Il tao della decrescita, incontro con Serge Latouche

A pochi giorni dall’uscita del suo ultimo libro Come si esce dalla società dei consumi, Serge Latouche è venuto in Italia per parlare di decrescita. Siamo andati a sentirlo all’Università di Bologna.

Il tao della decrescita, incontro con Serge Latouche
Giovedì 24 febbraio, presso la traboccante aula magna del dipartimento di Chimica dell’Università di Bologna, si è svolto un incontro con l’economista e filosofo – come dice lui stesso, ora che è in pensione può occuparsi di entrambe le cose – Serge Latouche, professore emerito dell’Università di Parigi, esponente di spicco del Movimento Anti-Utilitarista (MAUSS) e propugnatore della decrescita. Il tema della giornata – organizzata da Andrea Segrè, ideatore dei Last Minute Market – era Come uscire dalla società dei consumi: il tao della decrescita, mutuato proprio dal titolo dell’ultimo libro del pensatore francese uscito in questi giorni per Bollati Boringhieri, Come si esce dalla società dei consumi. Il concetto di base con cui Latouche apre il suo intervento è quello che richiama la necessità di uscire dall’economia capitalista, che rappresenta il modello attraverso il quale si realizza la società della crescita. Per fare questo, il primo passo consiste nel rompere il paradigma tipicamente occidentale del 'sempre di più', basato sulla dicotomia produzione-consumo che ha portato a ciò che oggi viene chiamato globalizzazione. In realtà i mercati sono mondializzati già dal 1492, quando “l’America scoprì Colombo” – come dice Latouche per sfuggire alla visione eurocentrica. Nel 1989 poi, con la caduta del sistema geopolitico degli impenetrabili blocchi contrapposti, è cominciata la omnicommercializzazione del mondo. Si è instaurata così l’economia della crescita, il cui fine non è quello di crescere per soddisfare i bisogni bensì quello di crescere per crescere, attraverso un processo che parte dalla produzione, prosegue con il consumo a cui segue la produzione dei rifiuti, il tutto con un profitto sempre maggiore che arricchisce un numero di persone sempre minore. Proseguendo nella sua analisi storica, l’autore de La scommessa della decrescita individua due date, corrispondenti ad altrettanti avvenimenti che il mondo ha recentemente vissuto e che segnano una svolta importante e incoraggiante. La prima è il primo gennaio 1994, anno in cui dopo cinquecento anni di colonizzazione i nativi centroamericani hanno conquistato San Cristobal, dando inizio alla ribellione del Chiapas guidata dal subcomandante Marcos. L’altra data simbolicamente significativa è l’aprile del 2001, quando ha preso il via la guerra dell’acqua di Cochabamba, in Bolivia, contro le imprese transnazionali che spingevano per la privatizzazione. L’insegnamento importante di questi due episodi è la forza della spinta dal basso che mira a risolvere il problema, a ottenere dei diritti e non a conquistare meramente il potere. Come dice lo stesso Marcos infatti, “non vogliamo prendere il potere, perché sennò saremmo presi noi stessi dal potere”. Da questo contesto territoriale è nato quindi qualcosa di nuovo, come testimoniano le costituzioni di Ecuador e Bolivia recentemente approvate, in cui per la prima volta viene dichiarato esplicitamente che il fine della società è il benessere e non la prosperità economica. Benessere che in spagnolo viene reso dal termine buen vivir, che è diventato oramai una parola chiave per il movimento della decrescita. Nel testo costituzionale questo concetto è espresso anche in lingua Quechua, sumak kawsay, ed è accompagnato dalla affermazione che la natura è un soggetto di diritto e in quanto tale va rispettata; un passo importante nella direzione dell’abbandono della società dei consumi. Laotuche prosegue la sua esposizione con una citazione molto particolare, quella del regista e attore americano Woody Allen, che sostiene che l’umanità