti e, cavalcando il filone dei rifiuti, in cui evidentemente si trovavano a loro agio, incentivarono un impianto industriale per il trattamento del siero del latte, da cui estrarre prodotti per l'industria cosmetica e per produrre anche compost. Ipotesi valida in linea teorica, se non fosse per il sito: un fazzoletto di terra ribattezzato per l'occasione 'area industriale', privo di adeguate infrastrutture e sfacciatamente di fronte al paese, e al centro dell'area maggiormente interessata alle produzioni tipiche locali: caseifici, oliveti, pascoli, salumificio, e agriturismi. Impianto che in breve si trasformò in un collettore di rilevanti finanziamenti pubblici (si è arrivati ad un totale di circa 30 miliardi di lire; è in corso una inchiesta da parte della Corte dei Conti) e che in un decennio non produsse assolutamente nulla, trascinando poi nel fallimento anche l'amministrazione comunale, con una perdita di capitale di 2 miliardi di lire. I diversi tentativi di rivitalizzazione, con investimenti pubblici di varia fonte, e con l'assistenza di primari politici provinciali e regionali, portò solo alla morte del paziente, sempre magnificando fantomatici posti di lavoro (inizialmente sul BURT oltre 100, ridimensionati in seconda battuta a 40, poi 30, poi ancora 26, infine 11, ma attualmente solo 7 a tempo determinato), e velleitarie prospettive mai realizzatesi. Come se la strategia ed il destino di questo territorio fosse necessariamente l'industrializzazione, pur in assenza delle premesse indispensabili in questi casi: studio di mercato, piano industriale, competenze tecniche, tecnologia avanzata, adeguati quantitativi di materia prima, collegamenti ferroviari o strade adeguate. Anzi uno studio commissionato dall'Amministrazione comunale all'accreditato istituto NOMISMA nel 2004, indica proprio nel rilancio delle terme, nei prodotti tipici di qualità e nel turismo le concrete potenzialità e prospettive locali, considerando invece lo sviluppo industriale non adeguato al territorio. Nel 2003 venne anche la volta del privato, paladino con la lancia in resta, che si offrì volontario (intascando congrui finanziamenti pubblici da Patti territoriali) come salvatore delle sorti di quella che si voleva fare apparire come l'unica prospettiva del territorio: il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti altrui. Così nacque Solemme srl. Per l'occasione si scomodò persino il presidente della Provincia di Grosseto presentando questa "opportunità" come qualcosa da cogliere al volo, e trascurando il piccolo dettaglio che questa "industria insalubre di I classe" era incompatibile con l'ubicazione al centro di produzioni agricole pregiate e di presenza di agriturismi. Bazzecole per qualcuno; degrado, inquinamento e perdita di offerta turistica per i più. E comunque i posti di lavoro si contarono su di una mano ed in condizioni da terzo mondo, con rischi di gravi patologie e miasmi insostenibili, tanto che alcuni dipendenti si dimisero dopo qualche settimana. Tutto ciò sempre senza alcuna procedura di VIA o VAS, né assemblee di consultazione della popolazione, in pieno contesto feudale, con gli abitanti in condizioni di sudditi davanti al fatto compiuto. Ma anche questo impianto fallì miseramente a fine 2006 per l'assenza di mercato del prodotto finito, – ammendante di pessima qualità, invendibile –, e per i sensibili costi di trasporto dovuti anche alla posizione disagiata dell'impianto sia riguardo alla materia prima che al mercato potenziale. Qualcuno non aveva fatto bene i conti prima, e nemmeno i nostri amministratori si erano preoccupati di verificare se il gioco valesse la candela rispetto al degrado introdotto nel territorio. Difatti per ARPAT dal 2006 questo sito risulta inserito nell'elenco dei siti provinciali inquinati. Per una seria gestione industriale, sarebbero stati necessari un Piano economico, uno industriale e la consultazione di una società di verifica del progetto. Gravi carenze che portano sempre ad esiti fallimentari. Arriva ACEA Infine nel 2008 arrivò ACEA, la multinazionale romana gestrice di acque, elettricità e recentemente