si trova oramai di fronte a un bivio che conduce da una parte alla scomparsa, dall’altra alla disperazione. La prima scelta, quella che conduce alla scomparsa, è caratterizzata dalla società della crescita con la crescita. È però questa una scomparsa che non ha nulla a che vedere con analoghi eventi che si sono verificati nel corso della storia del pianeta, poiché da essi si differenzia per tre aspetti: è molto più veloce, è provocata dall’uomo e coinvolge anche l’uomo stesso. Tempo fa, quando si iniziò a parlare di decrescita, essa veniva vista come l’opportunità di evitare la catastrofe. Oggi però questo non è più possibile e imboccare una simile strada consentirebbe al massimo di limitare o di gestire ciò che inevitabilmente accadrà. L’esempio tangibile è fornito dal problema del riscaldamento globale: nei prossimi anni la temperatura del pianeta aumenterà almeno di due gradi, provocando la scomparsa di molte specie viventi e grandi crisi sociali e umanitarie e questo avverrà comunque, anche nel caso in cui noi attuassimo sin da subito una riduzione dei consumi e delle emissioni. Nel caso in cui non facessimo neanche questo tuttavia, l’aumento della temperatura potrebbe arrivare anche a sei gradi e in quel caso le condizioni di sopravvivenza della vita stessa sul pianeta sarebbero messe a repentaglio. È a questo punto che Latouche ripropone uno dei suoi concetti chiave, che è fra le altre cose anche il titolo di uno dei suoi scritti, uscito nel 2002 per la EMI: decolonizzare l’immaginario. Questo processo rappresenta la sola via d’uscita dal vicolo cieco della crescita e può essere compiuto su due livelli, quello delle parole e quello delle cose. Per quest’ultimo si tratta di mettere in pratica un nuovo stile di vita: la sfida è forse più impegnativa ma almeno i suoi connotati sono chiari. Decolonizzare l’immaginario a livello delle parole è invece una prova che si potrebbe definire subdola, poiché vuol dire riappropriarsi dei termini e dei concetti che tali termini esprimono, che oggi sono stati completamente traviati. Sviluppo, crescita e progresso sono infatti parole che derivano dalla biologia e inseriti in quel contesto disciplinare hanno un senso. Gli economisti però hanno importato questi concetti applicandoli all’economia in maniera impropria e parziale, dimenticandosi che in un ciclo vitale a crescita e sviluppo segue inevitabilmente la morte dell’organismo. Tutti noi siamo quindi stati 'economicizzati' fin dalla giovane età, grazie alla scuola che inculcato nelle nostre menti i modelli della crescita occidentale e della rivoluzione industriale. La “grande bolla speculativa del mito della crescita occidentale” viene insegnata a partire da Adam Smith e dal suo La ricchezza delle nazioni e prosegue anche fuori dal contesto didattico grazie al bombardamento mediatico cui siamo sottoposti quotidianamente. Esiste tuttavia una verità storica che viene mistificata e che racconta non di ricchezza delle nazioni, bensì di arricchimento della borghesia e delle élite industriali e di impoverimento dei contadini e degli artigiani, con innumerevoli esempi di società compromesse dall’allargarsi di questa forbice, dall’Inghilterra all’India. Poi il capitalismo si è trasformato in un sistema termoindustriale grazie alla seconda rivoluzione industriale e all’avvento delle macchine. Come spiega fra gli altri anche Marx, questo ha permesso di accumulare una quantità enorme di merci che andavano però consumate, ragion per cui si è verificato un apparente miglioramento delle condizioni di vita delle classi più deboli, rese in grado di acquistare le merci che venivano prodotte. Nel dopoguerra, si è infine arrivati al perfezionamento del sistema capitalista grazie all’aggiunta di tre nuovi ingredienti: il marketing, che consente di creare desiderio di possesso, dipendenza e frustrazione, il credito, strumento studiato per permettere di acquistare anche a chi non ne ha la possibilità, e l’obsolescenza programmata, che imponendo un’aspettativa di vita sempre più breve alle merci prodotte favorisce il ricambio e quindi l’acquisto di nuove merci. L’ultima rivoluzione è quella degli idrocarburi, in occasione della quale ha fatto irruzione sulla scena il petrolio, risorsa efficientissima e apparentemente inesauribile. In realtà, così come possiamo ammirare l’immagine di una stella lontana migliaia di anni luce che in realtà è scomparsa da tempo, il nostro sistema economico si basa su una fonte energetica che è già in via di esaurimento, ma siccome la vediamo ancora ampiamente impiegata nella nostra quotidianità non immaginiamo che sia prossima alla fine. Focalizzandosi sugli obiettivi, Latouche ribadisce l’importanza di uscire dal paradigma della società dei consumi che si sorregge sull’economia, la quale, così com’è concepita oggi, è solo un’invenzione artificiale della modernità. Al contrario, l’economia deve essere ricondotta al suo ruolo subordinato alla sfera sociale e politica: non possono esistere delle leggi economiche che regolano la società, poiché solo i rappresentanti istituzionali eletti dal popolo hanno il potere di stabilire e far rispettare delle norme e non certo istituti finanziari, banche e fondi monetari che operano esclusivamente nella logica del profitto. La nuova società si deve quindi basare su quella che il decrescitista francese chiama “abbondanza frugale”, l’esatto opposto della scarsità indotta dalla società dei consumi che, per sua natura, ha bisogno che la gente provi sempre una sensazione di privazione, da cui deriva il desiderio di acquisto. Ragionando nei termini del paradigma consumista, abbondanza frugale sembra un ossimoro senza senso, ma l’unica via per conoscere la vera abbondanza è limitare i propri bisogni, cioè vivere seguendo uno stile sobrio e appunto frugale. Il modo migliore per attuare questo stile di vita è abbandonare la logica economicista del perseguimento del profitto ed entrare in quella del dono. Riprendendo il discorso sulle macchine, Latouche chiama in causa Ivan Illich e il suo concetto di tecnica eteronoma, che ci umilia e ci rende dipendenti e infine schiavi. La tecnologia non è però un demone da scacciare: al posto della macchina eteronoma può esistere la macchina come strumento conviviale, che viene utilizzata nel rispetto dell’ambiente e mantiene con l’uomo un rapporto di equilibrio; esempi di questo tipo possono essere la bicicletta e la macchina da cucire. La società conviviale pensata da Ivan Illich è per Latouche un’ottima declinazione dell’idea di decrescita, così come lo è il sistema inteso da Cornelius Castoridias che, spostando il discorso dal piano tecnologico a quello politico, immagina una democrazia che sia diretta e locale, condizioni fondamentali per evitare che questa forma di governo degeneri proprio come sta succedendo oggi. Un ulteriore approfondimento di questa idea è il municipalismo libertario di Murray Bookchin, in cui piccoli sistemi locali ne costituiscono uno più grande mettendosi in rete secondo una schema piramidale, in cui le decisioni vengono prese a livello locale e poi 'travasate' a quello successivo. Avviandosi verso la conclusione del suo intervento, Latouche chiama nuovamente in causa Woody Allen e dopo aver parlato della crescita con crescita che porta alla scomparsa, prende in esame la strada che porta alla disperazione, quella della crescita senza crescita, che è quella che stiamo percorrendo oggi, fatta di poche risorse, molta disoccupazione e funestata da una crisi che ciclicamente si ripropone per azzerare il punteggio e ripartire con il processo di produzione e consumo. La condizione in cui ci ha fatto piombare questo stile di vita è l’austerità imposta, del tutto diversa dalla frugalità liberamente scelta poiché le poche risorse che sono ancora a disposizione