anche di rifiuti, e rilevò il pacchetto azionario della precedente società Solemme; non direttamente, ma tramite Acquaser, a sua volta controllata direttamente da Acquedotto del Fiora. Insomma le solite scatole cinesi per aggirare i vincoli di posizione dominante di mercato, e fare business come meglio aggrada. Comunque nel bilancio consolidato ACEA la società Solemme S.p.a. di Monterotondo risulta come strategica per lo smaltimento di rifiuti e per la produzione di energia da rifiuti. Ad oggi esiste solo l'impianto produttore di ammendante agricolo da fanghi di depuratori e ramaglie. Tuttavia, sin dall'acquisizione, ACEA ha manifestato subito l'intenzione di effettuare l'incenerimento dei rifiuti a Monterotondo ed aumentare i tonnellaggi trattati. E ciò avrebbe dovuto suonare come campanello di allarme per Amministratori degni di questo nome, non fosse altro per la breve distanza del sito dall'abitato e per le limitrofe imprese agricole citate. In pratica questo impianto, già critico per le cosiddette 'emissioni odorigene' – miasmi da materiali organici in decomposizione –, con un ulteriore inceneritore avrebbe distrutto il tessuto socioeconomico locale, se non direttamente, di sicuro tramite le emissioni inquinanti, quantomeno per le difficoltà di commercializzare prodotti alimentari potenzialmente inquinati. Invece, nuove scene di entusiasmo ai novelli salvatori e presentazioni di scenari a dir poco utopistici di sviluppo economico esponenziale. Insomma ACEA fu presentata come un re Mida, e stavolta venne a Monterotondo persino l'assessore regionale Bramerini a convalidare scelte e prospettive di successi. Per contro la popolazione fin da subito ebbe da fare i conti con 'emissioni odorigene' di non poco conto. I miasmi nauseabondi hanno interessato tutto il circondario dello stabilimento, tanto da costringere gli abitanti ad esposti e segnalazioni ad ARPAT e ASL. L'amministrazione dell'epoca ha sempre minimizzato queste criticità, inizialmente attribuendole al depuratore comunale, poi allo spandimento di concime sui campi, ed infine ammettendola, ma come saltuaria, limitata e tollerabile. Invece il problema sussiste tuttora e si prospetta un difficile futuro. Ma le sciagurate scelte precedenti producono ancora i loro effetti deleteri, e alla fine del 2010 questo comune è ancora sotto la spada di Damocle della conclusione di due procedure di V.I.A., una per l'inceneritore (dichiarata solo "superata" dall'Amministrazione provinciale, ma senza nessuna determinazione in merito) e un'altra per un inutile, assurdo ed impattante impianto eolico. Ambedue rigettati dalla attuale amministrazione, ma di difficile eliminazione sul piano tecnico-burocratico. Malauguratamente con sciagurati strumenti come 'Accordi di programma' e 'Conferenze di servizi' si riesce a superare anche l'illecito, scavalcando persino VIA, VAS e Piani comunali e provinciali. D'altronde dietro ACEA si muovono grandissimi interessi, comprese banche e lobbies, spesso supportate anche da politici, che tanto credito trovano, ahinoi, presso l'amministrazione regionale e provinciale toscana. Così come COSVIG, il promotore dell'impianto eolico, non intende rinunciare al finanziamento a fondo perduto, per la cronaca oltre 3 milioni stanziati dalla Regione, a suo totale beneficio. La nostra gallina è ancora fertile! L'appetito vien mangiando Nel mondo economico capita sovente che, finché un meccanismo ben oliato continua a produrre business, si punta a farlo produrre ancora a lungo, e magari con risultati maggiori. Poco importa se questo meccanismo ha funzionato solo perché gli organismi di controllo erano 'distratti' o conniventi, o peggio, subalterni ad un potere politico clientelare. Sempre con 'autorizzazioni facili' da parte dell'Amministrazione provinciale, scavalcando procedure VIA obbligatorie. Così avviene che Solemme, o ACEA che dir si voglia, nel 2010, non contenta delle autorizzazioni per il trattamento di 26.100 tonnellate di rifiuti, confermate anche dal Piano provinciale dei rifiuti, presenti un progetto di 'variante sostanziale' all'impianto esistente in cui inserire un digestore anaerobico ed un incremento di quantitativo per un totale di 70.000 tonnellate di rifiuti; il tutto chiedendo solo la "verifica di assoggettabilità a V.I.A."; in altre parole, chiedendo alla Provincia ancora una volta l'esclusione dalla Valutazione di Impatto Ambientale, nonostante l'introduzione di una nuova tecnologia e la quasi triplicazione dei quantitativi di rifiuti trattati. Per ACEA è solo un dettaglio che ben 30.000 tonnellate provengano da rifiuti urbani extra provinciali – in quanto esauriti quelli provinciali perché destinati ad altro impianto –, mentre 25.000 tonnellate di fanghi di depuratori proverrebbero da fuori regione; ossia che in realtà l'impianto non svolga più una funzione a servizio del territorio, come invece previsto dal Piano provinciale dei rifiuti, bensì rappresenti solo una occasione di per ACEA, ma con grave danno alla realtà socioeconomica locale, oggetto di degrado, perdita di turismo, peggiore qualità della vita, e sempre minori prospettive di sviluppo delle imprese agricole locali, o addirittura causa della loro chiusura. E ancora una volta questa disinvolta iniziativa verrebbe finanziata dalla Provincia con 2 milioni di euro da Patti territoriali. Un ulteriore uovo della gallina miracolosa! Cui prodest? Questa escalation di industrializzazione, peraltro, va ad aggiungersi ad impatti determinati da impiantistiche pregresse: 5 centrali geotermiche, circa 70 pozzi geotemici, circa 14 Km di vapordotti. La strategia più sensata sarebbe una riqualificazione del territorio con tecnologie più sostenibili e mitigazione delle criticità, – come peraltro previsto dal Piano Strutturale comunale – mentre invece ci si trova a dover fare i conti con ulteriori iniziative che introducono maggiori impatti e che alterano definitivamente il contesto e l'identità locale. Ma a beneficio di chi va questo millantato 'sviluppo'? Non certo a beneficio della popolazione residente che, a fronte dell'elettricità prodotta (pari all'85% del fabbisogno provinciale), non fruisce neppure di sconti sulla bolletta o dell'occupazione relativa in quanto le centrali sono automatizzate o telecomandate. Così pure l'impianto di Solemme, con solo 7 dipendenti, non di Monterotondo, riceve giornalmente 40 tonnellate di fanghi da depuratori urbani di comuni laziali. Anche l'eventuale impianto eolico sarebbe a totale beneficio della produzione elettrica della provincia (che peraltro vanta un surplus di oltre il 50%). Tutte impiantistiche senza nessun indotto sul territorio. Esempio emblematico di quel fenomeno deleterio che gli economisti stigmatizzano come una "industrializzazione senza sviluppo", una sorta di neocolonialismo. Ma, se le normative europee, e persino quelle regionali, caldeggiano e impongono alle amministrazioni l'autosufficienza per quanto riguarda energia e gestione rifiuti, in nome di chi e per quali inesistenti benefici Monterotondo deve fare da tappabuchi, da valvola di sfogo, per altre amministrazioni incapaci di risolvere i loro problemi? Non è lecito distruggere un territorio e l'economia locale quando non solo il buon senso indica il contrario, ma persino le norme per le Montagne Toscane definiscono in maniera precisa le linee guida e le priorità assegnate: dal miglioramento della qualità della vita dei residenti e dei servizi, all’incentivazione della sostenibilità delle attività economiche, passando per la valorizzazione delle risorse montane e la protezione dell’ecosistema montano. Per contro, le iniziative progettate sono agli antipodi di questa strategia, anzi rischiano di compromettere la salubrità di aria e suolo, di depauperare le valenze naturalistiche di un territorio ambientalmente apprezzato, di consumare superfici rilevanti, di penalizzare le attività economiche avviate e in costante sviluppo, prodotti alimentari di alta qualità, agriturismo, turismo naturalistico, nonché di svalutare terreni e proprietà. Questo, più che uno 'sviluppo sostenibile', è una 'distruzione pianificata'! Ma Monterotondo si rifiuta di essere trasformato in 'un territorio usa e getta'.

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