vengono attentamente dirottate verso quei pochi che ancora possono permettersi di sostenere ritmi di consumo sfrenati. Il progressivo esaurimento delle ultime risorse ci porterà verso una dittatura terribile che deciderà con la forza chi può consumare e chi no. Di fatto, in molti luoghi, questo avviene già. È quindi meglio la strada che porta alla scomparsa o quella che porta alla disperazione? Ironicamente, Latouche rileva che è come se ci trovassimo su una macchina lanciata senza freni verso un muro: scegliendo la crescita con crescita ci schianteremmo a trecento chilometri orari e saremmo spacciati, optando per la crescita senza crescita potremmo riuscire a ridurre la velocità a duecento chilometri orari, ma l’impatto sarebbe comunque fatale. Né rilancio dei consumi né austerità imposta dunque, per attuare il cambiamento ci vuole una rivoluzione culturale che inneschi inevitabilmente una rivoluzione reale, perché è inutile cambiare il software se non si cambia anche l’hardware. La strada della decrescita ha molto in comune con la filosofia zen – da qui l’idea di usare lo slogan Il tao della decrescita come sottotitolo per l’incontro: si può arrivare alla felicità solo se si sa limitare i propri bisogni e i propri desideri. Oltre a quella zen sono molte le filosofie, le culture e le correnti di pensiero che la pensano in questo modo; così la decrescita può essere interpretata non come la sola alternativa, quanto piuttosto come una matrice di alternative, differenti nei modi ma uguali nell’obiettivo: porre fine alla società della crescita.

Commenti

Grazie per aver pubblicato questo articolo. Ho quasi sessantanni e ancora mi illudo che "qualcosa" possa cambiare. Ma fino a che saremo dominati dalle multinazionali, dalle banche e , in ultimo da una politica di m...a al servizio delle predette strutture, non escludendo le religioni i cui ministri sono al servizio dei cosidetti potenti di turno....... Bisogna sconfiggere la mentalità "dell'apparire"..... ma per fare questo bisogna smetterla di farsi rincoglionire da gente che studia apposta per rincoglionire..... in sintesi, bisogna cominciare ad usare ognuno la propria testa e "non dare il cervello all'ammasso", ma questo lo dicevamo già nel '68!!! Non è , forse , servito molto. Nel 1970, avevo 18 anni, sostenni l'esame di stato per diplomarmi geometra e svolsi il tema di italiano riguardante "l'inquinamento". Anche altri svolsero questo tema parlando di mari e di laghi inquinati; io azzardai una ipotesi: il più grande inquinamento esistente è nel cervello delle persone..... nulla mi chiesero i professori sul "tema" nei successivi esami orali che ho sostenuto, mentre ad altri chiesero chiarimenti sui temi svolti. Evidentemente era un argomento un pò scomodo. Oggi svolgo la libera professione di geometra prediligendo la bioedilizia che ho studiato e sto studiando da autodidatta, ma quanto è difficile far capire alla Clientela certi semplici concetti!!! Perdonatemi se riscontrate qualche errore nella forma , ma ho scritto di getto. Saluti Giovanni GREGORETTI geometra.
Giovanni Gregoretti, 03-03-2011 07:03
Caro Giovanni, ho qualche anno meno di te ma sono altrettanto sconfortato. Credo di aver fatto tutti i passaggi, ho preso la laurea (anzi due!), ho cambiato alcuni lavori per capirmi, ho fatto volontariato in una associazione ambientalista, ho avvicinato la politica, ma da alcuni anni ho scelto di "coltivare l'orto" e passare le serate con pochi amici con i quali condivido alcuni valori fondamentali. Credo che bisogna partire da qui, dal ritrovarsi, percependo una "lunghezza d'onda" comune, condividendo una disponibilità a confrontarsi e costruendo l'ipotesi di una via di uscita, non solo personale, da un sistema sociale che ci ha riempito la pancia ma svuotato il cervello. Cordialmente, Luca
Luca Bartolucci, 11-03-2011 11:11

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